L’altra Chiesa di Francesco, MicroMega, n. 6, settembre 2015
Intervista ad Aldo Maria Valli
Il papa si è proposto di rinnovare profondamente gli assetti di potere finanziari e della curia. Su un fronte come sull’altro però, nonostante parecchi segnali di “buona volontà”, ancora non sembra vi siano stati cambiamenti davvero rilevanti. Come valuta l’azione di questo pontefice nell’intervenire concretamente, nelle nomine come nelle riforme, sulle contraddizioni che ancora caratterizzano la struttura ecclesiastica?
Francesco ha messo molta carne al fuoco, tuttavia, a dispetto dei suoi settantanove anni, non sembra avere fretta. Non vuole imporre le decisioni dall’alto, ma arrivarci attraverso un meccanismo consultivo in grado di coinvolgere più soggetti. Francesco è un gesuita, e il fondatore della Compagnia di Gesù, sant’Ignazio di Loyola, raccomandava la pazienza. Una volta, quando era ancora arcivescovo di Buenos Aires, in un’intervista Bergoglio parlò del profeta Giona, che aveva tutte le ricette in tasca ma non faceva rientrare Dio nei suoi piani e aveva una «coscienza isolata». Ecco, lui non vuole commettere lo stesso errore, non vuole procedere da solo. Anche per questo ha deciso di vivere nella residenza Santa Marta e non nel palazzo apostolico, dove sarebbe rimasto tagliato fuori dal mondo. Inoltre Bergoglio vuole incidere in profondità, non limitarsi a un maquillage. Per la riforma della curia ha messo al lavoro una commissione di nove cardinali, che periodicamente si riunisce alla presenza del papa per fare il punto. L’obiettivo è snellire gli organismi e le procedure, anche attraverso alcuni accorpamenti di dicasteri e uffici. C’è poi il problema del coordinamento tra le varie strutture e quello della razionalizzazione delle spese. In tal senso, un provvedimento significativo è stato quello di istituire un dicastero per la comunicazione, con il compito di coordinare l’attività di tutte le fonti di informazione della Santa Sede (Osservatore romano, Radio Vaticana, Centro televisivo vaticano, Libreria editrice vaticana, servizio internet, sala stampa, Pontificio consiglio per le comunicazioni sociali) e di evitare gli sprechi. In materia economica e finanziaria il papa ha deciso di mantenere in vita lo Ior facendolo però tornare al compito originario, di servizio alla missione della Chiesa, e nello stesso tempo ha voluto far nascere un nuovo dicastero per l’economia, affidato al cardinale australiano George Pell, con ampi poteri sia gestionali sia di vigilanza e controllo. Anche in questo caso ci sono motivi di razionalizzazione, ma soprattutto di trasparenza nell’uso delle risorse. A tutti i collaboratori, qualunque sia l’ambito di cui si occupano, Francesco ha chiesto di fare del Vaticano e della Santa Sede una casa di vetro e di non perdere mai di vita il senso del lavoro che vi si svolge: collaborare con il papa nell’opera di evangelizzazione, stando dalla parte dei più poveri ed emarginati. Un esempio di queste indicazioni viene anche dall’Elemosineria apostolica, l’ufficio che si occupa di raccogliere risorse economiche che il papa utilizza poi per le opere di carità. Al responsabile, il monsignore polacco Konrad Krajewski, il papa ha chiesto di non accumulare denaro in un fondo ma di spenderlo tutto a favore dei poveri, compresi i senza tetto che vivono a due passi da piazza San Pietro, per i quali ha fatto aprire un servizio di docce e di barbiere ed ha anche individuato un luogo per accoglierli di notte. Di pari passo, Francesco ha ordinato che le pergamene con le benedizioni papali, disponibili a pagamento, non siano più vendute nei negozi di via della Conciliazione e dintorni, ma siano distribuite, secondo un tariffario preciso, solo dalla Elemosineria. In questo modo, è vero, ha privato del lavoro alcune centinaia di persone che realizzavano le pergamene all’esterno, ma ha voluto dare un segnale. È un opera a vasto raggio, che procede lentamente e che incontra anche ostacoli e resistenze. Sul piano economico, per esempio, il criterio della trasparenza si scontra con l’abitudine inveterata, che accomuna diverse strutture vaticane, di gestire risorse e centri di spesa senza rendere conto delle proprie scelte. Difficile dire se e quanto il papa stia riuscendo a imporre la propria volontà. La curia romana è un organismo abituato da secoli a rispondere a certe sollecitazioni anche con l’astuzia. In generale Francesco sembra aver privilegiato un modello fondato su pragmatismo e semplicità, ma un modello del genere, per funzionare, ha bisogno di prontezza e di lealtà, mentre gli uffici curiali in certi casi rispondono secondo la logica levantina del rinvio, dell’inerzia e anche della menzogna. «È molto difficile», mi diceva tempo fa un monsignore di curia, «applicare un simile modello in una realtà in cui spesso domina la dissimulazione». Francesco sembra poi avere un problema nella scelta del personale dirigente. Arrivato dall’Argentina, è stato catapultato in un mondo da lui poco conosciuto perché poco frequentato. Quando era arcivescovo di Buenos Aires non amava venire a Roma e cercava di starci il meno possibile. Essendosi trovato a dover scegliere collaboratori di fiducia, ha deciso sulla base di conoscenze non sempre approfondite. Nello stesso tempo non ha voluto procedere con nomine eclatanti, epurazioni o azzeramenti. Di se stesso ha detto una volta che è un po’ ingenuo ma anche un po’ furbo, ed è vero. Certamente ha avuto il grande merito di far dimenticare in pochissimo tempo gli scenari cupi che hanno caratterizzato l’ultima parte del pontificato di Ratzinger, dal caso Vatileaks all’arresto del maggiordomo infedele, dal licenziamento del presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi alle accuse dell’ex segretario generale del governatorato, monsignor Carlo Maria Viganò. Francesco c’è riuscito non tanto con una strategia precisa ma con la sua stessa personalità e il suo modo di essere. Ora però, entrato nel terzo anno di pontificato, queste armi non bastano più, ed è necessario che si arrivi a risultati concreti. Altrimenti chi lo ha appoggiato rischia di cedere alla disillusione mentre chi lo osteggia si sente rafforzato e incoraggiato a remare contro, in qualunque modo lo voglia fare.
