Su Marko Rupnik e le sue opere. Che non esprimono il vero e il bello

di Anthony Visco

Di recente molto è stato detto sui fallimenti morali dell’ex gesuita padre Marko Rupnik. Ma che dire dei fallimenti della sua arte?

I suoi mosaici di grandi dimensioni, realizzati per oltre duecento centri cattolici in tutto il mondo, tra cui la cappella Redemptoris Mater in Vaticano, la basilica di Lourdes e il Santuario nazionale di San Giovanni Paolo II a Washington, rimangono al loro posto e come tali sono un promemoria di disastri sia spirituali sia corporali. Ma non c’era bisogno del comportamento scandaloso di Rupnik per vedere quanto fosse problematica la sua arte.

Ben prima che i presunti scandali diventassero pubblici, l’autore Chris Moore aveva chiarito che le opere di Rupnik non sono solo brutte. La sua pratica ripetuta di dipingere un occhio condiviso tra Dio e l’uomo, caratteristica evidente e tipica della sua arte, è teologicamente fuorviante. Quando utilizzata nell’arte cattolica, questa pratica è sempre stata riservata alle rappresentazioni delle tre persone della Trinità, dove tutte e tre le teste condividono gli stessi occhi. Ma non è mai stata estesa a un altro essere umano.

Si consideri, ad esempio, il logo disegnato da Rupnik per l’Anno giubilare della Misericordia nel 2016. Il problema non è solo che è brutto. Il problema è che la teologia che rappresenta è mal concepita. Quando il logo fu presentato, l’arcivescovo Salvatore Fisichella, a capo di quello che allora era chiamato Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, dichiarò che l’occhio condiviso di Cristo e Adamo rappresentava l’idea che “Cristo vede con gli occhi di Adamo e Adamo con gli occhi di Cristo”. Tale implicazione è probabilmente il motivo per cui nessun iconografo ortodosso ha mai raffigurato una tale fusione.  Rupnik prende ciò che è sublime e lo distorce, seguendo la cultura contemporanea e ignorando le tradizioni artistiche della Chiesa.

Alcuni credono che le opere di Rupnik aiutino a colmare il divario artistico tra Oriente e Occidente. Sebbene le icone siano principalmente associate alla Chiesa ortodossa, la richiesta di icone è cresciuta costantemente al di fuori della cerchia ortodossa. Le icone ortodosse tentano di rappresentare un mondo materiale che è trasfigurato, radioso di luce divina, una realtà vista non solo con gli occhi del corpo ma anche con “l’occhio del cuore”. Nelle sue rappresentazioni, però, Rupnik non riesce a incorporare i principi fondamentali dell’iconografia ortodossa e romana. Quindi, come può l’opera di Rupnik tentare di unire Oriente e Occidente quando manca delle caratteristiche fondamentali di entrambi? Le finte somiglianze non colmeranno il divario tra Oriente e Occidente.

In effetti, l’opera di Rupnik ha più in comune con l’arte secolare che con le icone tradizionali, ad esempio con i bambini dagli occhi grandi realizzati dall’artista Margaret Keane, popolari negli anni Sessanta. Eppure, persino quei bambini dagli occhi grandi non avevano i vuoti buchi neri che hanno gli occhi di Rupnik, ma mostravano espressione e persino lacrime.

Nei tempi moderni, la Chiesa ha seguito il mondo secolare invece di guidarlo. E questo è accaduto proprio quando il mondo dell’arte si è esaurito. Nell’arte modernista, forme piatte non rappresentative sostituiscono tipicamente le rappresentazioni del corpo. Furono proprio i primi tentativi di rappresentare l’Incarnazione a innescare tra gli artisti lo studio dell’anatomia, della prospettiva e della rappresentazione della luce nell’arte, allo scopo di raffigurare Cristo in forma corporea.

Purtroppo, la negazione modernista del corporeo nell’arte e nell’architettura cattolica ha portato a una nuova forma di iconoclastia nella Chiesa, richiedendo che le rappresentazioni di Cristo e dei santi siano bandite. Peggio ancora, questa negazione del corporeo nell’arte e nell’architettura sacra ha probabilmente contribuito alla diminuzione della fede nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia. Quando l’arte non fa più appello ai sensi, c’è una maggiore possibilità di perdere il valore sacramentale dell’arte sacra e di perdere la riverenza per i sacramenti stessi.

Mentre l’arte sacra più corporea veniva rimossa dalle chiese, sostituita da sagome piatte, forme e colori privi di significato, i cattolici hanno assistito a un declino della devozione verso il Santissimo Sacramento.

