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L’onestà nell’informazione

Onestà nell’informazione

Una questione morale

Parlo dell’informazione dal punto di vista di chi, come me, fa il giornalista ormai da trent’anni e ha scelto questa strada per passione, perché non ha mai desiderato fare altro (stavo per dire: ha scelto questa professione, ma per me il giornalismo è sempre stato molto di più di una professione; è la mia stessa vita, tanto che non mi sono mai immaginato in altri panni se non in quelli del giornalista).

Dunque, l’onestà. Entriamo sul terreno morale, che è, secondo me, quello decisivo per misurare e valutare le azioni degli esseri umani. Le competenze e le tecniche vengono dopo.

Che cosa è bene e che cosa è male, che cosa è giusto e che cosa è sbagliato, che cosa è buono e che cosa è cattivo: ecco la prima domanda. Secondo me, ogni persona, a prescindere dal proprio ambito di vita (medico, contadino, meccanico, architetto, insegnante, netturbino…) dovrebbe fare lo stesso, perché la valutazione morale, condotta in libertà, è proprio ciò che ci rende persone.

Capite che qui si aprono subito questioni di enorme portata. Intanto si tratta di rivendicare per la persona il diritto-dovere della valutazione di ordine morale (il che non è per nulla scontato), poi si tratta di decidere chi determina i parametri e in che modo. E poi ancora di precisare che cosa si debba intendere per libertà.

Questo tuttavia non è un trattato filosofico, dunque mi limito a sottolineare che, per quanto mi riguarda, la valutazione di ordine morale è imprescindibile. E dirò (anche a costo di passare per un ferrovecchio) che la predisposizione al giudizio morale (il senso del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, del buono e del cattivo) è quella inscritta nella mia coscienza di uomo, una bussola interiore che certamente si è andata formando nel corso del tempo ma che possiedo naturalmente in quanto persona e mi permette di procedere con le valutazioni del caso, utilizzando la libertà in quanto responsabilità, verso me stesso e verso gli altri.

Cambiamenti radicali

Ora, incominciamo a restringere il campo. Come dicevo, faccio il giornalista da tanti anni e molte cose sono cambiate nel mondo dell’informazione. Dico solo che, all’inizio (anni Settanta del secolo scorso), usavo la macchina per scrivere meccanica, un oggetto forse a voi sconosciuto, perché non esisteva il computer e l’informatica non si sapeva neppure che cosa fosse. Non esistevano nemmeno i telefoni cellulari e infatti lo strumento di lavoro principale del giornalista era il telefono fisso, a filo, l’unico conosciuto. Le agenzie di stampa ci arrivavano attraverso una macchina che si chiamava telescrivente, qualcosa di simile a una stampante che sputava fogli scritti a getto continuo, richiedendo così la presenza di un redattore che li sforbiciava, li suddivideva per argomenti (cronaca, economia, politica, cultura, sport…) e poi li appendeva ad alcuni chiodi infissi nel muro, dove altri redattori andavano a prelevarli a seconda dei settori di competenza.

Quando ho incominciato a lavorare nel mondo dell’informazione (avevo diciotto anni e facevo il correttore di bozze in un quotidiano), le pagine dei giornali venivano ancora composte “a caldo”, con un a macchina inventata verso la fine dell’Ottocento, la lynotipe. Il linotipista componeva le parole, le righe e le colonne, lettera per lettera, utilizzando il metallo fuso (di solito il piombo) e creando così le matrici che poi, cosparse di inchiostro, erano impresse sulla carta. Solo dopo alcuni anni ho visto i primi sistemi di composizione a freddo, con procedimenti simili a quelli della fotografia. Dirò poi che, quando ero redattore di prima nomina, in mancanza di computer, disegnavo le pagine di mia competenza con pennarelli colorati e righello, misuravo gli spazi da attribuire ai titoli, ai testi, alle illustrazioni, e inviavo questo foglio (il cosiddetto menabò) ai tipografi con la posta pneumatica (un bussolotto che veniva sparato con l’aria compressa attraverso una rete di tubi ramificata in tutti i settori della redazione). Non ridete!

Vi racconto questi dettagli non solo per dirvi quanto sono vecchio, ma per farvi capire che sono stato testimone, soggetto e oggetto di radicali trasformazioni tecnologiche, le quali hanno ovviamente influito moltissimo sul modo di fare informazione e quindi anche sui conseguenti problemi di ordine morale. Accenno soltanto al fatto che un tempo si produceva una quantità di informazione infinitamente più piccola rispetto all’attuale e le fonti erano molto meno numerose, il che significa che era molto meno difficile di oggi selezionare le notizie, orientarsi nel flusso e procedere con le verifiche. Ma torneremo tra breve su questi aspetti.