Molti teologi, intellettuali, preti e religiosi della chiesa conciliare e progressista hanno recentemente firmato un appello per difendere il papa dagli attacchi mossi a loro avviso da autorevoli esponenti e poteri della conservazione che agiscono contro Francesco a livello ecclesiale come nella sfera mondana. Se è vero che lo stile di Francesco risulta indigesto al settore più tradizionalista delle gerarchie, non sarebbe tuttavia un atto di coerenza da parte di questo papa la riabilitazione di tutti coloro che hanno variamente subito la censura, l’emarginazione, addirittura la sanzione canonica da parte della chiesa, sotto i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI?
I manifesti e gli appelli a volte fanno più male che bene a coloro che dovrebbero esserne i beneficiari, perché rischiano di renderli prigionieri di un’etichetta ideologica o di uno schieramento, e nel caso del papa, che è pastore universale, il rischio è ancora più alto. Inoltre Francesco non è uomo di rottura. È sì capace di gesti eclatanti (per esempio, scegliere come destinazione del suo primo viaggio l’isola di Lampedusa) e, in controtendenza rispetto a un certo stile che di evangelico ha ben poco, è molto efficace nel dare l’esempio in prima persona per far passare un messaggio di coerenza evangelica (non indossare la mozzetta rossa e una vistosa croce d’oro, evitare ogni forma di trionfalismo, mettersi dalla parte dei più poveri e umili), ma di se stesso ha detto di essere un «figlio della Chiesa», e come tale vuole salvaguardarne l’unità, evitando tutto ciò che potrebbe legittimare la nascita di «partiti» diversi all’interno dell’universo ecclesiale. Inoltre, se sconfessasse alcuni provvedimenti disciplinari adottati sotto il pontificato di Giovanni Paolo II entrerebbe in conflitto con se stesso, dato che ha proclamato solennemente la santità di Karol Wojtyła. E come immaginare che l’attuale papa possa decidere in senso contrario rispetto a Joseph Ratzinger, dal momento che Benedetto XVI vive a pochi passi da lui, viene invitato ad alcune importanti cerimonie ed è definito da Bergoglio «il nonno saggio»? Nei confronti di persone in passato accusate, sanzionate o anche solo richiamate dalla Santa Sede (penso ai vari Giovanni Franzoni, Jacques Gaillot, Hans Küng, Leonardo Boff, Jon Sobrino), da parte di Francesco, in linea con il suo stile, potrebbero arrivare, più che riabilitazioni, gesti di attenzione e di amicizia, per esempio sotto forma di telefonate o inviti a Santa Marta. Francesco tuttavia può fare molto per porre rimedio a certi errori e a certe ingiustizie del passato, come abbiamo visto nel caso di Oscar Romero, il vescovo salvadoregno ucciso nel 1980 dagli squadroni della morte espressione della dittatura militare del suo paese. È vero che la causa di beatificazione di Romero fu sbloccata già da Benedetto XVI, ma Francesco le ha dato senz’altro un impulso nuovo e l’ha velocizzata, permettendo di riconoscere ufficialmente il martirio di un uomo di Chiesa che soffrì non solo in patria ma anche per le incomprensioni con Roma, sotto il pontificato di Wojtyła, quando nei sacri palazzi molti lo vedevano come un pericoloso rappresentante della teologia della liberazione.
In ogni caso, in generale, ho l’impressione che più che rivangare il passato Francesco chieda di guardare avanti, cercando, per quanto possibile, di unire forze diverse di fronte a grandi sfide epocali. Di qui la Laudato si’, l’enciclica «verde» sulla tutela del creato, da lui fortemente voluta nonostante molte difficoltà nell’elaborazione. Di qui anche la proposta ecumenica di festeggiare la Pasqua in una data unica con tutte le confessioni cristiane, perché, ha detto, è «uno scandalo» che fra cristiani ci si facciano domande del tipo: «Quando risuscita il tuo Cristo?».
Il sinodo non si è finora espresso su nessuna delle questioni cruciali che riguardano la famiglia, i divorziati risposati, le unioni gay. Ed è evidente che le resistenze al rinnovamento che si sono manifestate in modo talvolta maggioritario nella prima fase, giocheranno un ruolo di freno anche nella seconda. Non ritiene che il papa potrebbe (analogamente a quanto fece Paolo VI con l’Humanae vitae ma in evidente diversa direzione) esprimersi attraverso un’enciclica su tematiche che sono ormai divenute di prepotente urgenza?
