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Esame medico sulla passione di Gesù

Come morì Gesù? La domanda può sembrare stupida, perché la passione e la morte di Gesù sono state narrate milioni di volte e in moltissime forme. Ma forse non è una domanda del tutto inutile. Se infatti ci poniamo dalla parte della scienza medica, ci accorgiamo che, in fondo, poco sappiamo della fine di quell’uomo crocifisso. Allora acquista un particolare valore la ricostruzione fatta da un medico, un’esposizione dalla quale sono rimasto colpito per la sua asciuttezza e linearità, per la sua essenzialità cronachistica, non disgiunta però da un profondo senso di pietà.

Mi riferisco all’articolo L’esame medico di quell’uomo primo martire che Nicola Partipilo, medico, ha scritto per la rivista Vivere in (marzo-aprile 2015) prendendo in esame tutti i dettagli che gli evangelisti, attraverso il loro racconto, ci hanno riferito in modo sicuramente non organico ma comunque significativo.

Dirò subito che non conosco l’autore e che la rivista mi è capitata in mano per caso. Aggiungo che io sono particolarmente impressionabile, al punto che evito accuratamente di assistere a scene di violenza e di sofferenza (per esempio, non ho mai visto il film La passione di Cristo di Mel Gibson). Tuttavia in questo caso lo stile dell’autore mi ha conquistato e mi ha spinto ad alcune riflessioni. Ma prima la cronaca.

Come si diceva, e come rileva Partipilo, gli evangelisti sicuramente non si sono mai proposti di entrare nei dettagli fisiologici relativi alla passione di Gesù, però hanno sparso segni, hanno descritto sintomi, per cui un medico, anche a distanza di duemila anni, può spingersi a esprimere qualche verità scientifica.

Partiamo dall’ultima cena. Gesù sa già tutto. Sa del tradimento, sa a che cosa sta andando incontro. “La sua percezione del disagio prossimo è totale”. Prova angoscia? Umanamente possiamo dire di sì. E’ a cena con i suoi, ma è teso, stressato. “In termini medici si deve pensare necessariamente al corpo di Cristo non in uno stato di rilassamento”, con tutto ciò che un tale stato comporta: aumento del battito cardiaco e della pressione sanguigna, maggiore fluidità del sangue nella circolazione, produzione di saliva. Deve mantenersi lucido, ma il suo corpo manda molteplici segnali di allarme. La prova dei Getsemani si avvicina e Gesù, in quanto uomo, manifesta i sintomi di chi si appresta ad affrontare un esame durissimo.

Luca, che è medico, racconta che Gesù, entrato nel giardino, suda sangue. Che un uomo in quelle condizioni psicologiche possa avere un aumento della sudorazione è comprensibile, ma il sangue? Il fenomeno ha un nome, ematoidrosi: di fronte a una grande paura, le ghiandole sudorali si dilatano e contemporaneamente abbiamo una vasodilatazione dei capillari sottocutanei collegati alle ghiandole. Le ghiandole sudorali, dilatate, comprimono i capillari e questi si rompono. Il sangue dei capillari rotti si mescola al sudore e la miscela sale in superficie. Una volta usciti, sangue e sudore si separano, per cui vediamo gocce d’acqua e grumi rossastri. Non a caso Luca parla di tromboi, ovvero proprio grumi, non gocce, e dice che questi tromboi cadono a terra: perché avviene in effetti così quando i grumi, spinti dal sudore, scivolano verso il basso.

Insomma, Gesù manifesta un sintomo raro, ma possibile, e tipico dell’uomo terrorizzato. In quel momento è già estremamente spossato (fra l’altro l’ematoidrosi rende più sensibile la pelle ai traumi, rendendola più fragile) ed è in queste condizioni che si avvicina all’arresto e alle successive prove.