Libero, responsabile, rispettoso

Veniamo alla domanda decisiva: che cosa intendo per onestà nell’informazione? Con una formula sintetica potrei rispondere così: intendo il muovermi nel mondo dell’informazione, sia in quanto fonte sia in quanto destinatario, avendo come esigenza primaria quella di essere libero, responsabile e rispettoso.

Libero. Significa non costretto da pressioni e circostanze esterne. E’ possibile? La mia esperienza mi fa dire di sì. Chi ritiene che il giornalista possa essere soltanto un prezzolato, al servizio di qualche potere (sia esso politico, economico o di altra natura) ha un’immagine distorta di questo mondo. Certamente i prezzolati ci sono e forse ci saranno sempre, ma la mia esperienza mi fa dire che si tratta di una minoranza. In generale gli operatori dell’informazione sono persone che ragionano con la propria testa e non subiscono pesanti pressioni, tali da condizionarli.

Uso l’aggettivo “pesanti” perché qualche tipo di pressione, inevitabilmente, c’è sempre, e sarebbe illusorio immaginare un mondo che ne fosse totalmente privo. L’importante è saperle gestire in modo tale che incidano il meno possibile sulla propria libertà di valutazione e di comportamento. E il modo migliore non dico per neutralizzarle ma per minimizzarle è, secondo me, coltivare la propria autorevolezza. Quanto più si è autorevoli, tanto meno si è oggetto di pressioni. L’autorevolezza si costruisce con la preparazione, lo studio, l’accuratezza, ed è la migliore difesa da ogni forma di interferenza e pressione. L’autorevolezza, si badi, non è alterigia, non è superbia. Anzi, si accompagna all’umiltà. L’autorevolezza è come uno scudo: ti garantisce un prestigio, una stima, una fama di serietà e onestà tali per cui i disonesti stanno automaticamente alla larga da te.

Responsabile. Significa consapevole di ricoprire un ruolo che ha influenza (in primo luogo, ancora una volta, morale) sulle singole persone come sula società nel suo insieme. Responsabile è chi è cosciente del fatto che il proprio ruolo, la propria professionalità, non riguarda solo se stessi, ma gli altri, e che in un modo o nell’altro ha conseguenze sulla vita di tutti coloro che sono raggiunti dall’informazione. Responsabile significa mettere la propria libertà, garantita e alimentata dall’autorevolezza, al servizio di tutti, per la crescita di tutti, nel senso più ampio del termine: morale, culturale, sociale.

L’uomo responsabile è indotto alla prudenza, una delle quattro classiche virtù cardinali: la virtù che dispone all’analisi attenta della realtà spingendo a scorgere in ogni circostanza il vero bene e i mezzi per raggiungerlo. L’uomo responsabile, consapevole dei legami, non opera per se stesso, per il proprio vantaggio, ma per il bene comune. L’uomo responsabile non azzarda ma valuta, non aggredisce ma argomenta, non considera la propria l’unica voce degna di attenzione ma si mette in ascolto.

Rispettoso. Significa ben educato, attento alla sensibilità di tutti. Anche nel mondo dell’informazione, come in tutta quanta la realtà, le buone maniere hanno un rilievo sostanziale e non sono soltanto questione di forma. Il rispetto è di fondamentale importanza. Parlo del rispetto di chi fa il mio stesso lavoro, di chi collabora con me, del destinatario dell’informazione, ma anche del rispetto di me stesso. Anzi, metto il rispetto di me stesso al primo posto, perché da lì deriva tutto il resto. Anche l’esigenza di essere rispettoso si coltiva con lo studio, con la preparazione. Per essere rispettoso non basta proclamare di volerlo essere. Occorre accrescere il proprio bagaglio morale e culturale, conoscere gli altri mondi, avere consapevolezza di ciò che può ferire. Avere rispetto significa immaginare sempre di avere un interlocutore davanti a sé e di parlargli guardandolo negli occhi: forse il metodo migliore per evitare di cadere nel contrario del rispetto, ovvero l’arroganza, la presunzione, l’egocentrismo, l’aggressività, fino ad arrivare all’offesa e all’insulto.

Nuovi scenari

L’informazione, così com’è oggi, mi sembra caratterizzata da due fattori: l’abbondanza di notizie e la virtualizzazione della realtà. Entrambe con notevoli ricadute sulla questione morale e dunque sul problema dell’onestà.