Credo che sia necessario chiarire qual è la situazione. Se vogliamo stare ai fatti dobbiamo dire che in materia di morale familiare e sessuale papa Francesco non ha ancora pronunciato una sola parola in controtendenza rispetto al magistero dei suoi predecessori. Certo, c’è stata la famosa frase sul «chi sono io per giudicare un gay», ma a parte il fatto che la frase va citata correttamente («Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?»), c’è da dire che nemmeno sotto questo profilo Francesco ha introdotto novità sostanziali: chiedendo una sollecitudine particolare verso le persone omosessuali, perché non si sentano discriminate ed escluse, ha infatti confermato una linea già consolidata nella Chiesa. Quando poi, con un’altra frase diventata famosa e giudicata di rottura rispetto al passato, ha detto che i cristiani non devono avere figli «come i conigli», non si è certamente pronunciato contro l’apertura alla vita, bensì a favore della paternità e maternità responsabili (lasciare i figli orfani «è tentare Dio», ha detto ricordando il caso di una mamma in attesa dell’ottavo figlio dopo averne avuti sette con parto cesareo). Nella stessa occasione, rispondendo a una domanda sul controllo delle nascite, ha poi messo in guardia dal «neo-malthusianesimo» che cerca «un controllo della natalità da parte delle potenze», con la conseguenza di determinare tassi di natalità bassissimi. Nemmeno nelle ormai numerose catechesi del mercoledì su matrimonio e famiglia Francesco si è espresso, finora, in modo diverso rispetto all’insegnamento consolidato. Al contrario, lo ha confermato in pieno, esaltando a più riprese l’indissolubilità del matrimonio e paragonando esplicitamente l’unione fra l’uomo e la donna all’unione sacra di Gesù con la Chiesa. Un accento nuovo è arrivato invece quando, durante un’udienza, ha detto che a volte la separazione non è solo possibile ma doverosa (in tutti quei casi in cui il soggetto più debole subisce violenze di vario tipo), e ha raccomandato ai coniugi di non usare i figli come strumenti dei loro conflitti. La «diversità» di Francesco, quindi, non sta tanto nei contenuti, quanto nei toni e nel modo di trasmettere il messaggio. Anziché ripetere e sottolineare alcuni divieti, preferisce volgere il discorso in positivo, mostrando la bellezza della proposta cristiana. E anziché parlare di «valori non negoziabili», espressione bandita dal vocabolario papale, insiste sull’atteggiamento misericordioso che deve essere proprio del cristiano, pronto a comprendere e ad accogliere. Qui sta la «rivoluzione» di Francesco e qui stanno le ragioni che lo hanno spinto a chiedere alla Chiesa di confrontarsi sulla pastorale della famiglia, ovvero non sulla dottrina ma sulle modalità con cui la Chiesa di oggi deve accostarsi a una realtà, quella familiare, in profonda e rapida trasformazione. Sotto questo profilo si può fare un paragone con papa Giovanni XXIII: anche lui, chiamando a raccolta i pastori di tutto il mondo nel concilio Vaticano II, non chiese mai di mettere in discussione la dottrina. Chiese piuttosto di presentare il messaggio evangelico in modo nuovo e più coinvolgente, mostrandone la bellezza e l’efficacia intramontabile. Di qui la proposta di papa Roncalli, ripresa in pieno da Francesco, di utilizzare la «medicina della misericordia» piuttosto che la severità e di qui gli ammonimenti del «papa buono» contro i «profeti di sventura» che nelle novità del mondo vedono solo cose negative, un richiamo che assomiglia molto a quello ribadito da Francesco ogni volta che stigmatizza l’atteggiamento dei farisei e dei dottori della legge, prigionieri delle norme, malati di ipocrisia e incapaci di amare. Non so se Francesco scriverà un’enciclica o un altro documento per aggiornare l’Humanae vitae. Al momento possiamo registrare quanto il papa ha detto nell’intervista al direttore della Civiltà cattolica, padre Antonio Spadaro: «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione». E durante il volo di ritorno da Rio de Janeiro, rispondendo a una domanda sul perché non insista sui temi eticamente sensibili, ha detto: «La Chiesa si è già espressa perfettamente su questo. Non era necessario tornarci, come non ho parlato neppure della frode, della menzogna o di altre cose sulle quali la Chiesa ha una dottrina chiara! Non era necessario parlare di questo, bensì delle cose positive che aprono il cammino ai ragazzi. Inoltre, i giovani sanno perfettamente qual è la posizione della Chiesa!». La giornalista ha quindi domandato: qual è la posizione del papa su questo? Risposta di Francesco: «Quella della Chiesa. Sono figlio della Chiesa!». Quanto all’aborto, si può ricordare il discorso rivolto il 20 settembre 2013 alla Federazione internazionale delle associazioni dei medici cattolici, quando il papa ha detto che la difesa della vita resta per il magistero della Chiesa una priorità: «Ogni bambino non nato, ma condannato ingiustamente a essere abortito, ha il volto di Gesù Cristo, ha il volto del Signore, che prima ancora di nascere, e poi appena nato, ha sperimentato il rifiuto del mondo. […] Non si possono scartare, come ci propone la “cultura dello scarto”! Non si possono scartare! Per questo l’attenzione alla vita umana nella sua totalità è diventata negli ultimi tempi una vera e propria priorità del magistero della Chiesa, particolarmente a quella maggiormente indifesa, cioè al disabile, all’ammalato, al nascituro, al bambino, all’anziano, che è la vita più indifesa». Ecco qui la «strategia» di Francesco, che prende ispirazione non dalle disquisizioni degli specialisti (che magari, ha detto, hanno cinque lauree in teologia ma non sono capaci di misericordia) ma dal buon samaritano: «Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso». Proprio da questa riflessione è nata l’idea del sinodo e quindi è su questo piano, pastorale e non dottrinale, che probabilmente arriveranno indicazioni alla fine dei lavori. Non a caso, occorre ricordarlo, a proposito del prossimo sinodo Francesco ha parlato (nell’intervista alla televisione messicana) di aspettative «desmesuradas», cioè smisurate, eccessive: un’espressione eloquente, che fa capire come Bergoglio, per usare termini politici, sia molto meno «progressista» di tutti coloro che da lui si aspettano grandi cambiamenti.
