Verità, giustizia, misericordia. Per un’analisi del “metodo Francesco”
«Io credo in Dio. Non in un Dio cattolico, non esiste un Dio cattolico, esiste Dio.» Parola di papa Francesco. Il concetto non è nuovo, perché già espresso, più compiutamente, dal cardinale Carlo Maria Martini nell’intervista al confratello gesuita Georg Sporschill. Il problema è che adesso qualcuno si pone una domanda analoga, ma con un soggetto diverso. Al posto di Dio c’è il papa: Francesco è cattolico?
Settembre 2015, vigilia del viaggio di Francesco negli Stati Uniti. Su uno sfondo nero come la pece, il volto di papa Francesco appare in penombra. È la copertina di «Newsweek», e l’espediente è noto: quando si vuol mettere in discussione il romano pontefice lo si dipinge sempre così, oppure di spalle. Ma è il titolo a colpire di più: «Is the Pope Catholic?». Il papa è cattolico?
Il settimanale americano, espressione di ambienti culturali, religiosi e politici certamente non favorevoli alla Chiesa cattolica, mette in bella evidenza la domanda provocatoria, che nasce dalle famose parole di Francesco, «chi sono io per giudicare un gay?» e, più in generale, dalla linea pastorale di papa Bergoglio, improntata non alla condanna ma alla misericordia, non al conflitto con la modernità ma al dialogo.
L’operazione del settimanale è trasparente. Ponendo la domanda, prende, come si suol dire, due piccioni con una fava: accusa implicitamente la Chiesa pre-Bergoglio di essere sempre stata retrograda e nello stesso tempo mette il dito nella piaga delle divisioni che il papa argentino, con le sue scelte e la sua linea, sta provocando in campo cattolico.
Il settimanale, infatti, si premura di spiegare che nei sondaggi americani Francesco è in caduta libera, perché molti cattolici conservatori lo vedono come una quinta colonna della sinistra e dell’ecologismo, però riconosce che il papa è un «superbo comunicatore» e spiega che è anche «uno scaltro custode dell’immagine del cattolicesimo», in quanto «rende superflua la necessità di ricordare ciò in cui crede» e si affida a gesti eloquenti come la rinuncia a vesti principesche, l’utilizzo di un’utilitaria per gli spostamenti e la scelta di vivere in una piccola stanza a Santa Marta.
Il titolo del settimanale americano fa riflettere: se a qualcuno è venuta in mente quella domanda, vuol dire che Francesco, in qualche maniera, la sta legittimando? Nelle parole, nell’insegnamento e nei gesti di questo papa c’è davvero qualcosa che si scontra con la fede cattolica o, per lo meno, non la rispecchia pienamente?
8 dicembre 2015. Con un appello, il quindicinale americano «The Remnant», espressione di gruppi cattolici tradizionalisti, chiede a papa Bergoglio di farsi da parte perché «un numero crescente di Cattolici, tra i quali anche diversi cardinali e vescovi, cominciano a riconoscere che il suo pontificato […] è parimenti causa di grave danno per la Chiesa Cattolica. È diventato ormai impossibile negare il fatto – scrivono i promotori – che Lei, Santità, non è in possesso delle capacità o della volontà di compiere ciò che è invece dovere di ogni papa secondo le parole del suo stesso predecessore: “Egli deve vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all’obbedienza verso la Parola di Dio, di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di annacquamento, come di fronte ad ogni opportunismo”».
A giudizio di «The Remnant», invece di centrare l’insegnamento della Chiesa sulla parola di Dio, Francesco sarebbe impegnato a proclamare le proprie idee e lo farebbe «durante molteplici omelie, conferenze stampa, dichiarazioni improvvisate, interviste a giornalisti, discorsi di varia specie e letture idiosincratiche della Scrittura. Queste idee, che spaziano dall’essere inquietanti fino alla palese eterodossia, sono perfettamente rappresentate da quel che è un po’ il suo manifesto personale, l’Evangelii gaudium, un documento contenente una serie di pronunciamenti incredibili e che mai prima d’ora un Pontefice Romano aveva osato affermare. Tra questi, annoveriamo il suo “sogno… di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione”. È inconcepibile che un Pontefice Romano possa anche solo ipotizzare un’inesistente contrapposizione tra l’autopreservazione della Santa Chiesa Cattolica e la sua missione nel mondo!»