E’ sera. Ecco arrivare un drappello di uomini armati. Hanno spade e bastoni. Sono guardie del sinedrio (l’organo legislativo e giudiziario della comunità ebraica), ma ci sono anche guardie del tempio di Gerusalemme e soldati romani. Insomma, è una forza armata che incute timore, e se c’è una cosa di cui l’uomo Gesù non ha bisogno, in questo momento, è di accumulare altra paura. Il suo comportamento è di estrema dignità e lucidità, tanto che rimprovera Pietro per aver sfoderato la spada e ferito il servo del sommo sacerdote, ma si può immaginare lo sconvolgimento interiore, ed è in queste condizioni che incominciano i numerosi spostamenti tra casa di Anania, sinedrio, pretorio, palazzo di Erode. E’ un dolente pellegrinaggio che infiacchisce ancora di più Gesù, il quale, non bastasse tutto il resto, riceve anche uno schiaffo da Malco, una delle guardie, ricavandone una lesione al setto nasale, al labbro e allo zigomo. “E poi le bastonate, aggravate dall’essere bendato”, per cui Gesù le riceve del tutto inerme, nel modo più stressante e doloroso.

Si arriva così alla flagellazione, la cui violenza è tale che si rimane stupiti: come fa Gesù a non collassare lì sul posto? “La violenza della flagellazione dei romani dipendeva dalla forza dell’esecutore e quindi dalla violenza con cui erano inferti i colpi. Poteva giungere a mettere a nudo e lesionare anche i muscoli”. Il flagellum, con cui viene eseguita, è una frusta corta, con diverse strisce di cuoio nelle quali sono inserite sfere di ferro armate di punte e frammento taglienti di ossa di pecora. E’ un’arma micidiale, pensata per creare ferite profonde fin dai primi colpi. Per cui le parole del salmo 128 (“Hanno reso il mio dorso come un campo arato; vi hanno segnato lunghi solchi”) vanno prese in senso letterale.

Legato a una colonna, Gesù si piega in avanti: i colpi lo raggi ungono ovunque, anche sul torace, aumentando la superficie soggetta a sanguinamento. La pelle, già provata, “subisce centinaia di ferite lacero-contuse”, le lesioni raggiungono la parte sottocutanea, “con tutto il suo contenuto di vasi sanguigni e fibre nervose”, il sangue esce copioso, il dolore è simile a quello determinato da una forte bruciatura, ma bisogna aggiungere il trauma ai muscoli, ai tendini, alle vertebre, con ripetute stimolazioni delle radici nervose e contratture muscolari in reazione al dolore. La perdita di sangue fa sì che i muscoli siano meno irrorati: l’uomo è dunque debolissimo ed è in queste condizioni che affronta la salita al Calvario.

“Ognuno – dice a questo punto il medico Partipilo – provi a pungersi il cuoio capelluto con un semplice spillo”. Per la ricchezza di fibre nervose, è una delle parti del corpo più sensibili agli stimoli: serve a proteggere la testa. E’ anche ricco di vasi sanguigni, specie sulla fronte. Immaginiamo dunque l’effetto di un casco di spine. Il dolore è tremendo, il sangue scende a fiotti e finisce negli occhi. In più, sulle spalle del condannato viene posto il patibulum, il pesante palo orizzontale della croce, e ogni volta che Gesù tenta di alzare la testa ecco che il casco di spine, spinto contro il legno, va a premere ancora di più.

Debilitato, in preda a traumi ed emorragie, disidratato, distrutto dalla fatica, Gesù raggiunge il Golgota per l’estremo supplizio, la crocifissione. L’esecuzione prevede che l’uomo sia spogliato. La tunica, ormai incollata alle piaghe, viene strappata via, provocando ulteriori dolori e nuovo scorrimento del sangue. Steso sul dorso martoriato, a contatto con la terra e i sassi, l’uomo è inchiodato al patibulum. “I chiodi romani sono infissi al centro del polso, con stimolazione del nervo mediano” e scariche elettrice lancinanti, che causano la contrazione delle dita. Impugnando le estremità della trave, i carnefici sollevano Gesù mettendolo prima seduto e poi in piedi. Quindi lo fanno camminare all’indietro e lo addossano al palo verticale. Una volta incastrato il braccio orizzontale della croce al palo verticale, le spalle di Gesù strisciano sul legno ruvido. Ed ecco che il condannato è inchiodato anche ai piedi: un grosso chiodo è conficcato davanti al malleolo o immediatamente dietro, con lesione del nervo peroneale. Il dolore è qualcosa di inimmaginabile.

