Le parole di Pietro
Le numerose e sempre vivaci reazioni a quanto Francesco dice durante le conferenze stampa sui voli di rientro dai viaggi apostolici internazionali (l’ultimo, quello dalla Colombia), spingono ad alcune riflessioni sul modo di comunicare del papa e sulla portata delle sue opinioni personali. Indagine che si lega da un lato alla questione del rilievo assunto dalla figura papale nella sfera pubblica, dall’altro a un’analisi degli autentici compiti del successore di Pietro.
Per secoli il vicario di Cristo sulla terra ha vissuto nella riservatezza, ha parlato poco e pochi erano al corrente di ciò che diceva, tanto che si poteva benissimo essere cattolici senza neppure conoscere il suo nome. Anche quando aveva un peso politico decisivo, il suo modo di esprimersi era codificato e avveniva attraverso documenti ufficiali. L’uso delle lingue correnti al posto del latino e, ancor di più, la diffusione dei mezzi di comunicazione sociale (il primo radiomessaggio di Pio XI è del febbraio 1931) hanno modificato completamente il quadro, facendo del papa una figura di rilievo mondiale, spesso al centro delle cronache. Contemporaneamente, in modo inversamente proporzionale, la sua reale capacità di incidenza è diminuita (ai tempi di Giovanni Paolo II la battuta era «applaudono il cantante ma non la canzone»), ma sta di fatto che il papa, di sua iniziativa o perché sollecitato, ha allargato enormemente la sfera di intervento, e da alcuni decenni, specie a partire dal Concilio Vaticano II, non si occupa più soltanto di fede, dottrina, morale e governo della Chiesa, ma veramente di ogni questione riguardante la vita dei singoli e della società. Con il pontificato di Francesco, poi, si è accentuata la tendenza a intervenire mediante modalità comunicative, come la conferenza stampa e l’intervista, che si prestano non soltanto ad allargare il campo degli argomenti, ma anche a sollecitare l’opinione personale del papa.
Parlare di tutto?
Ora è evidente che quando parla un po’ di tutto, e specialmente se lo fa durante interviste o conferenze stampa, senza un testo preparato in precedenza e meditato, il papa, come qualunque altro uomo, può benissimo essere superficiale o cadere in errore. Per l’osservatore avveduto, poco male. Chi conosce le prerogative e i compiti del papa sa che quando non è espresso «ex cathedra», o per lo meno non attraverso documenti ufficiali, elaborati con particolare cura, il pensiero papale, perfino se si occupa di fede e vita religiosa, vale come opinione personale. Il problema è che il «media system», pur imbevuto di laicismo, al cospetto di un papa come Francesco, il cui pensiero sotto molti aspetti si dimostra in linea con quello dominante, per proprio tornaconto diventa così clericale da «sacralizzare» ogni espressione papale. Così, anche quando si tratta di una semplice opinione personale, e anche quando l’uomo-papa dimostra di non essere sufficientemente preparato sulla specifica questione, «l’ha detto il papa» diventa una sorta di sigillo veritativo.
Un po’ di buon senso
Come rimettere, almeno un po’, le cose a posto? Non sono un teologo e non mi avventuro (a proposito di competenza) in un campo non mio. Osservo soltanto che, forse, si potrebbe applicare semplicemente il buon senso. Per esempio, intervenire solo su questioni che sono state studiate e approfondite, lasciando perdere le altre e riconoscendo che in proposito non si ha nulla da dire. Si fornirebbe così, oltretutto, un esempio di serietà e umiltà in un mondo che soffre a causa della verbosità dilagante e della pretesa di intervenire sempre e comunque, anche quando non si sa letteralmente di che cosa si sta parlando. Credo che se un’autorità come il papa, di fronte a una domanda rispetto alla quale sente di non essere preparato, rispondesse «non so», non ne risulterebbe sminuito. Anzi, darebbe un contributo di onestà e integrità superiore a quello che può dare avventurandosi in risposte che spesso ottengono soltanto il risultato di accrescere il tasso, già molto elevato, di confusione.
Un questione di prudenza
Il discorso sulla comunicazione papale si lega a questo punto a quello dei reali compiti del successore di Pietro, che oggi rischiano di essere persi di vista. In proposito mi sembra il caso di riflettere su alcune parole che Benedetto XVI pronunciò in un’udienza del mercoledì (catechesi del 7 giugno 2006) dedicata a «Pietro, la roccia su cui Cristo ha fondato la sua Chiesa».