I firmatari non perdonano a Francesco di aver parlato, nell’Evangelii gaudium, della tentazione, a cui i cattolici possono cedere, di rinchiudersi in «strutture» che offrono «una falsa protezione», in «norme» che trasformano i credenti in «giudici implacabili» e in «abitudini» che hanno il solo scopo di lasciare tranquilli. Quelle che il papa chiama strutture, norme e abitudini sono, dicono i promotori dell’appello, l’ossatura della dottrina che permette alla Chiesa di non sbandare. I richiami di Francesco, aggiungono, sono generici e producono sconcerto, mentre molto chiari sono gli epiteti, e a volte gli insulti, che il papa riserva a coloro che non la pensano come lui, definiti di volta in volta «fondamentalisti», «Farisei», «Pelagiani», «trionfalisti», «Gnostici», «nostalgici», «Cristiani superficiali», «banda degli scelti», «pavoni», «moralisti pedanti», «uniformisti», «orgogliosi, autosufficienti», «intellettuali aristocratici», «cristiani pipistrelli che preferiscono le ombre alla luce della presenza del Signore» e così via.
Molte altre sono le accuse mosse al papa nella lettera-appello. In primo piano la banalizzazione dell’idea di misericordia, che Francesco avrebbe operato in nome di una generica «tenerezza» che mette in ombra le vincolanti regole morali, mentre l’unica e vera «rivoluzione della tenerezza» avviene mediante il battesimo.
E ora un’altra copertina. Questa volta è del settimanale britannico «The Spectator», di orientamento conservatore, del novembre 2015. È una vignetta: Francesco, tutto giulivo, cavalca una gigantesca palla da demolizioni che si schianta su una chiesa riducendola a un cumulo di macerie. Il titolo dice: Pope vs Church. The Anatomy of a Catholic civil war, ovvero Il papa contro la Chiesa. Anatomia di una guerra civile cattolica. La tesi dell’autore, Damian Thompson, si può riassumere così: le riforme «disordinate» di Bergoglio e le sue dichiarazioni «selvagge» stanno suscitando apprensione tra i cattolici comuni, che lo giudicano ormai fuori controllo.
Allora: papa Francesco non è cattolico? O è troppo poco cattolico? Il 22 settembre 2015, mentre Bergoglio è in volo da Cuba verso gli Stati Uniti, l’inviato del «Corriere della sera» Gian Guido Vecchi pone la questione direttamente al pontefice: prima qualcuno ha detto che il papa è comunista, adesso altri arrivano a chiedersi se il papa sia o meno cattolico. Che ne pensa?
Ed ecco la risposta di Francesco: «Un Cardinale amico mi ha raccontato che è andata da lui una signora, molto preoccupata: molto cattolica, un po’ rigida, la signora, ma buona, buona cattolica, e gli ha chiesto se era vero che nella Bibbia si parlava di un anticristo. E lui le ha spiegato. È anche nell’Apocalisse, no? E poi, se era vero che si parlava di un antipapa… “Ma perché mi fa questa domanda?”, ha chiesto il Cardinale. “Perché io sono sicura che Papa Francesco è l’antipapa”. “E perché? – chiede quello – Perché ha questa idea?”. “Eh, perché non usa le scarpe rosse!”. È così, storico… I motivi per pensare se uno è comunista, non è comunista… Io sono certo che non ho detto una cosa in più che non sia nella dottrina sociale della Chiesa. Nell’altro volo [di ritorno dal viaggio in America Latina, nda], una sua collega […] m’ha detto, quando sono andato a parlare ai Movimenti popolari: “Lei ha teso la mano a questo Movimento popolare – più o meno era così la cosa –, ma la Chiesa La seguirà?”. E io ho detto: “Sono io a seguire la Chiesa”, e in questo credo di non sbagliare, credo di non avere detto una cosa che non sia nella Dottrina sociale della Chiesa. Le cose si possono spiegare. Forse una spiegazione ha dato un’impressione di essere un pochettino più “sinistrina”, ma sarebbe un errore di spiegazione. No. La mia dottrina, su tutto questo, sulla Laudato si’, sull’imperialismo economico e tutto questo, è quella della Dottrina sociale della Chiesa. E se è necessario che io reciti il Credo, sono disposto a farlo!».
La risposta di Bergoglio, per quanto formulata a braccio in un italiano approssimativo, permette di capire qual è l’atteggiamento del papa di fronte a certe critiche.