La lotta alle posizioni di rendita e ai privilegi ecclesiastici, che Francesco ha con diverse dichiarazioni mostrato di voler fare propria, non dovrebbe accompagnarsi ad atti concreti, come la rinuncia ad alcuni degli innumerevoli privilegi concordatari di cui godono la chiesa ed il Vaticano nel nostro Paese? Ad esempio l’8 per mille, l’esenzione o la riduzione di alcune tassazioni, le rendite che derivano dalle speculazioni immobiliari (specie nell’emergenza abitativa e in quella dell’accoglienza di senzatetto e migranti che caratterizzano la nostra epoca)…
Anche sotto questo profilo Francesco mi sembra lontano da decisioni eclatanti. Intanto c’è da dire che i rapporti con l’Italia non sono ai primi posti nell’agenda di questo papa, che ha una visuale molto più ampia e ama guardare lontano, verso quelle «periferie», come l’Asia, nelle quali è in gioco il futuro della Chiesa cattolica. La mancata centralità dell’Italia non è dovuta tanto al fatto che il papa è straniero (il polacco Wojtyła e il tedesco Ratzinger ebbero sempre un occhio di riguardo per Roma e l’Italia) quanto all’idea di Chiesa di Francesco, una Chiesa «in uscita» che non deve stare a guardarsi l’ombelico romano e italiano ma è chiamata a viaggiare su strade nuove, prestando ascolto alle istanze che arrivano da altri mondi e altre culture. In secondo luogo Francesco, che è un pragmatico, sa che aprire un fronte di questo genere gli impedirebbe di dedicare le necessarie energie alla riforma interna. Tutto questo non gli ha impedito di prendere una decisione importante come quella di sottoscrivere con l’Italia un accordo senza precedenti in materia economica, finanziaria e fiscale, così da regolare questioni alquanto complesse, ma da qui all’idea di mettere in discussione il regime concordatario c’è di mezzo molto più del Tevere. Anziché rivedere le normative, Bergoglio preferisce lanciare appelli e dare esempi. Nell’unica messa celebrata finora per i politici italiani (alle sette del mattino, costringendo i parlamentari a un’alzataccia e dimostrando così di non volerli privilegiare in alcun modo rispetto a tutti gli altri fedeli) ha rivolto loro un discorso durissimo («Non caricate sul popolo pesi che voi non sfiorate neppure con un dito»), ha parlato della corruzione interiore degli uomini di potere che si allontanano dal popolo e ha fatto di tutto per marcare una distanza. Francesco, che ama definirsi vescovo di Roma, nel caso del rapporto con la politica italiana vuole invece sottolineare il suo ruolo universale, per sottrarsi a qualsiasi logica di do ut des. Si pensi poi a come ha strapazzato i ciellini, da sempre molto coinvolti nella politica italiana e attenti a coltivare un rapporto privilegiato con il papa: li ha accusati di essere autoreferenziali e di coltivare una «spiritualità di etichetta», li ha messi in guardia dal rischio di trasformarsi in «meri impresari di un’ong» e li ha esortati a essere «braccia, mani, piedi, mente e cuore di una Chiesa in uscita». Ricordo infine che, ricevendo il presidente Sergio Mattarella, Francesco non ha minimamente messo in discussione il concordato, ma ha parlato dei Patti lateranensi (ricordando che sono stati recepiti dalla Costituzione italiana) e dell’accordo di revisione come di «un solido quadro di riferimento, all’interno del quale si sono pacificamente sviluppati e rafforzati i rapporti tra l’Italia e la Santa Sede, garantendo la reciproca sovranità e indipendenza e al tempo stesso il mutuo orientamento alla fattiva collaborazione, sulla base di valori condivisi e in vista del bene comune». Insomma, per Bergoglio la cornice normativa c’è ed è valida. L’importante è che sia garantita «la distinzione dei ruoli e delle competenze» e che sia sempre assicurato il «pieno rispetto delle reciproche funzioni» all’insegna di «un sano pluralismo» che non «pretenda di confinare l’autentico spirito religioso nella sola intimità della coscienza, ma che si riconosca anche il suo ruolo significativo nella costruzione della società, legittimando il valido apporto che esso può offrire». Sono parole chiare, pronunciate da un papa che comunque parla al popolo e mai al Palazzo, perché non lo considera il suo interlocutore. D’altra parte, anche negli interventi rivolti al mondo ecclesiale Francesco non ha mai puntato sulla revisione delle norme quanto sulla coerenza evangelica della Chiesa. Pensiamo alla richiesta, rivolta agli ordini religiosi, di aprire le loro case e i loro conventi, spesso ormai vuoti o quasi, per metterli a disposizione dei migranti e dei profughi. «I conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi», ha detto visitando il Centro Astalli dei gesuiti a Roma. I conventi «non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati. Il Signore chiama a vivere con generosità e coraggio l’accoglienza nei conventi vuoti». È su questo piano che si muove Bergoglio.