Abbondanza di notizie. Lo sviluppo tecnologico, come si accennava, ha determinato l’esplosione dell’informazione. Mai siamo stati raggiunti da una tale massa di notizie e commenti. E’ aumentata la possibilità di scelta, ma è anche diventato più difficile orientarsi. Più difficile è individuare le fonti e verificarne l’attendibilità. E’ aumentata enormemente la facilità della consultazione (ora basta un clic, un tempo occorreva accedere ad archivi fisici), ma il prezzo è pagato, anche in questo caso, in termini di attendibilità: wikipedia ci mette a disposizione di tutto, come in un gigantesco self service, ma spesso non sappiamo quali articoli, in mezzo a tutta la merce disponibile, meritano veramente la nostra fiducia. Tutte queste voci concorrono a creare confusione, nel senso letterale della parola: si sovrappongono, formano un flusso continuo e disorganico. Quantità e qualità non vanno sempre di pari passo.

Virtualizzazione. La tecnologia ci permette di comunicare come mai in passato, minimizzando l’impatto dello spazio e del tempo. Siamo tutti sempre più interconnessi in modo sempre più rapido. Ma, di pari passo, viene meno il contatto fisico con le persone e con le realtà di cui parliamo. Facciamo informazione attraverso lo schermo di un computer o di altri strumenti, come gli smartphone, ma non siamo fisicamente vicini.

Queste caratteristiche dell’informazione (ce ne sarebbero molte altre, ovviamente) pongono nuove sfide alla questione morale. Che cosa significa, in questo scenario, essere informatori onesti, fare informazione in modo onesto?

Oltre a tutte le risposte date in precedenza, e che restano valide, se ne aggiunge una, a mio giudizio fondamentale: si tratta di riconoscere i limiti legati alla nuova realtà.

Abbondanza di notizie e virtualizzazione della realtà possono dar luogo a una sorta di delirio o comunque di illusione: credere di poter sapere tutto, di poterlo sapere subito (nel momento stesso in cui un fatto accade), di poter essere ovunque in ogni momento, di poter raggiungere tutti. In una parola, di non avere limiti.

E’ un grosso sbaglio. Premessa dell’onestà è riconoscere il proprio limite. E’ questa ammissione che ti predispone all’ascolto, allo studio, all’umiltà. E’ la consapevolezza del limite che ti predispone alla bontà, e non si può essere bravi giornalisti se non si è uomini buoni, come ha detto una volta quel grande inviato che fu Ryszard Kapuscinski.

Vi sembrerà strano sentir parlare di bontà da parte di un giornalista (noi spesso siamo paragonati a squali, iene, sciacalli: non proprio esempi di bontà). Ma non vi sto prendendo in giro. Alla fine è tutta questione di bontà. Se non sei un uomo buono, non puoi provare autentico interesse per l’altro. Se non sei un uomo buono, non coltivi il rispetto. Se non sei un uomo buono, non provi quella simpatia (capacità di patire insieme)  e quella pietà che ti spingono a cercare la verità per il bene di tutti.

Verità. Ho pronunciato la parola fatale, che ci crea tanti problemi e fa sorgere tanti dubbi. Esiste la verità?

Come detto, non è questo un trattato di filosofia, e poi dei filosofi (ne ho in casa due esempi, una moglie e una figlia) non mi fido tantissimo perché ingarbugliano tutto. Dico solo questo: esiste la tensione verso la verità, e guai se non ci fosse.

Esiste dunque l’obiettività? La risposta è la stessa. Esiste la tensione verso l’obiettività, e guai se non ci fosse! E’ precisamente questa tensione che mi deve animare, ben sapendo che la mia (me lo disse la mia maestra quando, in terza elementare, le confidai di voler diventare giornalista) è una funzione di servizio. Una missione? Possiamo dire così, se la parola non vi impressiona troppo.

Tra scoop e approfondimento

Vorrei adesso restringere il campo e parlarvi del settore di cui da molto tempo mi occupo io, ovvero l’informazione religiosa.  Ora parlo dunque da vaticanista (che parola!) e per la precisione da vaticanista che opera nella televisione.

Partiamo dai difetti di chi fa informazione religiosa. Secondo me si possono dividere in due categorie. Ce ne sono alcuni che, essendo propri di tutto il sistema attuale dell’informazione, riguardano anche l’informazione religiosa. E ce ne sono alcuni che invece sono propri soltanto dell’informazione religiosa.