Prima di tutto, rispetto alla preoccupazione della «buona cattolica» che vede in lui addirittura un antipapa, Francesco fa ricorso all’espediente retorico di metterla in ridicolo. Sarei un antipapa perché non uso le scarpe rosse? Come dire: questi buoni cattolici, attaccati alla tradizione, sono soltanto dei formalisti. Poi arriva l’autodifesa sostanziale: io in realtà non ho mai detto niente che non sia già nella dottrina sociale della Chiesa.
Ma Francesco è troppo intelligente per non sapere che anche il modo in cui si dicono le cose ha una certa importanza. E infatti è il primo a riconoscere che qualche sua spiegazione può essere apparsa «sinistrina».
Un po’ ingenuo e un po’ furbo, come lui ha dipinto se stesso e come è sempre davanti ai giornalisti, per fugare ogni dubbio Francesco si dice anche disposto a recitare il Credo, e con quest’altra battuta fa capire di essere ben consapevole dello sconcerto che sta provocando in alcuni settori della comunità ecclesiale. Però procede dritto per la sua strada, perché convinto che oggi sia più importante intervenire sulle ingiustizie sociali, le povertà vecchie e nuove, i problemi ecologici e la «cultura dello scarto» piuttosto che battere su aspetti dottrinali e questioni morali (i famosi «valori non negoziabili» dei tempi di Benedetto XVI: aborto, eutanasia, omosessualità, procreazione artificiale) rispetto alle quali in un recente passato i pronunciamenti sono stati martellanti.
Ecco spiegata la sua strategia, che comunque, a onor del vero, in materia di aborto, eutanasia e procreazione artificiale, non gli ha impedito di ribadire la linea dei suoi predecessori.
Tuttavia, le copertine di «Newsweek» e dello «Spectator», così come la petizione di «The Remnant», ci dicono che c’è un disagio, e si tratta solo di tre casi fra i molti che si potrebbero citare. Un disagio ulteriormente lievitato dopo l’uscita di Amoris laetitia, l’esortazione apostolica postsinodale sull’amore nella famiglia.
Pur abituato alle discussioni e alle polemiche sull’operato dei papi (me ne occupo da più di vent’anni), devo ammettere di non aver mai assistito a un confronto così aspro. In Italia è un po’ sotto traccia, ma è in corso, soprattutto nel web. E al centro della discussione c’è lui: Francesco. Osannato da alcuni, criticato e avversato da altri. Qualcosa di analogo avvenne sotto il pontificato di Giovanni XXIII, specie dopo la sua decisione di indire il Concilio Vaticano II. Anche Roncalli, tanto amato da passare alla storia come il «papa buono», fu infatti accusato di modernismo e progressismo, anche a lui, come oggi succede a Francesco, qualcuno diede del «comunista» e ci fu chi gli imputò di essere troppo ecumenico e poco rispettoso della tradizione. Per certi ambienti, il suo richiamo all’aggiornamento fu un autentico tradimento e il dibattito sul suo operato si fece infuocato, ma forse non così duro come lo è oggi su Francesco, anche perché all’epoca i mass media non erano onnipresenti come adesso e non c’erano i social network, catalizzatori di estremismi.
In ogni caso, Bergoglio è ormai tra due fuochi: se la maggior parte delle critiche continuano ad arrivargli da «destra», anche gli ambienti più progressisti sono in fibrillazione e, dopo aver tanto sperato in lui, ora incominciano ad accusarlo di inconcludenza.
Dunque, c’è un «caso Francesco». Nel quale occorre entrare con alcune domande scomode ma inevitabili: perché, accanto agli osanna di molti, vanno aumentando nei suoi confronti le prese di posizione sempre più dure? Che cosa c’è che non va e non convince? Che cosa temono i suoi oppositori?
Molti sostengono che contro Francesco si schiera chi ha paura del futuro e di perdere i suoi privilegi. La tesi è nota, e probabilmente c’è del vero. Ma in quanto sta succedendo c’è anche di più.
