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Quella suora che anticipò Francesco

Maria Josefa Alhama Valera viene al mondo, nel 1893, in uno sperduto villaggio della Murcia, in Spagna. La sua famiglia di contadini è molto povera, la casa poco più di una capanna. Josefa non va a scuola: riceve l’istruzione primaria nella canonica, dalle sorelle di don Manuel. La ragazzina è vivace e intelligente: sarebbe un peccato lasciarla analfabeta.

A otto anni un episodio rivelatore. Approfittando dell’assenza del parroco, la bambina riceve l’ostia consacrata da un sacerdote arrivato da fuori. Non potrebbe, non ha l’età. È una birichinata, ma lei è contenta di aver ricevuto il Signore e da quel momento non se ne vuole più distaccare, tanto che, nel timore di disturbarlo, rinuncia a saltare la corda e a dormire dalla parte del cuore.

Qualche anno dopo, mentre è ancora nella casa dello “zio prete”, sente bussare alla porta e va ad aprire. È una suora, giovane e bella. La bambina le chiede se ha bisogno di qualcosa, ma la bella suora risponde: “Sono venuta a dirti da parte del buon Dio che tu dovrai cominciare da dove io ho finito”. Poi le parla della devozione all’amore misericordioso e le dice: “Il tuo compito sarà di diffonderlo ovunque”. Nemmeno il tempo di salutare e la suora sparisce. Chi è? Riconoscerla non è difficile: è santa Teresina di Lisieux, che però all’epoca è già morta da otto anni.

È il 1914. In giugno a Sarajevo viene ucciso l’arciduca Ferdinando, erede al trono austriaco. L’attentato fa da detonatore alla prima guerra mondiale, e anche nella vita di Maria Josefa c’è una svolta: decide di consacrarsi interamente al Signore. Entra nel convento delle Figlie del Calvario. Si apre un cammino intenso, ma anche pieno di difficoltà e incomprensioni. La convivenza con le altre religiose non è facile. Il vescovo le raccomanda di restare un umile strumento nelle mani del Signore, una semplice scopa che non si lamenta del modo in cui viene utilizzata e si mette al servizio di tutti. Un insegnamento che la giovane non dimenticherà mai.

Anche la salute dà problemi: operazioni, complicazioni. Il Signore, il “buon Gesù” come lei lo chiama, le parla senza sosta. La missione sempre la stessa: diffondere l’amore misericordioso, soccorrere i poveri, aiutare i preti in difficoltà. I segni straordinari si ripetono: estasi, sudore di sangue, moltiplicazione di cibi, percosse e insulti da parte del demonio, visioni, apparizioni. Le testimonianze numerose e concordi. Arrivano anche le stimmate.

La religiosa fa parte delle missionarie clarettiane, ma in lei è sempre più forte il desiderio di fondare una propria congregazione, per aiutare gli orfani, i figli dei poveri e i sacerdoti in difficoltà. Nel 1930 la decisione è presa. Di nuovo, come spesso succede ai grandi fondatori, incominciano difficoltà e incomprensioni, ma la suora è determinatissima. Nascono le Ancelle dell’Amore Misericordioso.

In Spagna sono gli anni terribili della guerra civile. La Chiesa cattolica paga un prezzo altissimo. Madre Speranza, questo ormai il suo nome, è accusata di collaborazionismo antifranchista. C’è il rischio della fucilazione, ma una provvidenziale telefonata del comando generale chiarisce: contro di lei solo calunnie. Una grande aiuto viene dall’amica Pilar, devota e benestante. È anche grazie a lei che le Ancelle possono aiutare tante persone, ed è sempre con la fedele Pilar che la Madre parte per Roma: negli anni del secondo conflitto mondiale le Ancelle si metteranno anche lì al servizio dei poveri e anche lì ecco fenomeni straordinari.

Finisce la guerra e la Madre si lancia, su richiesta del buon Gesù, in altre imprese all’apparenza impossibili: costruire un santuario intitolato all’amore misericordioso e dar vita al ramo maschile della congregazione che, insieme alle Ancelle, formerà un’unica famiglia religiosa. Non senza difficoltà, Madre Speranza realizza il programma che le è stato dettato dal Signore. Il santuario nasce in Umbria, a Collevalenza. Lì fa scavare un pozzo profondo e trova l’acqua nella quale oggi si immergono i malati. Ed è proprio lì che nel 1981 arriva un pellegrino speciale: Giovanni Paolo II. Alla sua prima uscita dopo l’attentato, Karol Wojtyla decide di andare proprio da Madre Speranza, nella quale rivede la spiritualità dell’amica suor Faustina Kowalska, l’ancella polacca della divina misericordia. Per la suora spagnola, ormai anziana, una giornata indimenticabile. La morte la coglie a Collevalenza l’8 febbraio 1893.

Il miracolo che porta alla beatificazione della Madre avviene nel 1999: è la guarigione scientificamente inspiegabile di un bambino di Cilavegna, vicino a Vigevano. Francesco Maria, colpito da intolleranza multipla alle proteine, non può essere alimentato. Ma ecco che la mamma, guardando un programma televisivo, viene a sapere di Madre Speranza e dell’acqua di Collevalenza. Il piccolo incomincia a bere l’acqua dell’amore misericordioso il 28 giugno. All’inizio di luglio già mangia qualsiasi cibo e a fine agosto i medici certificano che la malattia è sparita.

In anticipo sul Concilio Vaticano II e sul magistero di Francesco, Madre Speranza disse: “Devo arrivare a far sì che gli uomini conoscano il buon Gesù non come padre sdegnato per le ingratitudini dei figli, ma come padre pietoso che cerca con ogni mezzo di confortare, aiutare, far felici i propri figli”. Oggi la sua tomba, un semplice tumulo, è meta di pellegrinaggi da ogni parte d’Italia e del mondo. Collevalenza vuol dire amore misericordioso, amore che tutto perdona e tutto guarisce.

Aldo Maria Valli

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