Rispetto al ruolo dei laici e della donne nella chiesa, in cosa vede visibili e reali cambiamenti nell’azione di questo pontificato? È possibile che il sacerdozio femminile resti un tabù, un rifiuto catafratto proprio mentre la chiesa anglicana, la meno distante da quella cattolica tra le Chiese riformate, ha consacrato una donna addirittura vescovo?
Circa il ruolo dei laici, Francesco ha espresso con chiarezza il proprio pensiero nel discorso alla Cei del 18 maggio 2015, quando ha chiesto di «rinforzare» l’«indispensabile ruolo» dei laici perché si assumano «le responsabilità che a loro competono» e ha detto che «non dovrebbero aver bisogno del vescovo-pilota o del monsignore-pilota o di un input clericale per assumersi le proprie responsabilità a tutti i livelli, da quello politico a quello sociale, da quello economico a quello legislativo». A proposito del clericalismo, è significativa la battuta di Francesco rivelata da monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei: «Il clericalismo è come il tango, lo si balla sempre in due. Non esistono laici clericali o clericalizzati che non abbiano l’appoggio di qualche prete e non c’è un prete clericale che non abbia qualche laico che muore dalla voglia di fare il prete!».
Nel messaggio inviato al convegno (marzo 2014) dei responsabili delle aggregazioni laicali, promosso dalla diocesi di Roma sul tema «La missione dei laici cristiani nella città», il papa spiega che «i fedeli laici, in virtù del battesimo, sono protagonisti nell’opera di evangelizzazione e promozione umana». È una posizione da sempre sostenuta dalla Chiesa dopo il concilio Vaticano II. Lo rileva il papa stesso quando dice che il protagonismo del laicato «è un elemento fondamentale che appartiene agli insegnamenti del concilio Vaticano II» e che «ogni membro del popolo di Dio è inseparabilmente discepolo e missionario». Il concetto è ribadito nell’udienza generale del 26 giugno 2013, quando Francesco dice che «la Chiesa non è un intreccio di cose e di interessi, ma è il tempio dello Spirito Santo, il tempio in cui Dio opera, il tempio in cui ognuno di noi con il dono del battesimo è pietra viva». «Questo ci dice che nessuno è inutile nella Chiesa, nessuno è secondario, nessuno è anonimo: tutti formiamo e costruiamo la Chiesa. Tutti siamo necessari per costruire questo tempo». E ancora: «Tutti siamo uguali agli occhi di Dio. Qualcuno potrebbe dire: signor papa, ma lei è più importante… No! Sono uno di voi!».
La comune appartenenza alla Chiesa: questo il principio che Francesco sottolinea a più riprese, raccomandando sempre l’obbedienza. Nel messaggio sopra citato, il papa chiede infatti che le varie realtà laicali «mantengano un legame vitale con la pastorale organica delle diocesi e delle parrocchie, per non costruirsi una lettura parziale del Vangelo e non sradicarsi dalla madre Chiesa». A questo proposito, pensando alla missione dei laici cristiani nelle città, «a contatto con le complesse problematiche sociali e politiche», invita tutti a «fare uso abitualmente del Compendio della dottrina sociale della Chiesa, uno strumento completo e prezioso», una vera e propria «bussola» da utilizzare nell’impegno «per l’inclusione sociale dei poveri, avendo sempre per loro una prioritaria attenzione religiosa e spirituale». Concilio Vaticano II e dottrina sociale della Chiesa: queste le due stelle polari.
Quanto al ruolo delle donne, Francesco si è espresso più volte a favore di una loro valorizzazione, anche all’interno della Chiesa, ma ha sempre escluso la possibilità del sacerdozio femminile. «Le donne», ha detto nell’intervista al Messaggero, «sono la cosa più bella che Dio ha fatto. La Chiesa è donna. Chiesa è una parola femminile. Non si può fare teologia senza questa femminilità… Sono d’accordo che si debba lavorare di più sulla teologia della donna. L’ho detto e si sta lavorando in questo senso». E nell’intervista alla Civiltà cattolica ha sostenuto: «La donna per la Chiesa è imprescindibile. Maria, una donna, è più importante dei vescovi». Quanto alle competenze da attribuire alle donne nella Chiesa, durante il dialogo con i giornalisti, di ritorno dal Brasile (29 luglio 2013), ha sostenuto: «Non si può limitare al fatto che [la donna] faccia la chierichetta o la presidentessa della Caritas, la catechista. No! Deve essere di più, ma profondamente di più, anche misticamente di più». Provvedimenti concreti non ce ne sono stati, ma Francesco, da quel che si capisce, chiede più che altro un approfondimento sul piano teologico. Quella che invece emerge con grande chiarezza è la chiusura all’ipotesi del sacerdozio femminile. «Con riferimento all’ordinazione delle donne, la Chiesa ha parlato e dice no. L’ha detto Giovanni Paolo II, ma con una formulazione definitiva. Quella porta è chiusa» (conferenza stampa di ritorno dal Brasile, 29 luglio 2013). Posizione ribadita sia nella Evangelii gaudium, dove leggiamo che «il sacerdozio riservato agli uomini, come segno di Cristo sposo che si consegna nell’eucaristia, è una questione che non si pone in discussione» (n. 104), sia nell’intervista alla Stampa (16 dicembre 2013: «Le donne nella Chiesa devono essere valorizzate, non “clericalizzate”. Chi pensa alle donne cardinale soffre un po’ di clericalismo»).