Tutte e tre le religioni abramitiche hanno avuto i loro periodi di iconoclastia, ma nel cristianesimo san Giovanni Damasceno nell’ottavo secolo ha riportato l’immagine al suo giusto posto nell’arte sacra. Sia l’ebraismo sia l’islam hanno una buona ragione per proibire le immagini: capiscono che banalizzare le immagini può portare all’incredulità. È la dottrina dell’Incarnazione che convalida l’immaginario nella tradizione cristiana. Ma l’Incarnazione, oltre a ispirare modalità di rappresentazione artistica, serve anche a disciplinarle. Se l’arte e l’architettura non sono fondate sulla natura corporea dell’Incarnazione, degradano in capricci non rappresentativi e feticismo artistico.

In una chiesa dovrebbe esserci armonia tra l’arte e l’architettura. Quando l’una non riesce a riflettere l’altra, il valore sacramentale di entrambe si perde. Si può difficilmente immaginare il tipo di architettura che ci vorrebbe per essere in armonia con le opere artistiche di Marko Rupnik. Se l’opera non esprime il bene, il bello e il vero, come può riflettere l’autore della verità, della bontà e della bellezza?

Mentre le comunità ecclesiali discutono su cosa fare delle opere di Rupnik, spero che coloro che le hanno commissionate riflettano sul fatto che le commissioni più importanti a Lourdes, in Vaticano e in molti altri luoghi avrebbero potuto scaturire da concorsi internazionali. Invece, queste grandi chiese cattoliche hanno sostenuto Rupnik e la sua arte piuttosto che altre più meritevoli.

Considerando che le sue grandi opere sono ospitate in oltre duecento chiese in tutto il mondo, non si può che chiedersi e lamentarsi per gli artisti il ​​cui lavoro è stato lasciato indietro o non è stato preso in considerazione. Se, come ha insistito papa Francesco, il “clericalismo” è un problema, allora dobbiamo chiederci se padre Rupnik avrebbe mai ottenuto la quantità di lavoro che ha ricevuto se fosse stato semplicemente il signor Marko Rupnik e non un prete gesuita. È più probabile che, come laico, non avrebbe mai ricevuto così tante commissioni per luoghi così importanti all’interno della Chiesa cattolica. Non è che le vigne fossero mature e gli operai pochi. Gli operai erano pronti, ma sono stati esclusi dalle vigne.

Come cattolici, ci è stata data la grande responsabilità di realizzare opere liturgiche che rivelino, illuminino e trasformino. Una chiesa non dovrebbe essere vista come un museo di arte moderna o una sfilata di moda. La nostra vocazione come cattolici è quella di mantenere e trasmettere alle generazioni future le espressioni artistiche e architettoniche del vero, del buono e del bello che costituiscono l’incredibilmente ricco patrimonio di arte e architettura sacra della Chiesa. Quale altra cultura, se non quella ispirata dalla fede cattolica, può vantare un vocabolario di forme così vasto, che passa dalla vuota pienezza delle abbazie cistercensi al sensuale rococò bavarese? Entrambe le forme parlano degli stessi misteri sacri, sebbene in modi diversi.

La Chiesa cattolica non è mai stata legata a uno stile particolare di arte o architettura, ma è sempre stata devota al Dio della verità, della bontà e della bellezza, il Verbo che si è fatto carne, che ha abitato tra noi ed è morto per il suo grande amore per noi. Mentre imitiamo il maestro, abbiamo un vocabolario infinito di forme con cui lavorare, ispirate dai sacri misteri e dalle forme eterne trovate nella mente di Dio. La bellezza della nostra fede e la bellezza delle nostre opere artistiche si uniscono e diventano una nella sacra liturgia.

Rupnik è stato espulso dai gesuiti, ma le sue opere restano esposte. Forse l’opera di Rupnik rimane così priva di bellezza perché la sua vita era così priva di verità e bontà. Le decisioni su cosa fare con quelle opere dovrebbero prendere in considerazione sia i suoi fallimenti morali come prete sia i suoi fallimenti estetici e teologici come artista cristiano. I fallimenti morali sono stati sufficienti a farlo espellere dai gesuiti; i fallimenti estetici dovrebbero essere sufficienti a far espellere la sua arte dalle chiese perché essa non le abbellisce né le nobilitano.

*direttore dell’Atelier for the Sacred Arts, progetta e produce opere per l’ambiente liturgico. Tiene corsi di arte sacra a Philadelphia e a Firenze

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Fonte: sacredarchitecture.org

Nell’immagine [flickr.com/Fr Lawrence Lew, OP], i santi Cirillo e Metodio di padre Marko Rupnik, un esempio del suo caratteristico “occhio condiviso”

 

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