Un ricordo di Marco Pannella
Era, se non ricordo male, il 1986. Allora ero un giovanissimo giornalista del quotidiano Avvenire, dove, fra gli argomenti che seguivo con maggiore assiduità, c’era il dibattito circa la normativa sull’aborto. Ovviamente il mio giornale, espressione dei vescovi italiani, era contrarissimo a considerare l’aborto un diritto di libertà della madre (anzi, della donna, come si diceva all’epoca), perché vi vedeva, piuttosto, una negazione del diritto alla vita del nascituro. Al parlamento europeo di Strasburgo si discuteva in quei giorni una proposta di risoluzione e il giornale decise di mandarmi a seguire il dibattito. Non ero mai stato all’europarlamento e in generale avevo ben poca esperienza come inviato, perché il mio, fino a quel momento, era stato un lavoro più che altro di “cucina”, come si dice in gergo, cioè all’interno della redazione. Un po’ preoccupato, presi l’aereo per Strasburgo, sbarcai e andai subito al Parlamento, dove capii che non sarebbe stato facile orientarmi. Dopo aver seguito parte del dibattito in aula, cercai un angolo dove poter raccogliere le idee, scrivere qualcosa di passabile e trasmettere l’articolo a Milano per telefono, come si faceva allora. Però mi persi nei meandri del palazzo. Fra corridoi, uffici dei gruppi, sale e salette, mi ritrovai a vagare senza meta e con il timore di non riuscire a mandare l’articolo in tempo.
A un certo punto, non so come, mi ritrovai davanti a un ufficio dal quale provenivano parole in italiano. Mi avvicinai, chiesi permesso e dissi che cercavo la sala stampa e il modo per mettermi in contatto con Milano. La segretaria mi guardò con un misto di compassione e tenerezza e poi chiamò: “Marco, vieni un po’ qui”. Fu così che mi ritrovai davanti a Marco Pannella.
Si può immaginare il mio imbarazzo. Non solo stavo facendo la figura del giovane giornalista imbranato e sperduto, ma ero proprio capitato negli uffici dei radicali, contro le cui posizioni il mio giornale, l’Avvenire, conduceva una battaglia senza quartiere. Ero finito nella tana del lupo, o nella bocca del leone, se preferite.
Pannella mi chiese chi fossi e quale problema avessi. Mi presentai, glielo spiegai e lui, senza fare una piega, disse a un suo collaboratore: “Bisogna aiutare questo giovane inviato dell’Avvenire. Accompagnalo in sala stampa, spiegagli come funzionano i collegamenti e non lasciarlo solo. Non sia mai che l’Avvenire resti senza il suo articolo”. Mi fece un sorriso, mi chiese se volevo bere qualcosa e poi, davanti al mio impacciato “no, grazie”, mi strinse la mano, mi augurò buona fortuna e tornò nel suo studio.
E dire che per lui non era stata una giornata facile, perché tanto per cambiare, ebbe un battibecco con il presidente dell’assemblea, credo su questioni procedurali.
Ecco. Questo è il ricordo che ho di Marco Pannella. Non lo incontrai mai più, ma quel giorno a Strasburgo mi è rimasto nella memoria.
Ideologicamente, da Pannella mi ha sempre diviso tutto. Ma quella volta incontrai una persona gentile, addirittura premurosa. Posso dirlo? Mi sembrò una sorta di samaritano. Non si limitò infatti a darmi qualche indicazione frettolosa, ma si mise nei miei panni, capì il mio problema e mi aiutò a risolverlo, arrivando addirittura ad affidarmi alle cure di una persona del suo staff. E l’Avvenire, lo ripeto, era un giornale che quasi ogni giorno, giustamente, attaccava Pannella per le sue posizioni.
Qui non voglio esprimere valutazioni sull’impegno politico di Pannella, sulle sue idee e sul suo modo di portarle avanti. Mi limito a un ricordo personale, vecchio ormai di trent’anni ma vivissimo in me per la generosità e lo stile che Pannella dimostrò.
Addio, gentile Marco. Politicamente non sono mai andato d’accordo con te, ma non riesco a chiamarti avversario. Per me, quella volta, sei stato come il samaritano. E in tutta questa storia, da qualche parte, c’è una lezione.
Aldo Maria Valli