Ciò che gli preme sottolineare è un altro aspetto: la funzione sacerdotale non è un potere né tanto meno un merito, ma una vocazione. Nel già citato passo della Evangelii gaudium dice che il rischio è di identificare troppo «la potestà sacramentale con il potere». Ecco il punto che gli sta a cuore: la potestà sacramentale non è un potere, ma una funzione di servizio che è tanto più coerente alla volontà di Gesù quanto più si mette a disposizione di tutti, in spirito di umiltà. Dall’ultimo dei parroci fino al papa, la potestà di amministrare il sacramento dell’eucaristia è un servizio al popolo. Nello stesso tempo, Francesco, come nel caso del ruolo dei laici, tiene di nuovo a sottolineare un aspetto che a suo giudizio è troppo spesso sottaciuto o dimenticato, anche dai credenti: la funzione sacerdotale, che nel caso dei preti diventa specifico ministero, appartiene a tutti coloro che ricevono il battesimo, uomini e donne, celibi e sposati, senza distinzioni.
Come valuta l’episodio avvenuto alcuni mesi fa sotto questo pontificato della scomunica di Martha Heizer, presidente di Noi siamo Chiesa internazionale ed Ehemann Gert, suo marito, per aver celebrato l’eucarestia nella propria casa, assieme alla loro comunità ma senza la presenza di un prete? Non sarebbe stato opportuno che il papa che predica una chiesa aperta, tollerante, inclusiva, fermasse questo provvedimento, anche in considerazione del fatto che Noi Siamo Chiesa è in prima fila in molti paesi del mondo su temi “spinosi” ed attuali come il celibato presbiterale, il sacerdozio femminile, la collegialità, i divorziati risposati, i gay, la povertà, il contrasto alla pedofilia tra il clero?
È il 2011 quando Marta Heizer, insegnante di religione a Innsbruck, decide di celebrare l’eucaristia nella sua casa di Absam senza la presenza di un prete. «Martha Heizer e il marito», spiega un comunicato di Noi Siamo Chiesa, «si riuniscono in casa per celebrare l’eucaristia con altre persone, secondo modalità simili a quelle che da tempo sono praticate dalle comunità di base, cioè senza un prete canonicamente accreditato». I fatti diventano noti al grande pubblico quando un’emittente televisiva austriaca riprende, con il permesso della coppia, la celebrazione domestica, che viene ripetuta quattro o cinque volte l’anno. Spiega Martha Heizer: «Eravamo tutti d’accordo, perché volevamo indicare che esiste una via d’uscita al problema della scarsa presenza di preti nelle comunità cristiane. Volevamo anche che venissero a rendersi conto che celebrare l’eucaristia in un piccolo gruppo come il nostro porta con sé dell’altro, cioè grande ricchezza spirituale e maggiore intimità, rispetto a una comunità molto più grande, come quella della nostra parrocchia, dove l’atmosfera è molto più impersonale e a volte è difficile partecipare attivamente alla messa. Eppure noi non ci opponiamo affatto alla celebrazioni in comunità più grandi; anzi, continuiamo a parteciparvi. Siamo però altrettanto convinti che attraverso il sacramento del battesimo a tutti sia conferito un sacerdozio comune. Celebrando da soli, eravamo pienamente coscienti di aver commesso un “crimine religioso” (graviorum delictum, tra i più gravi delitti), che di per sé, cioè per il semplice fatto di averlo commesso, comporta la scomunica».
A giudizio di Martha Heiger e di Noi Siamo Chiesa, celebrando la messa in casa, senza un prete, loro non hanno fatto altro che ripetere quanto facevano i cristiani delle origini, secondo il racconto che si trova negli Atti degli apostoli, quando si dice che «spezzavano il pane a casa prendendo i pasti» (Atti 2,46), ma l’autorità ecclesiastica può accettare una simile decisione? Se l’autorità lasciasse fare, non legittimerebbe forse l’idea che ognuno, sia in materia dottrinale sia in campo liturgico, può sentirsi libero di seguire il proprio istinto e agire secondo il proprio convincimento personale? Martha Heizer e il marito sostengono che il processo a loro carico si è svolto in modo iniquo e perfino umiliante, ignorando ogni forma di tutela giuridica, e di questo accusano le autorità. Ma non è contraddittorio che un’accusa del genere, cioè del mancato rispetto di alcuni aspetti di una normativa del diritto canonico, arrivi proprio da chi, in merito a una questione così importante come l’eucaristia, chiede di essere svincolato da ogni norma e di poter procedere semplicemente in base alla propria volontà individuale? Vuol dire che le regole non vanno bene quando a chiederne l’osservanza è il papa, mentre vanno bene quando si tratta di garantire i diritti di chi disubbidisce al papa? I coniugi Gert sostengono di essersi sentiti scioccati dal fatto che un crimine come il loro rientri fra i graviora delicta, alla stregua dei reati di abusi sessuali e pedofilia («Essere equiparati ai preti pedofili», hanno dichiarato, «costituisce un insulto alla nostra dignità»), ma, osservando tutta la vicenda dal punto di vista dell’autorità ecclesiastica, torna la domanda inevitabile: davvero si può immaginare che un comportamento come quello di Martha Heizer e del marito, che riguarda un aspetto non marginale ma assolutamente centrale quale la celebrazione eucaristica, non sia da catalogare fra i delitti più gravi? Al riguardo il cardinale Christoph Schönborn, presidente della Conferenza episcopale austriaca, ha detto: «Se qualcuno prende una posizione chiara contro qualcosa che è centrale per la nostra Chiesa, come l’eucaristia, e propaga un’idea ben oltre la nostra fede, questo è un grave passo che porta fuori della comunione ecclesiale». Mi sembra che il comportamento dei coniugi Gert non abbia lasciato al cardinale altro margine per altri tipi di valutazione.
