Perché l’establishment della politica estera Usa sta con Kamala Harris

di James W. Carden

Ogni discussione su come potrebbe essere la politica estera degli Stati Uniti sotto una presidenza Harris deve iniziare col riconoscere che tutti i presidenti democratici, a partire da Truman, hanno finito per essere catturati da quelle stesse istituzioni che in teoria un presidente dovrebbe supervisionare. L’unico presidente che cercò di essere un’eccezione alla regola fu assassinato nel 1963 [chiaro riferimento all’uccisione di John F. Kennedy, N.d.T.].

In generale, Kamala Harris può scegliere tra tre modelli di politica estera: l’achesonismo [dal nome di Dean Acheson, segretario di Stato nell’amministrazione Truman, N.d.T.], il realismo riluttante e l’internazionalismo progressista.

Il modello di politica estera che ha guidato il comportamento dei presidenti democratici fin dai tempi di Truman e del suo segretario di Stato, Dean Acheson, può essere definito così: radicata convinzione nell’efficacia della potenza militare americana e nel diritto e dovere di agire unilateralmente e contro il diritto internazionale in nome della sicurezza; deferenza innata verso le prerogative della burocrazia della sicurezza nazionale e dell’intelligence degli Stati Uniti; paura di apparire deboli su questioni di sicurezza nazionale; disprezzo a malapena nascosto per le tendenze presumibilmente “isolazioniste” degli americani comuni.

Sebbene gran parte di ciò che definiamo achesonismo abbia caratterizzato anche la politica estera del presidente Barack Obama, la sua volontà di opporsi all’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, gruppo di pressione statunitense noto per il forte sostegno allo Stato di Israele, è considerato il più influente gruppo d’interesse a Washington, N..T.] e alla più potente base di donatori del partito democratico nel perseguire l’accordo nucleare JCPOA con l’Iran [Joint Comprehensive Plan of Action, Piano d’azione congiunto globale, noto come accordo sul nucleare iraniano, N.d.T.], i suoi tentativi di breve durata di normalizzare e stabilizzare le relazioni con Cuba e la Russia e il suo rifiuto, all’ultimo minuto, di lanciare una guerra su vasta scala contro la Siria lo rendono più un realista riluttante che un achesoniano convintissimo.

Resta il terzo modello di politica estera democratica: l’internazionalismo progressista. Come ho notato in un articolo del 2019 per The American Conservative, la politica estera progressista troppo spesso sorvola sul contesto nazionale, sulla storia e le culture a favore di una teoria onnicomprensiva che pone al centro della propria diagnosi la natura “autoritaria” dei governi. Le crociate sui valori progressisti hanno più di una vaga somiglianza con le crociate neoconservatrici per rifare il mondo secondo l’immagine che l’America ha di sé.

Gli influencer progressisti della politica estera restano convinti della loro influenza quando non ne esistono prove. Al di fuori di una piccola comunità di “esperti” che in qualche modo si sono convinti che finanziare una guerra per procura da cento miliardi di dollari contro la Russia dotata di armi nucleari sia necessario perché farà progredire i diritti LGBTQ a Severodonetsk, c’è poco che indichi che Kamala Harris sia in sintonia con la loro agenda, o che sappia che essi esistono.

Da quel poco che si può dire, data la scarsità delle sue dichiarazioni pubbliche su tali questioni, è quasi certo che Kamala Harris inserirà nella sua amministrazione degli achesoniani i quali, nelle ultime settimane, si sono schierati diligentemente per sostenere la sua candidatura.

Tra questi, degno di nota è l’ex direttore della Cia ed ex segretario alla Difesa Leon Panetta. Il discorso di Panetta al Convention democratica di Chicago è stato notevole, se non altro perché era così militaristico che ha spinto alcuni tra il pubblico a interromperlo con cori di “No More War!”.

Non a caso, il discorso di Panetta ha ricevuto gli elogi della sempre prevedibile editorialista del Washington Post Jennifer Rubin, che ha affermato con entusiasmo: “Panetta ha chiarito che nessuno dirà che i democratici sono deboli in materia di sicurezza nazionale”.

Nel frattempo, la candidata democratica sta scavando alla ricerca di sostegno in quello che un tempo era il centro di gravità all’interno del Partito repubblicano. Un gruppo di oltre duecento ex assistenti e altri tipi assortiti del partito che un tempo lavoravano per Mitt Romney, John McCain e George W. Bush sono stati impegnati a pubblicizzare la loro apostasia, pubblicando una lettera di approvazione del ticket Harris/Walz.

Tra gli altri importanti disertori repubblicani c’è l’ex deputato Adam Kinzinger dell’Illinois, e si prevede che anche la regina neoconservatrice Liz Cheney appoggerà presto Harris.

Chiaramente, all’establishment piace ciò che vede in Kamala Harris. Se questo lasci intendere che la sua candidatura sarà vincente è un’altra questione.

Fonte: theamericanconservative.com

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Nella foto, l’ex segretario alla Difesa e direttore della Cia Leon Panetta (sotto l’amministrazione Obama) parla alla Convention democratica di Chicago

 

 

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