Gesù resta appeso per circa tre ore, dalle 12 alle 15. La condanna prevede che l’uomo si spenga così. “Ora Cristo, per poter respirare, deve passare attraverso un ciclico sollevamento dolorosissimo sulle caviglie trafitte dai chiodi e sui polsi per poter muovere il torace, per poi ricadere dolorosissimamente appeso ai polsi”. L’agonia consiste proprio in questo: un saliscendi lungo il palo verticale. I carnefici possono prolungare o accorciare il supplizio a seconda delle esigenze e delle circostanze. Nel caso di Gesù bisogna fare abbastanza in fretta, perché tutto sia concluso prima del sabato.

Gesù muore per una serie di cause. C’è la lenta asfissia determinata dall’iperdistensione del torace e dunque l’insufficienza respiratoria. C’è l’accumulo di sangue negli arti inferiori (a causa della posizione appesa) e quindi l’ipovolemia, perdita di volume del sangue, e lo shock ipovolemico, che conduce alla sincope con arresto cardiaco. Di qui lo scompenso cardio-respiratorio, di qui l’asistolia cardiaca: la quantità di sangue che giunge al cuore è talmente insufficiente da provocare un infarto miocardico.

Stando a Matteo, Gesù prima di morire lancia un grido: “E Gesù, emesso un alto grido, spirò” (Mt 20,50). Nel suo caso l’infarto è stato doloroso. Ma, prima ancora, Gesù parla, dice qualcosa. La domanda è: una condannato, in quelle condizioni, è in grado di parlare? La risposta del medico è sì. Anche senza prendere in considerazione l’eccezionale profilo psicologico di Gesù (la sua dignità, l’autocontrollo, la determinazione nell’affrontare il supplizio), “la lenta asfissia non preclude al condannato la possibilità di parlare”. Sicuramente, ogni parola costa tantissimo in quelle condizioni. Solo per prendere fiato, Gesù deve puntellarsi sui piedi trafitti e sollevarsi facendo leva sui chiodi conficcati nei polsi. Il suo sarà stato un bisbigliare, ma le persone vicine hanno potuto cogliere il significato delle parole pronunciate.

L’ultima domanda riguarda il grido. Matteo ne parla, Luca no. E Luca è medico. Perché? Risposta: “Un medico sa che non è un grido secondo la fisiologia della fonazione, ma è qualcosa di diverso, è un tirage”. E’ l’ultima fuoriuscita d’aria, che può diventare un’emissione sonora paragonabile a un grido.

“Il medico – conclude il dottor Partipilo – non ha conclusioni particolari a cui giungere. Ritiene che quanto detto sia sufficiente a dare una visione più completa degli avvenimenti che hanno cambiato il mondo”.

Una visione più completa. Già. Possiamo anche dire: una visione spesso trascurata. Noi, è vero, parliamo abitualmente di Gesù come uomo, come Dio che si è fatto uomo, come verbo incarnato, ma queste rischiano di diventare formule astratte se non facciamo mente locale, se non pensiamo veramente a Gesù come a un uomo. Con tutto ciò che comporta, sul piano psichico e fisico, essere uomo.

Non si tratta di voler fare del dolorismo (esaltazione del dolore come valore in sé), né di operare una riduzione, di togliere a Gesù la sua divinità. Semmai, al contrario, si tratta di provare ancora più stupore e meraviglia di fronte a un Dio che, per amore, si fa uomo fino in fondo, fino alla morte, e alla morte attraverso un supplizio spaventoso.

Sento già un’obiezione: ma Gesù non è stato l’unico condannato a patire in quel modo, come lui ce ne sono stati tantissimi e ancora ce ne sono. Vero, ma Gesù non hai mai preteso l’esclusiva. La sola esclusiva, nel suo caso, riguarda la risurrezione, non la morte in croce. Con la quale, invece, ha accolto in sé, nel modo più concreto possibile, tutto il dolore del mondo.

Aldo Maria Valli

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