Noi Siamo Chiesa è un movimento che solleva spesso problemi veri e il suo punto di vista è prezioso perché tiene conto di situazioni esistenti in varie parti del mondo. A volte però alcuni suoi membri cedono alla tentazione della provocazione e, così facendo, non favoriscono la crescita della comunità ma l’irrigidimento delle posizioni, esattamente come fa la Santa Sede, attraverso i suoi organi disciplinari, quando valuta le cose solo dal punto di vista di Roma. Ma, lo ripeto, nel caso specifico, mi sembra che lo strappo sia stato tale da non lasciare altra scelta all’autorità.
A proposito del tema della pedofilia nella chiesa, oltre al giusto e sacrosanto contrasto ai preti pedofili ed al loro allontanamento e denuncia alle autorità civili (che però in Italia la Cei non ha reso obbligatorio per i vescovi), non sarebbe necessario un profondo ripensamento della formazione dei preti e dell’istituzione del seminario? Su questo fronte ritiene che il papa stia agendo o agirà nel prossimo futuro?
Nella lotta alla pedofilia è molto importante, anche sotto un profilo simbolico, la decisione di dimettere dallo stato clericale e, soprattutto, di far processare in Vaticano l’ex nunzio Józef Wesołowski, accusato di abusi e di detenzione di materiale pedopornografico. Altrettanto importante è stata l’applicazione del reato d’abuso d’ufficio per i vescovi responsabili di insabbiamenti e l’istituzione di un’apposita corte giudiziaria in seno alla Congregazione per la dottrina della fede.
Resta aperta la questione della formazione dei preti, dei religiosi e delle religiose, sulla quale Francesco si è pronunciato molte volte. Parlando alla Congregazione del clero ha apertamente denunciato che «noi vescovi abbiamo la tentazione di prendere senza discernimento i giovani che si presentano» e «questo è un male per la Chiesa!». «Per favore», ha chiesto il papa, «occorre studiare bene il percorso di una vocazione! Esaminare bene se quello è dal Signore, se quell’uomo è sano, se quell’uomo è equilibrato, se quell’uomo è capace di dare vita, di evangelizzare, se quell’uomo è capace di formare una famiglia e rinunciare a questo per seguire Gesù». «Oggi», ha ammesso Francesco, «abbiamo tanti problemi, e in tante diocesi, per questo errore di alcuni vescovi di prendere quelli che vengono a volte espulsi dai seminari o dalle case religiose perché hanno bisogno di preti». Inoltre, ricordando che la formazione è «un’opera artigianale, non poliziesca» e che «dobbiamo formare il cuore», ha messo in guardia dal rischio di produrre «piccoli mostri». La crisi delle vocazioni non è un buon motivo per accettare chiunque o, peggio ancora, per accogliere persone già allontanate da altri centri di formazione.
Ma chi forma i formatori? Su questo c’è molto da fare, e Francesco ne è consapevole. A Roma la Congregazione per il clero ha avviato un corso per formatori aperto ai sacerdoti studenti, sia italiani sia stranieri. Inoltre all’inizio di quest’anno Francesco ha nominato nuovo segretario della Congregazione il francese Joël Mercier, un sacerdote con una profonda esperienza di insegnamento e di formazione dei preti. Alla guida della Congregazione, come prefetto, ha messo invece il cardinale Beniamino Stella, un riservato trevigiano che ha alle spalle un lungo servizio per la diplomazia della Santa Sede. Diplomazia e formazione del clero sembrano, e sono, due ambiti diversi, ma Francesco nelle sue scelte si lascia spesso guidare da criteri che vanno al di là della competenza specifica e guardano piuttosto all’umanità e alla spiritualità delle persone. «Ho l’impressione», ha detto Stella a commento della sua nomina, «che [il papa] cerchi sempre persone in cui vede espressa una paternità spirituale. Paternità e maternità sono parole a lui molto care. Nella paternità spirituale confluiscono l’umanità, la coerenza e la vita spirituale». Ma quello che c’è da fare nel campo della formazione è un lavoro enorme e Francesco finora si è limitato a lanciare alcuni segnali.
Papa Francesco ha dichiarato ripetutamente di voler dialogare con il mondo ateo senza intenti di «proselitismo», e di voler rispettare le regole della democrazia pluralista. Come si conciliano queste affermazioni con la reiterata pretesa che le leggi degli Stati sovrani, che riguardano tutti i cittadini, debbano continuare a essere modellate sulla morale della Chiesa cattolica in questioni cruciali come l’eutanasia, quando perfino in seno alla Chiesa voci autorevolissime (da ultimo Hans Küng) hanno sostenuto la liceità dell’eutanasia e in taluni casi addirittura il suo carattere peculiarmente cristiano?