Tra i difetti del primo tipo segnalo la mancanza di originalità e l’omologazione. Facciamo tutti le stesse cose, diciamo tutti le stesse cose, ci guardiamo gli uni gli altri preoccupati di non prendere il “buco”, tendiamo a omologarci rispetto a un racconto condiviso e a una lettura predominante. E’ raro il guizzo, è rara l’iniziativa diversa da tutto il resto.

Questo difetto credo sia il risultato di tre fattori soprattutto, evidentemente connessi: il decadimento culturale, che fa parte di quello generale, la fretta e l’uso intensivo dei mezzi elettronici.

Sul decadimento culturale c’è poco da dire. Anche i giornalisti non leggono quanto dovrebbero, non studiano quanto dovrebbero. Molto spesso sono preparati nell’uso delle tecnologie, ma mancano di un retroterra culturale.

La fretta è il risultato della moltiplicazione delle testate, che a sua volta ha innescato una concorrenza feroce e dunque la necessità di arrivare prima degli altri nel dare la notizia.

L’uso intensivo dei mezzi elettronici è il risultato dei progressi tecnologici e ha determinato la conseguenza, già accennata, che il giornalista ormai si confronta poco con la realtà effettuale (non va sul posto, non parla con le persone, non raccoglie i dati, non è testimone diretto), ma ha un rapporto quasi esclusivo con la realtà filtrata da altri (agenzie, siti internet, social networks) ed è dunque passato dall’essere un raccoglitore di notizie a un rielaboratore, un rimasticatore.

L’insieme di questi fattori conduce all’appiattimento. Che è rassicurante. Il fare tutti le stesse cose secondo le stesse modalità, il ripetere tutti le stesse notizie originate dalle stesse fonti, il viaggiare costantemente in gruppo: tutto questo fa sentire più sicuri e tutelati. Così però si perde la capacità e la voglia di uscire verso terreni nuovi e inesplorati, di tentare l’avventura solitaria.

Ovviamente sto generalizzando, e quindi le eccezioni sono sempre possibili. Ma diciamo che la vita quotidiana nelle nostre redazioni mi sembra contrassegnata da questi difetti.

Quanto ai difetti propri dell’informazione religiosa segnalo la tendenza a sovraesporre il papa rispetto a tutto il resto. Ormai un avvenimento è giudicato importante solo se c’è il papa o se lo coinvolge in qualche modo. Le altre realtà tendono a essere sottovalutate e a sparire dall’orizzonte. La figura papale è assolutamente predominante e, direi, ingombrante: c’è sempre lui sotto l’occhio della telecamera. E c’è anche quando, onestamente, se ne potrebbe fare a meno.

Questa sovraesposizione ha diverse ragioni. Il papa, e il papa attuale in modo del tutto particolare, fa notizia in quanto tale. Basta mostrarlo e il gioco è fatto, si è sicuri che la notizia c’è e che gli ascolti sono garantiti. Molto più complicato, e meno redditizio, è posare lo sguardo su altre realtà (siano esse appartenenti o meno alla Chiesa cattolica) e cercare di descriverle e di indagare su di esse.

Tutto ciò, per un mezzo come la televisione, è in buona parte inevitabile, perché l’occhio televisivo “funziona” quando al centro mette un personaggio e lo enfatizza. Meno giustificabile, credo, è la sovraesposizione papale attuata da strumenti che non si esprimono attraverso l’immagine.

Due parole infine sul racconto che stiamo facendo di questo papa, di Francesco. Fin dal primo giorno, dalla sua primissima apparizione, lo si sta dipingendo come “progressista”: gli abbiamo appiccicato addosso un’etichetta e non facciamo che rinforzarla. Poco importa che Francesco sia molto più complesso e che numerose delle cose che dice vadano in tutt’altro senso. Il media system ha bisogno di creare stereotipi, e così ha fatto anche con questo papa. Qualcosa di analogo era già successo con Benedetto XVI: nel suo caso, all’opposto, la lettura predominante era quella che parlava di un papa conservatore e chiuso, e per anni non si è fatto che rinforzare questa immagine, evitando di offrire un’immagine più complessa e sfaccettata.

Uscire dall’immagine stereotipata è difficile. Una volta che un cliché è stato costruito e si è imposto, il sistema rifiuta le letture diverse. In nome della spettacolarizzazione (creare un teatrino con figure dai contorni ben definiti e immutabili), il sistema rifiuta la complessità. Si vuole che tutto sia dipinto e narrato in termini di bianco o nero: le sfumature non sono gradite.

