Mi trovo in una fase della vita in cui mi succede sempre più spesso di dover tributare l’ultimo omaggio a grandi amici che mi hanno insegnato tanto. Tra questi c’è sicuramente il cardinale svizzero Georges Marie Cottier, domenicano, morto giovedì 31 marzo. Nato vicino a Ginevra, il prossimo 25 aprile avrebbe compiuto novantaquattro anni. Teologo della Casa pontificia dal 1989 al 2005, aveva lo sguardo di un ragazzo intelligente e una spiritualità piena di speranza. Era un piacere andare a trovarlo nel suo piccolo appartamento in Vaticano, in mezzo ai libri. Si entrava da una porticina e si era accolti in un mondo di saggezza e serenità. Ricordo molto bene quando, a una mia domanda sulla crisi della fede nella società secolarizzata, mi rispose che in realtà stiamo vivendo un’epoca benedetta, perché oggi la fede, quando c’è, non è più qualcosa di convenzionale ma nasce da una scelta consapevole.
Vorrei qui riproporre l’intervista a Cottier che realizzai con il collega Francesco Anfossi di Famiglia cristiana per il nostro libro I giorni della colomba. Viaggio nella pace possibile. Correva l’anno 2003. Giovanni Paolo II faceva sentire la sua voce contro l’uso della guerra come soluzione delle controversie internazionali (Iraq) e il cardinale ci offrì una bellissima meditazione sul perdono.
«Il cristiano che si interroga sulla pace, soprattutto se coniuga il suo impegno per la pace con la non violenza, deve necessariamente confrontarsi con l’idea di perdono». Il Papa lo ha ricordato nel messaggio per la giornata mondiale della pace del 1997 («Offri il perdono, ricevi la pace»), lo ha sottolineato a più riprese nel corso del Giubileo dell’anno Duemila ed è tornato a parlarne in modo esplicito nel messaggio per la giornata mondiale della pace del 2002, scritto sull’onda dell’emozione per l’attentato alle torri gemelle: «Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono». L’idea di perdono, tuttavia, per ogni uomo, a tutte le latitudini, suona piuttosto ostica, di difficile applicazione. E se tale è sul piano personale, lo è ancor di più sul piano sociale, specie se la si coniuga, come fa il Papa, con la giustizia. Dunque che cosa significa perdonare in campo sociale e politico?
Padre Cottier, l’impressione è che qui ci muoviamo su un crinale decisivo ma anche molto delicato. Come si fa a mettere d’accordo l’esigenza di operare la giustizia con quella di perdonare?
«È un problema molto complesso e difficile, ma in effetti decisivo, perché il perdonare è al cuore del messaggio cristiano. Occorre ricordare prima di tutto che Dio ha perdonato i nostri peccati, e in quanto figli di Dio (“Siate misericordiosi come misericordioso è il vostro Padre celeste”) anche noi dobbiamo perdonare. Allora è necessario chiedersi: che cosa vuol dire perdonare? Certamente non vuol dire dimenticare, perché una ferita rimane una ferita. Perdonare vuol dire non coltivare un sentimento di vendetta, non trattenere nel cuore l’odio, quell’odio che mantiene vivi i rapporti di ostilità e fa diventare gli uomini nemici fra loro. Questo lo capiamo bene. Il problema difficile, e il Papa ha molto insistito su questo, è come tradurre il perdono sul piano politico, delle relazioni fra le società, le nazioni, gli Stati. […] Molti conflitti, molte inimicizie fra i popoli suppongono l’odio, e l’odio nasce spesso dalla ferita ricevuta, dall’ingiustizia subita. Più si alimenta l’ingiustizia, più si accumula il capitale d’odio nei cuori. E quando questo fenomeno tocca tutta una popolazione, quando un governo si fa portavoce di questo sentimento e lo usa per ottenere la coesione sociale, la guerra rimane fatalmente il solo orizzonte. Perdonare non vuol dire negare l’ingiustizia subita, ma ripartire di nuovo dicendo: non voglio la vendetta per quello che ho sofferto».
Il Papa dice che «solo nella misura in cui si affermano un’etica e una cultura del perdono si può anche sperare in una politica del perdono, espressa in atteggiamenti sociali e istituti giuridici nei quali la stessa giustizia assuma un volto più umano». Come comunicare questa etica, questa cultura?
«Dobbiamo comunicarle ma spiegando. Per esempio, se vogliamo considerare la politica soltanto come un problema di conti in sospeso fra una nazione e un’altra, non finiremo mai, troveremo sempre dei debiti da saldare, ci sarà sempre qualcuno che penserà di dover ricevere qualcosa. La soluzione, su questa strada, non si trova mai. Come primo passo dobbiamo quindi introdurre l’idea della rinuncia. Se vogliamo la pace, dobbiamo rinunciare a qualcosa. Un trattato di pace presuppone sempre delle rinunce da entrambe le parti, in nome di quel bene più grande che è la pacificazione. Gli uomini sono tutti fratelli, l’orizzonte va al di là della mia nazione. Queste sono idee che le persone capiscono e possono condividere. Il sacrificio può essere richiesto quando è meditato, quando non è imprudenza ma concessione in vista di un bene maggiore. Per questo nelle trattative si possono introdurre delle garanzie. Il perdono ha bisogno di essere tradotto in istituzioni. Abbiamo qualcosa di simile nel diritto: è la prescrizione. È un ripartire, un partire di nuovo. Dietro al perdono, nelle sue varie espressioni tecniche, deve esserci l’idea fondamentale della fratellanza di tutti gli uomini: il bene comune oggi comprende veramente l’intera umanità. La giustizia impone il rispetto dei diritti di tutti».
Padre Cottier, è lecito sacrificare vite umane, anche una sola vita, in nome del bene comune?
«Certamente no. È legittimo domandare ai soldati di rischiare la vita per la difesa del bene comune, ma sacrificare deliberatamente un innocente, sapendo che deve morire, non è permesso. Supponiamo che la causa sia giusta. Difenderla con il terrorismo però non lo è, non può mai esserlo moralmente. Così come è profondamente immorale uccidere degli innocenti con le bombe, si trattasse anche di una sola vita umana, per abbattere un tiranno. Il fine è buono, il mezzo non lo è. C’è qui tutta la problematica del fine e dei mezzi. Un fine giusto non può essere difeso con un mezzo immorale. Sacrificare un individuo per il bene comune, decidere al posto suo, non è ammissibile. A proposito di dittatura, poi, mi chiedo: abbatterla va bene, ma con che cosa la sostituiamo? Spero che la stessa energia messa nel distruggere sia impiegata anche per costruire istituzioni giuste e democratiche».
Grazie padre Cottier!
Aldo Maria Valli