Che le leggi degli Stati sovrani siano modellate sulla morale della Chiesa cattolica è una pretesa che non appartiene al bagaglio di papa Francesco. Nella Laudato si’, percorsa da un’evidente vena anticapitalista, si vede bene che a lui non interessa imporre un modello ma ricordare a tutti la comune umanità, da cui derivano comuni responsabilità. La fede stessa si può trasmettere soltanto nella libertà, senza alcun tipo di imposizione. «La missionarietà della Chiesa non è proselitismo, bensì testimonianza di vita che illumina il cammino, che porta speranza e amore». Bergoglio si esprime così nel messaggio per la Giornata missionaria del 2013. Il proselitismo, spiega nell’intervista a Eugenio Scalfari «è una solenne sciocchezza», perché è forzatura, è contro la libertà, e non ci può essere scelta di fede senza libertà. Il cristiano deve fare una cosa sola: comportarsi da cristiano, ed è così che potrà risultare credibile, ed attraente, per gli altri. La Chiesa, ribadisce nel maggio di quest’anno ai cursillos di cristianità, non cresce per proselitismo, ma attraverso la testimonianza.
Rivolto al Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, ha sottolineato l’importanza del dialogo con i non credenti e i fedeli delle altre religioni, e una volta ancora lo ha fatto richiamando al dovere della coerenza. Chiedendo ai cristiani di andare incontro a tutti, «senza paura e senza rinunciare alla nostra appartenenza», ha aggiunto che la Chiesa ha bisogno di testimoni credibili. Poi, nella messa celebrata in occasione della consegna del pallio ai nuovi arcivescovi metropoliti, riprendendo un’espressione di Paolo VI, ha detto che oggi c’è bisogno non tanto di maestri quanto di testimoni. Solo così il mondo recupererà attenzione verso Dio e la religione. Essere credibili vuol dire «vivere in modo concreto la fede attraverso l’amore, la concordia, la gioia, la sofferenza, perché questo suscita delle domande come all’inizio del cammino della Chiesa. Ciò di cui abbiamo bisogno, specialmente in questi tempi, sono testimoni credibili che, con la vita e con la parola, rendano visibile il Vangelo e risveglino l’attrazione per Gesù Cristo e per la bellezza di Dio».
Proselitismo no, accoglienza sì. E per essere accoglienti occorre tenere le porte aperte. «La Chiesa è la casa in cui le porte sono aperte non solo perché ognuno possa trovarvi accoglienza e respirare amore e speranza, ma anche perché noi possiamo uscire a portare questo amore e questa speranza. Lo Spirito Santo ci spinge a uscire dal nostro recinto e ci guida fino alle periferie dell’umanità».
E quello che vale nei rapporti tra le persone vale, a maggior ragione, nelle relazioni fra gli organismi politici e statali. Dunque, no a ogni forma di ingerenza, sì all’annuncio evangelico, che gli Stati devono garantire nella libertà.
Quando ha fatto sentire la sua voce contro aborto ed eutanasia (un no netto e reiterato, inserito nella riflessione contro quella che chiama la «cultura dello scarto»), Francesco ha usato parole molto critiche contro la mentalità dominante. Rivolto ai medici cattolici, per esempio, ha parlato di aborto ed eutanasia come risultati di una «falsa compassione» ed ha sostenuto che «la situazione paradossale si vede nel fatto che, mentre si attribuiscono alla persona nuovi diritti, a volte anche presunti diritti, non sempre si tutela la vita come valore primario e diritto primordiale di ogni uomo». Sulla stessa linea è una valutazione contenuta nella Laudato si’, quando Francesco scrive che la difesa della natura «non è compatibile con la giustificazione dell’aborto» né con la manipolazione degli embrioni, e giudica «incoerente» chi magari si impegna «contro il traffico degli animali a rischio di estinzione ma è determinato a distruggere un altro essere umano che non gli è gradito».
Tuttavia, occorre ripeterlo, anziché fare appello alle leggi dello Stato, Francesco preferisce rivolgersi ai credenti per chiedere coerenza. L’essere cattolici, ha detto nel discorso ai medici, «comporta una maggiore responsabilità», in particolare verso la cultura contemporanea. Si tratta di «contribuire a riconoscere nella vita umana la dimensione trascendente, l’impronta dell’opera creatrice di Dio, fin dal primo istante del suo concepimento». Viviamo in un tempo che richiede di fare «scelte coraggiose e controcorrente che, in particolari circostanze, possono giungere all’obiezione di coscienza».
Le parole pronunciate davanti ai ginecologi cattolici non lasciano spazio a dubbi su come la pensi Francesco a proposito di aborto ed eutanasia: «Ogni bambino non nato, ma condannato ingiustamente a essere abortito, ha il volto del Signore, che prima ancora di nascere, e poi appena nato, ha sperimentato il rifiuto del mondo. E ogni anziano, anche se infermo o alla fine dei suoi giorni, porta in sé il volto di Cristo. Non si possono scartare!».
Francesco, in definitiva, usa l’arma della coerenza evangelica e rifiuta quella dell’ingerenza nella politica. La sua «rivoluzione» non riguarda i contenuti, che restano quelli tradizionali, ma la strategia. Il secondo sinodo sulla pastorale familiare e il giubileo della misericordia saranno banchi di prova. Francesco ha oppositori interni che non gli danno tregua. Nella bolla di indizione dell’anno santo straordinario, ricordando la parabola del figliol prodigo, il papa accenna al figlio che è rimasto a casa, è incapace di gioire e si mostra offeso. «Il suo giudizio severo – scrive – è ingiusto», ma è proprio con questo giudizio che Bergoglio deve fare i conti.