Mi chiederete: perché usi la formula impersonale? Chi è che vuole tutto questo? Vi rispondo che la responsabilità è un po’ di tutti. Ci siamo abituati a ragionare in termini di stereotipi. Perché, ancora una volta, è più comodo, è rassicurante. Evita la fatica della elaborazione critica dei dati. Le sfumature, le zone grigie, sono colte da chi studia, da chi confronta, da chi verifica. Ma studiare, confrontare e verificare sono attività svolte sempre più raramente in un mondo dell’informazione che va di fretta e che è dominato dall’ansia degli indici di ascolto. La volontà di capire in profondità e di raccontare la complessità va in senso opposto rispetto alla spettacolarizzazione.

Un altro grande difetto dell’informazione religiosa, che si collega a quanto appena detto, è l’uso degli strumenti della comunicazione non per raccontare la realtà, ma per sostenere o combattere una posizione. E’ un difetto che riguarda più che altro il mondo di internet e i blog, non tanto le principali radiotelevisioni e le principali testate della carta stampata, ma è da segnalare, perché esercita un’influenza sull’intero sistema e tende a inquinarlo. Si tratta di voci tendenziose che sicuramente non aiutano a capire meglio la realtà ma ne fanno una lettura ideologica. Non raccontano i fatti ma li piegano a fini ideologici, spesso con una notevole carica di violenza verbale. Un fenomeno dal quale guardarsi e che può diventare contagioso se non ci si vaccina con lo studio, la serietà dell’analisi, la verifica dei fatti, l’osservazione attenta del contesto.

Mi accorgo di non aver parlato dei pregi. Siccome faccio parte della categoria, mi riesce difficile. Mi limito a dire che secondo me è meritorio ogni comportamento che, nel suo piccolo, si batte contro i difetti sopra menzionati. E vedo che tanti colleghi cercano di impegnarsi in questo senso. Con alterne fortune, ma lo fanno. E vi assicuro che a volte, per farlo, bisogna mettere in atto piccoli gesti di eroismo professionale e intellettuale

Informazione televisiva e informazione scritta

Anche se ci lavoro da tanto tempo, diffido dell’informazione televisiva. E purtroppo mi sembra che l’informazione televisiva stia sempre più contagiando la carta stampata con i suoi difetti, in primis la spettacolarizzazione e la superficialità, senza che la carta stampata riesca a contagiare la televisione con i suoi possibili pregi, ovvero un maggior grado di analisi e di riflessione.

Ma più che parlare delle differenze mi sembra interessante sottolineare che si tratta di due mondi in profondissima crisi, nel senso etimologico della parola: devono decidere dove andare. Sia la televisione sia la carta stampata sono a un bivio e in gioco è la loro stessa sopravvivenza. Sotto l’impulso delle trasformazioni tecnologiche tutto sta cambiando.

Io ho una famiglia numerosa e vedere come i miei figli interagiscono con i mass media mi fa capire che davvero la televisione generalista e i giornali di carta appartengono a un’era ormai superata. I giovani comunicano in modi del tutto nuovi e si informano a prescindere sia dalla tv generalista sia dai giornali di carta. In effetti, se ci mettiamo dal punto di vista delle nuove generazioni, il cui orizzonte comunicativo è dominato dai social media e dalla possibilità di interazione, dobbiamo ammettere che tanto il telegiornale quanto il giornale di carta sono strumenti per un pubblico anziano. I giovani li guardano spesso come se si trattasse di reperti da museo.

Tutto sta cambiando e nemmeno gli specialisti sono in grado di dire quale sarà lo scenario nel futuro prossimo. Una cosa è certa: la distinzione dei ruoli sarà sempre più sfumata. Già oggi per i giovani è difficile distinguere tra fonte e destinatario dell’informazione. Loro sono abituati a essere tutto nello stesso tempo: sia fonte sia destinatari, in un mescolamento e in un interscambio continuo. Tutto ciò mette in crisi l’immagine stessa del giornalista così come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi, ma mette anche in discussione il ruolo dei luoghi deputati a fare giornalismo.

Non so proprio che cosa ci riserverà il futuro, tuttavia penso che ci sarà sempre bisogno di qualcuno che abbia il desiderio di studiare la realtà nella sua complessità, di vedere le connessioni tra presente e passato, di andare oltre la superficialità delle immagini imposte.

A questo proposito, ecco una riflessione di un grande vaticanista di un tempo, Benny Lai: “Uno scoop vaticano non è anticipare una notizia. E’, piuttosto, dare una giusta lettura di una notizia. Oggi in pochi sono in grado di capirlo”.

Il fatto che in pochi siano in grado di capirlo mi sembra il vero problema.

Aldo Maria Valli

Testo per la lezione  al corso di Etica delle professioni presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università LUISS Guido Carli

 

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