Sottolineato che il mandato di Gesù nei confronti di Pietro arriva solo dopo che l’apostolo ha fatto la sua confessione di fede (un aspetto che non andrebbe mai trascurato), Benedetto XVI osserva che le prerogative di Pietro già in quel momento sono fissate in modo chiaro: «Pietro sarà il fondamento roccioso su cui poggerà l’edificio della Chiesa; egli avrà le chiavi del Regno dei cieli per aprire o chiudere a chi gli sembrerà giusto; infine, egli potrà legare o sciogliere nel senso che potrà stabilire o proibire ciò che riterrà necessario per la vita della Chiesa, che è e resta di Cristo. È sempre Chiesa di Cristo e non di Pietro».
«È sempre Chiesa di Cristo e non di Pietro». Questa consapevolezza, di per sé, dovrebbe spingere Pietro a esprimersi esclusivamente sui temi collegati ai suoi compiti istituzionali (ripetiamo: essere il fondamento roccioso, amministrare l’uso delle chiavi del Regno, legare e sciogliere), evitando di occuparsi d’altro e di mettere in primo piano le opinioni personali. Si tratta di esercitare la virtù della prudenza. Che non vuol dire paura, autocensura o fuga. Significa avere coscienza del fatto che tu, Pietro, sei il custode di un tesoro grande, che va ben al di là della tua persona, e non ti è dunque consentita una banalizzazione del tuo ruolo.
Ascoltiamo ancora Benedetto XVI: «Il fatto, poi, che diversi dei testi chiave riferiti a Pietro possano essere ricondotti al contesto dell’Ultima Cena, in cui Cristo conferisce a Pietro il ministero di confermare i fratelli (cfr Lc22,31 s.), mostra come la Chiesa che nasce dal memoriale pasquale celebrato nell’Eucaristia abbia nel ministero affidato a Pietro uno dei suoi elementi costitutivi».
Sono puntualizzazioni da non considerare scontate. Primo: il ministero di Pietro è uno degli elementi costitutivi della Chiesa, ma non certo il solo. Secondo: la missione affidata a Pietro è confermare i fratelli nella fede.
Annota poi Benedetto XVI: «Questa contestualizzazione del Primato di Pietro nell’Ultima Cena, nel momento istitutivo dell’Eucaristia, Pasqua del Signore, indica anche il senso ultimo di questo Primato: Pietro, per tutti i tempi, dev’essere il custode della comunione con Cristo; deve guidare alla comunione con Cristo; deve preoccuparsi che la rete non si rompa e possa così perdurare la comunione universale. Solo insieme possiamo essere con Cristo, che è il Signore di tutti. Responsabilità di Pietro è di garantire così la comunione con Cristo con la carità di Cristo, guidando alla realizzazione di questa carità nella vita di ogni giorno».
Dopo di che papa Ratzinger chiede di pregare perché «il Primato di Pietro, affidato a povere persone umane, possa sempre essere esercitato in questo senso originario voluto dal Signore».
Il papa? Un custode
Custode della fede e custode della comunione con Cristo e con i fratelli. La «povera persona umana» che diventa papa sa di non essere altro. E le sue scelte devono essere conseguenti. Anche nel modo di comunicare. Può il compito della custodia sposarsi con l’interventismo, con il protagonismo, con la tendenza a parlare di tutto manifestando le proprie opinioni personali? Certamente no.
L’esempio di Giuseppe
A proposito del concetto di custodia, papa Francesco pronunciò parole molto belle nell’omelia per la messa di inizio pontificato (19 marzo 2013), quando, prendendo spunto dalla figura di Giuseppe, custode di Maria e di Gesù, disse: «Come esercita Giuseppe questa custodia? Con discrezione, con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende […]. Come vive Giuseppe la sua vocazione di custode di Maria, di Gesù, della Chiesa? Nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio […] e Giuseppe è “custode” perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge. In lui, cari amici, vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo!».
Sappiamo quanto papa Francesco sia devoto a san Giuseppe e crediamo che ispirarsi a lui, come figura di custode, sia un ottimo proposito, anche per quanto riguarda la sfera della comunicazione.
La comunione infranta
Infine, con un aggancio alla realtà ecclesiale che stiamo vivendo, qualche considerazione sulla comunione che Pietro è chiamato a garantire.
Come forse sapete, un autorevole filosofo cattolico, Josef Seifert, amico di san Giovanni Paolo II e già membro della Pontificia accademia per la vita, è stato allontanato dalla sede spagnola dell’Accademia internazionale di filosofia, da lui stesso fondata, per aver espresso valutazioni critiche nei confronti di «Amoris laetitia» e in particolare sul paragrafo 303 del capitolo ottavo, dove, secondo Seifert, il papa arriva a sostenere che, a rigor di logica, Dio può chiedere, in talune circostanze, ogni tipo di azione cattiva, come l’adulterio, contraddicendo i suoi stessi comandamenti.