Juan Carlos Scannone, il teologo argentino amico di Bergoglio e come lui gesuita (teorico, con Lucio Gera, di quella Teologia del pueblo che ha influenzato non poco papa Francesco), spiega che con Francesco la Chiesa ha fatto proprio il paradigma del Concilio Vaticano II. Dal paradigma precedente, che era a-storico, perché partiva dal «dover essere» senza fare i conti con la realtà del tempo, siamo approdati al paradigma storico voluto da Giovanni XXIII, con la richiesta di tenere più conto del personale e del soggettivo. Un cambiamento, spiega padre Scannone, evidente nella Gaudium et spes, radice e ispirazione di Evangelii gaudium, dove si mette in pratica il metodo «vedere, giudicare, agire» che fu al centro della Conferenza dell’episcopato latino-americano di Medellin (1968) e che la Chiesa del Sudamerica ha applicato fino alla Conferenza di Aparecida (2007), il cui documento finale, elaborato proprio sotto la guida di Bergoglio, è l’altra fonte di ispirazione di Francesco. Ecco perché, spiega Scannone, il papa è oggi impegnato nell’accompagnamento dei poveri, ecco perché denuncia la cultura dello scarto e chiede ai pastori attenzione e sollecitudine per ogni singola persona. La realtà è più importante dell’idea: Bergoglio lo diceva già nel 1974, quando era provinciale dei gesuiti.
Indagare sulle radici del pensiero del papa ci fa capire quanto Francesco sia legato a un certo clima – culturale, sociale e teologico – che continua a influenzarlo. Ma è legittima una domanda: quella stagione, per quanto entusiasmante, non è forse superata? O, per lo meno, non lo è in alcuni suoi aspetti?
Oggi, di fronte al dilagare di soggettivismo e relativismo, immersi come siamo nella cultura «liquida» della postmodernità, esposti al rischio di veder svanire tutti gli strumenti in grado di assicurare una valutazione morale, il paradigma storico mutuato dal Concilio Vaticano II può ancora costituire la chiave di lettura principale? Non occorre forse aggiornare e integrare il tutto con riflessioni successive? Il problema di oggi non è forse l’opposto di quello di mezzo secolo fa? Oggi, anche come Chiesa, non rischiamo forse, a differenza di allora, di essere troppo immersi nella storia e incapaci di dotarci di punti di riferimento stabili, in grado di orientare un’umanità moralmente sbandata?
Il teologo Inos Biffi, in un articolo in cui non cita mai papa Francesco ma che sembra parlare a nuora perché suocera intenda, mette in guardia da alcune derive della cultura contemporanea che possono essere assunte, fa capire, anche dalla Chiesa.
Quando la soggettività prevale su tutto, spiega Biffi, il soggetto resta in balìa delle impressioni e l’azione umana viene «a mancare di una ragione illuminata e solida», in grado di fare da fondamento delle scelte. È il grande problema del nostro tempo. Non abbiamo principi e nozioni di base per spiegare ciò che siamo e ciò che facciamo. O, per meglio dire, abbiamo principi e nozioni che fatalmente si riconducono «a istintività o a opinione non sindacabili», che è come dire all’arbitrio «allergico a qualsivoglia misurazione». Eccoci così all’«assolutizzazione del soggetto, divenuto radicalmente principio ingiudicabile di bene e di male, di valido e di invalido.» Questione che, nota Biffi, se sulle prime sembra solo antropologica e logica, diviene necessariamente teologica.
Rifiutare la «liquidità» della realtà e tornare a rivendicare per l’uomo la facoltà di «ritrovare l’intelligibilità, l’ordine, la luce delle cose, il loro essere riflesso del Verbo e perciò del Padre che le ha chiamate a vita». Ecco la sfida drammaticamente davanti a tutti noi, a maggior ragione al credente, nel tempo della società liquida. Tuttavia Francesco non sembra interessato a fare propria questa sfida. In alcune occasioni ha usato parole dure contro quello che ha chiamato il «pensiero unico», interpretandolo però in chiave sociale ed economica, non sotto il profilo filosofico e per le sue possibili implicazioni teologiche. La sua teologia, così, da un lato risulta piuttosto superata e dall’altro sembra ridursi a una teologia dei diritti che esclude, o lascia in secondo piano, i doveri.
«L’ingerenza spirituale nella vita personale non è possibile». Francesco lo dice nell’intervista a «La Civiltà Cattolica» e, fra tutte le sue dichiarazioni, è una delle più problematiche.
Qui Bergoglio sembra fare proprio, volontariamente o meno, un luogo comune tipico della postmodernità: la decisione individuale, se presa in coscienza, è sempre buona o almeno ha sempre valore, per cui nessuno la può giudicare da fuori, con una norma universale. Ma se la scelta individuale, per il solo fatto di essere stata presa in coscienza, è di per sé buona e insindacabile, non siamo in pieno relativismo? E non è forse vero che, lungo questa strada, è facile approdare all’idea, ormai diffusa anche nell’azione pastorale della Chiesa, secondo cui la sincerità e la spontaneità cancellano la natura del peccato?
