Dialogo? No, grazie. Meglio la disputa
Oggi «abbiamo a che fare con un’inflazione del dialogo. Si vuole “aprire un dialogo” con ognuno e possibilmente con tutti… Non è tanto importante l’argomento che trattiamo; è più importante la relazione che intessiamo nel dialogo. Il percorso è la meta».
Questa critica del dialogo ecumenico fine a se stesso, coltivato come un bene in sé, al di là della questione su cui si dialoga, non arriva da qualche rappresentante del conservatorismo cattolico. Anzi, l’autore non è nemmeno cattolico. Si tratta infatti di Jürgen Moltmann (Amburgo, 1926), il teologo evangelico già docente a Tubinga e autore del celebre «Theologie der Hoffnung», «Teologia della speranza», del 1964.
La riflessione sul dialogo è contenuta nel suo articolo «La Riforma incompiuta. Problemi irrisolti, risposte ecumeniche», pubblicato in «Concilium» (n. 2, 2017, pag. 142), ed è resa ancora più interessante dal fatto che Moltmann introduce una distinzione tra «dialogo» e «disputa». Scrive infatti: «Il dialogo dei nostri giorni non è funzionale alla verità», bensì alla «comunione», ed è così che subisce una sorta di edulcorazione. Il tentativo di evitare gli spigoli porta all’appiattimento, e la teologia ne risente.
«In passato – scrive il novantunenne Moltmann dall’alto della sua lunga esperienza – la gente si lamentava della voglia di litigare che avevano i teologi (“rabies theologicorum”); oggi la teologia è diventata una faccenda talmente innocua che difficilmente trova ancora pubblica considerazione».
Alla ricerca della comunione, le asperità sono limate fin quasi a scomparire. E ciò che resta è spesso una tolleranza priva di contenuti che sacrifica la passione per la verità.
Moltmann è esplicito nel suo elogio della disputa: «Dobbiamo imparare nuovamente a dire di no. Una controversia può portare alla luce più verità di un dialogo tollerante. Abbiamo bisogno di una cultura teologica della disputa, condotta con risolutezza e rispetto, per amore della verità. Senza professione di fede la teologia è priva di valore e il dialogo teologico degenera in puro scambio di opinioni».
Più chiaro di così l’anziano teologo evangelico non potrebbe essere, ed è significativo che la sua rivalutazione della disputa, contro l’inflazione del dialogo, arrivi proprio nell’anno in cui, tra molteplici inni al dialogo e ben poca attenzione per la questione della verità, si celebra il mezzo millennio dalla Riforma. «Comunione e verità non procedono più di pari passo?», si chiede Moltmann.
«C’è anche l’evidenza – commenta Silvio Brachetta su «Vita nuova», il settimanale cattolico di Trieste – della scomparsa della via di mezzo: le discussioni odierne possono essere dialoghi o polemiche. Quasi mai c’è un dibattito costruttivo, per la dimostrazione di un qualcosa. Si assiste ad incontri rilassati, a basso contenuto scientifico; e si oscilla tra qualche considerazione in serenità o all’impeto eristico di chi cerca di avere ragione con foga. In genere si preferisce il monologo, perché ha il pregio di non dover essere dimostrato a tutti i costi: l’interlocutore non deve fare la fatica di controbattere, ma oppone semplicemente un altro suo monologo».
Osservazioni condivisibili, alle quali però il professor Stefano Fontana, sempre su «Vita nuova», aggiunge un’ulteriore riflessione: «Silvio Brachetta ha ragione a dire che il dialogo senza verità è morto e a lodare il teologo protestante Jürgen Moltmann per averlo detto. Però non va dimenticato che l’assolutizzazione del dialogo deriva proprio dalla penetrazione nella Chiesa cattolica della mente protestante».
«La questione dell’abuso cattolico del dialogo – scrive Fontana – è antica. Già le opere preconciliari di Karl Rahner ponevano le basi per un dialogo senza contenuti. Il conciliarismo successivo al Vaticano II ha applicato e sviluppato il concetto, utilizzando maldestramente l’enciclica “Ecclesiam Suam” di Paolo VI». È vero: «Oggi si dialoga senza sapere più per quali contenuti dialogare», ma, proprio in omaggio alla verità, non bisognerebbe dimenticare che «questo vizio è dovuto alla penetrazione del protestantesimo nella mente cattolica».
È d’altra parte significativo che il fastidio per il dialogo fine a se stesso sia manifestato da un protestante come Moltmann. «Vuoi vedere – si chiede Fontana – che i protestanti si ravvedono prima dei cattolici?».