La decisione di allontanare il filosofo è stata presa dall’arcivescovo di Granada, Francisco Javier Martínez Fernández, secondo il quale Seifert «danneggia la comunione della Chiesa, confonde la fede dei fedeli e suscita sfiducia nel successore di Pietro, il che, alla fine, non serve alla verità della fede, ma agli interessi del mondo».
Mi permetto di osservare che non le lucide e rispettose valutazioni del professor Seifert (le quali avrebbero bisogno di essere discusse, non punite), ma proprio provvedimenti come quelli dell’arcivescovo spagnolo danneggiano veramente la comunione della Chiesa. E sarebbe stupendo se da Santa Marta arrivasse un segnale in senso contrario, nel nome di quella «parresia» sempre invocata.
Ma sulla questione della comunione, in relazione al caso Seifert, c’è un’altra riflessione da fare. Se n’è incaricato il professor Claudio Pierantoni, docente di filosofia all’Universidad de Chile, che in un recente saggio intitolato « Josef Seifert, Pure Logic, anche the Biginning of the Official Persecution of Orthodoxy within the Church» (http://www.aemaet.de/index.php/aemaet/article/view/46) a un certo punto scrive: «Innanzitutto, per affermare che qualcuno “danneggia la comunione della Chiesa” in qualche materia, si deve in precedenza supporre che una qualche comunione, riguardo al soggetto che stiamo discutendo, esista effettivamente nella Chiesa. Ora, quale vescovo, quale sacerdote, quale persona istruita e informata nella Chiesa cattolica oggi non sa che non esiste un soggetto attualmente più controverso e più impelagato in una così terribile confusione come questo? In quale altra materia, chiedo, “la fede dei fedeli” è più confusa dalle più contrastanti voci in conseguenza della pubblicazione di “Amoris laetitia”?».
Prosegue Pierantoni: «Qualcuno potrebbe obiettare che la confusione già esisteva prima di AL: sì, ma l’enorme problema con AL è che le correnti di pensiero relativistiche e di “etica della situazione”, che i tre papi precedenti avevano tentato di arginare, sono ora entrate surrettiziamente nelle pagine di un documento ufficiale del papa. Si è arrivati al punto che uno dei più importanti e lucidi difensori del precedente magistero durante più di tre decenni, personalmente sostenuto e incoraggiato nella sua attività filosofica da san Giovanni Paolo II come uno dei suoi alleati più preziosi nella difesa della dottrina morale infallibile della Chiesa, Josef Seifert, è ora licenziato e trattato come un nemico della comunione della stessa Chiesa».
Conseguenze disastrose
«Altrettanto ingiustificato e ingenuo, credo, è l’affermare che Seifert “semina sfiducia verso il successore di Pietro”. L’arcivescovo Martínez sembra ignaro di ciò che è altrettanto evidente di quanto abbiamo detto prima: includendo in un documento ufficiale affermazioni che contraddicono punti essenziali del precedente magistero e della dottrina millenaria della Chiesa, papa Francesco ha direttamente rivolto su di sé la profonda diffidenza di un numero immenso di fedeli cattolici. La conseguenza disastrosa è che questa sfiducia finisce col colpire, nella mente di molti, il papato stesso».
«E qual è la vera causa di questa diffidenza? Può davvero essere il forte e costante impegno di Josef Seifert di opporsi all’errore dell’etica della situazione, un impegno a cui ha dedicato quasi tutta la sua vita e quella dell’istituzione che ha fondato, in servizio fedele alla Chiesa e alla Parola di Dio? O non sarà piuttosto il fatto che a questo stesso errore, contrario a tutta la tradizione cristiana (una tradizione di recente riaffermata in un’enciclica tanto solenne e importante come “Veritatis splendor”) è stato ora consentito di insinuarsi in un documento papale?».
Penso che quando il professor Pierantoni parla della comunione infranta da alcune delle tesi sostenute in «Amoris laetitia» e della «disastrosa conseguenza» della sfiducia nei confronti del papato metta il dito in due piaghe dolorose, meritevoli di essere affrontate a viso aperto (anche pensando a chi dovrà esercitare il ministero petrino dopo Francesco) e non di essere nascoste mediante la reticenza, l’ambiguità e il ricorso alla stroncatura e alla censura.
Aldo Maria Valli