È davvero così misericordioso rispettare la scelta di vita di ciascuno solo perché è una scelta fatta in libertà e sincerità? La Chiesa non dovrebbe forse portare alla luce la condotta di vita improntata al peccato? E non sta forse proprio in questo esercizio la forma più alta di misericordia? Se la Chiesa non mostra il peccato, se non consente al peccatore di fare chiarezza dentro di sé, secondo la legge di Gesù, non si condanna all’irrilevanza? Il primato della coscienza non può essere confuso con l’impossibilità o l’incapacità di giudicare. A rischio è l’autorevolezza stessa del papa oltre che il destino eterno delle anime.
Quando Francesco sostiene che «ciascuno ha una sua idea del bene e del male e deve scegliere di seguire il bene e combattere il male come lui li concepisce», che cosa dobbiamo pensare? Qui emerge una concezione soggettivistica e relativistica della coscienza morale che sicuramente non si sposa con quanto ha sempre insegnato la Chiesa. Per il cattolico non esiste forse il vero bene, oggettivo?
A parte le manipolazioni e le omissioni massmediatiche (che sono sempre da mettere nel conto), occorre tornare sul nodo più grande, che comprende tutti gli altri: in un contesto culturale e spirituale come il nostro, segnato profondamente dal soggettivismo (la realtà si risolve nell’esperienza particolare del soggetto, unico giudice di se stesso) e dall’emozionalismo (il criterio dell’agire morale non sta nella ragione ben formata, ma nell’emozione provata vivendo una data esperienza), il nuovo paradigma di Francesco non si risolve forse in un formidabile contributo, per non dire in un cedimento, allo spirito del tempo, già profondamente caratterizzato dal trionfo del contingente sull’assoluto, del transitorio sullo stabile, del possibile sul necessario?
Insomma, in Francesco emerge del relativismo? Domanda che ne porta con sé un’altra: sulla base di Amoris laetitia, il «metodo Francesco», precisamente, è concepito per portare alla salvezza dell’anima o semplicemente per il benessere della persona? Da una spiritualità fondata sui diritti di Dio e i doveri dell’uomo, siamo forse a una spiritualità centrata sui doveri di Dio e i diritti dell’uomo?
«Se per fondamentalista si intende qualcuno che insiste sulle cose fondamentali, sono un fondamentalista. Quale sacerdote, non insegno me stesso e non agisco per me stesso. Appartengo a Cristo.» Così parlò il cardinale Raymond Burke, canonista. Un modo per dire che non è d’accordo con la linea Bergoglio.
Ma anche il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Gerhard Ludwig Müller, è piuttosto esplicito: «Abbiamo la dottrina della Chiesa che è espressa anche nel catechismo, nel concilio di Trento, nel Concilio Vaticano, in altre dichiarazioni della nostra congregazione. La pastorale non può avere un altro concetto rispetto alla dottrina, la dottrina e la pastorale sono la stessa cosa. Gesù Cristo come pastore e Gesù Cristo come maestro con la sua parola non sono persone diverse. La misericordia di Dio non è contro la giustizia di Dio.»
E che dire del cardinale Robert Sarah, che nel suo best seller Dio o niente sostiene che la Chiesa va incontro all’autodissolvimento se dimentica di indicare una strada dottrinale e morale certa? «Sono la Via, la Verità, e la Vita. È questo che è stabile. È questo che io cerco di testimoniare», dice Sarah nell’aprile 2016 a «l’Occidentale». Dopo che Benedetto XVI ha messo in guardia dal pericolo della dittatura del relativismo, secondo Sarah ci troviamo effettivamente in un mondo in cui tutto è possibile: «Non abbiamo più radici. Niente di stabile. Eppure noi una Dottrina stabile l’abbiamo, abbiamo una Rivelazione. Far sì che la gente toni alle radici delle cose, della Rivelazione, è un dovere per noi Vescovi. Non possiamo lasciare la gente senza una strada sicura. Senza una roccia su cui appoggiarsi. Nella parrocchia la roccia su cui appoggiarsi è il parroco, nella diocesi è il Vescovo, nella Chiesa universale, è il Papa. E noi cerchiamo di aiutare il Santo Padre ad assicurare la gente che una stabilità esiste. Che c’è una strada. E la strada è Gesù Cristo». E quando poi gli chiedono se anche lui, come il cardinale Burke, è un fondamentalista, sorride e risponde: «Sì, sicuramente».