E qui il professore fa un approfondimento necessario: «La teologia cattolica ha sempre insegnato che la fede è composta di due aspetti: la “fides qua”, ossia l’atto personale di fede, e la “fides quae”, ossia i contenuti rivelati che si credono per l’autorità di Dio rivelante. Lutero separa i due aspetti, anzi elimina il secondo, sicché la fede è solo un rapporto soggettivo di coscienza del fedele con Dio. È una fede “fiduciale”, un fidarsi cieco, un mettersi nelle mani di Uno senza motivi di contenuto. La fede protestante è infatti una fede senza dogmi e la Chiesa è solo spirituale, fatta cioè da tutti coloro che si affidano, in questo modo “fiduciale”, a Cristo. Per questo motivo l’unità non è data dalla comune confessione degli stessi contenuti di fede, come la Chiesa cattolica ha sempre insegnato a cominciare, appunto, dai Confessori della Fede, ma è data dal con-venire delle singole soggettività in un unico atto di fiducia. Il con-venire soggettivo sostituisce i motivi rivelati del convenire stesso».
«L’accento si sposta sull’atto e non più sui contenuti dell’atto. Ecco perché oggi, anche nella Chiesa cattolica, la pastorale “come azione ecclesiale” viene prima della dottrina, ne è indipendente e, addirittura, riformula la dottrina. Si tratta di una concezione di origine protestante. Ecco perché ad ogni convegno ecclesiale si insiste sulla bellezza del con-venire, anche se in queste convention poi si sentono mille eresie dal punto di vista dogmatico. Ecco perché si parla di una Chiesa “plurale” o “aperta”, secondo l’indicazione di Karl Rahner – che era cattolico nella forma ma protestante nei contenuti – della quale possono fare parte tutti, compresi eretici ed atei. La “fides quae” viene persa di vista o, comunque, considerata di importanza derivata. L’eresia viene derubricata a diversità di opinione».
L’argomentazione di Fontana è cristallina e non avrebbe bisogno di ulteriori spiegazioni, ma è l’autore stesso ad attualizzare il tutto con un riferimento a una vicenda che ha causato tanto dolore: «Nei giorni scorsi abbiamo assistito alla tragedia del piccolo Charlie Gard. Gli uomini di Chiesa sono arrivati in ritardo, hanno balbettato cose diverse, il quotidiano “Avvenire” ha deviato l’attenzione dai temi veri e ha detto l’opposto di quanto aveva detto nel 2009 per Eluana Englaro. Non siamo più in grado di confessare insieme nemmeno i principi elementari della legge morale naturale e nemmeno i dieci comandamenti. Su molte cose lasciamo che sia la coscienza a discernere. Alla Chiesa del con-venire manca sempre di più su cosa e Chi convenire, se sul Cristo della fede o sul Logos che rivela la verità perché è la Verità».
Stefano Fontana nel suo articolo accenna all’«Ecclesiam Suam» di Paolo VI (1964), che può essere effettivamente considerata l’origine della «svolta dialogica» in teologia. Tuttavia papa Montini nel documento non dice che il dialogo ha valore in sé, ma che occorre dialogare per convertire, e sebbene Romano Amerio, in «Iota Unum», parli di equazione incoerente e impossibile «tra il dovere che incombe alla Chiesa di evangelizzare il mondo e il suo dovere di dialogare col mondo», bisogna ricordare che Paolo VI esalta il «dialogo della sincerità» e, a proposito di ecumenismo, precisa: «Noi siamo disposti a studiare come assecondare i legittimi desideri dei Fratelli cristiani, tuttora da noi separati» perché «nulla tanto ci può essere più ambito che di abbracciarli in una perfetta unione di fede e di carità», però «dobbiamo pur dire che non è in nostro potere transigere sull’integrità della fede e sulle esigenze della carità».
Paolo VI non esita nemmeno a mettere in guardia dal relativismo, eppure la sua enciclica è stata abbondantemente utilizzata in senso relativistico.
Eliminati tutti i punti in cui Montini stigmatizza il «compromesso ambiguo» così come l’irenismo e il sincretismo («Il nostro dialogo non può essere una debolezza rispetto all’impegno verso la nostra fede… Solo chi è pienamente fedele alla dottrina di Cristo può essere efficacemente apostolo»), l’«Ecclesiam Suam» è stata ridotta a manifesto di una superficiale e indistinta amicizia tra la Chiesa e il mondo, e, come giustamente ricorda Brachetta, bisognerà aspettare Joseph Ratzinger, con la «Dominus Iesus» (anno 2000) per una denuncia di quella «ideologia del dialogo» che, penetrata anche nella Chiesa cattolica, «si sostituisce alla missione e all’urgenza dell’appello alla conversione».
Insomma, a dispetto delle preoccupazioni di Paolo VI, il relativismo è entrato nella Chiesa ed ha usato l’idea di dialogo in modo strumentale. Ecco perché chi ha a cuore la questione della Verità dovrebbe far sua la proposta di Moltmann e rivalutare la disputa, lo scambio vivace di opinioni, la controversia che mette sul tavolo ragioni diverse.
Solo che, per disputare, occorre saper ragionare, e proprio questo, oggi, è il problema. Perché la nostra è sì crisi di fede, ma forse, prima ancora, è crisi della ragione.
Aldo Maria Valli