Un pastore come Sarah è troppo fedele al papa per entrare in polemica diretta, ma quando dice, per esempio, che l’ingiustizia più grande è dare ai bisognosi soltanto cibo, dimenticando che hanno bisogno di Dio, la contrapposizione con la linea Bergoglio non è poi tanto nascosta.
Secondo i critici come Sarah, inoltre, dietro la proposta di Bergoglio ci sarebbe un equivoco. Parliamo di povertà della Chiesa, ma in realtà vogliamo la sua desacralizzazione. Diciamo che la Chiesa deve accompagnare, ma neghiamo la percezione della grandezza e la maestà di Dio. Al suo posto mettiamo la nostra azione. Cristo ha detto che la Verità ci libererà, ma oggi la questione della Verità non è presa in considerazione. Ci occupiamo solo della libertà, e così sviluppiamo una riflessione monca, perché non c’è autentica libertà senza verità. E se non c’è la Chiesa a ricordare, sulla base della retta dottrina, il confine tra autentica libertà e schiavitù, chi mai può indicare la strada? Dice Sarah: «La vera libertà è quella che impegna a cercare il Vero, il Bello, la Giustizia […] Essere liberi è possibile solo in Cristo. Solo Lui ci libera. Non ha niente a che fare con ciò che mi piace. E la Chiesa deve mantenere questa strada.»
Non stupisce che, soprattutto dopo Amoris laetitia, molti osservatori abbiano annunciato la nascita di una Chiesa nuova, la «Chiesa di papa Francesco», una Chiesa non più giudicante ma dialogante nel senso in cui la cultura dominante intende il dialogo: cioè una Chiesa neutrale e neutra, priva della capacità e della volontà di distinguere, di valutare, di esprimere un giudizio. Ma inevitabile è una domanda: se la Chiesa non giudica, non distingue e non valuta, qual è la sua funzione? Francesco, con il suo paradigma pastorale della misericordia, sembra rispondere che lo scopo della Chiesa è quello di consolare e accompagnare, ma può esserci consolazione senza valutazione? Può esserci accompagnamento senza giudizio?
Il papa ha forse decretato che il modo soggettivo di vivere un’esperienza è l’unico metro in grado di valutare la qualità morale dell’esperienza stessa?
Se un dolente Paolo VI, nel lontano 1972, arrivò alla conclusione che «attraverso qualche fessura il fumo di Satana è entrato nella Chiesa», oggi possiamo chiederci: attraverso quelle fessure è entrato anche il relativismo?
Arrivati a questo punto della nostra indagine si potrebbe sostenere che, in fondo, non esiste un solo relativismo, ma ne esistono almeno due: uno «cattivo» e uno «buono». Quello «cattivo» sarebbe il relativismo che conduce dritti dritti al nichilismo e, per suo tramite, alla disperazione, all’impossibilità di nutrire qualunque tipo di speranza in qualcosa di stabile e assoluto. Il relativismo «buono» sarebbe invece quello che, pur riconoscendo la variabilità estrema delle situazioni umane, continua a credere in un Assoluto.
Secondo alcuni osservatori, con il suo paradigma del samaritano papa Bergoglio si inserisce nel secondo filone: annuncia la speranza cristiana, ma è relativista nel prendere atto che nella vita tutto è contingente.
Qui si apre però la grande questione: in che modo si annuncia la speranza cristiana? Nelle sue catechesi sulla misericordia, Francesco ribadisce: «Siamo tutti chiamati a percorrere lo stesso cammino del buon samaritano, che è figura di Cristo: Gesù si è chinato su di noi, si è fatto nostro servo, e così ci ha salvati, perché anche noi possiamo amarci come Lui ci ha amato, allo stesso modo». Ma che cosa significa, precisamente, «chinarsi»?
Si può rispondere: significa sostenere, incoraggiare, mostrare la propria compassione, aiutare concretamente. D’accordo, ma solo questo? Se parliamo di speranza cristiana, non significa anche «trasmettere» Gesù? E questa «trasmissione» di Gesù si esaurisce nel prestare soccorso o implica anche la trasmissione di norme morali imprescindibili, senza le quali abbiamo soltanto una prova di umana solidarietà ma non la testimonianza della Verità?
Tratto da: Aldo Maria Valli, 266. Jorge Mario Bergoglio Franciscus P.P., Liberilibri, 2016