Nell’intervista che papa Francesco ha concesso al giornale francese La Croix, e che l’Osservatore romano ha riportato integralmente, ci sono alcuni passaggi altamente problematici.
Partiamo dalle affermazioni di Bergoglio circa le radici cristiane dell’Europa. «Bisogna parlare – sostiene Francesco – di radici al plurale, perché ce ne sono tante. In tal senso, quando sento parlare delle radici cristiane d’Europa a volte temo il tono, che può essere trionfalista e vendicativo. Allora diventa colonialismo. Giovanni Paolo II ne parlava con tono tranquillo».
Ora, che le radici dell’Europa siano tante è fuori discussione. Ma nessuno può negare che, fra le tante, ci sia una radice più decisiva e profonda: è quella giudaico-cristiana. Dopo di che, riconosciuto che il tono di qualcuno, nel rivendicare il ruolo di tale radice, possa essere a volte trionfalista o vendicativo, si può davvero dire che san Giovanni Paolo II ne parlasse con «tono tranquillo»?
Certo, formalmente papa Wojtyła non era mai sopra le righe, ma i contenuti erano forti, eccome!
Tra le decine e decine di sue prese di posizione in proposito, sentite questa: «La fede cristiana ha plasmato la cultura dell’Europa facendo un tutt’uno con la sua storia e, nonostante la dolorosa divisione tra Oriente ed Occidente, il cristianesimo è diventato “la religione degli Europei stessi” […]. Questo patrimonio non può essere disperso. Anzi, la nuova Europa va aiutata “a costruire se stessa rivitalizzando le radici cristiane che l’hanno originata”» (Angelus, 20 luglio 2003). E questa: «Come soddisfare il profondo anelito di speranza dell’Europa? Occorre ritornare a Cristo e ripartire da Lui» (Angelus, 13 luglio 2003). E questa: «Le radici cristiane non sono una memoria di esclusivismo religioso, ma un fondamento di libertà, perché rendono l’Europa un crogiolo di culture e di esperienze differenti […]. Dimenticarle, non è salutare. Presupporle semplicemente, non basta ad accendere gli animi. Tacerle, inaridisce i cuori (messaggio in occasione del XVII Incontro di preghiera per la pace promosso dalla Comunità di Sant’Egidio, 5 settembre 2003).
Insomma, il tono di san Giovanni Paolo II più che «tranquillo» mi sembra appassionato, addirittura accorato. E le sue parole molto ma molto precise nel ricordare che non si tratta di rivendicare un «esclusivismo religioso», ma di sapere qual è il fondamento della nostra libertà.
Ma andiamo avanti. Nell’intervista a La Croix, a un certo punto, Francesco sostiene che «l’apporto del cristianesimo a una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della vita. Non deve essere un apporto colonialista».
Ora, precisato che ogni forma di colonialismo va condannata, siamo sicuri che l’apporto del cristianesimo sia precisamente quello della lavanda dei piedi? L’immagine è molto bella, non c’è che dire, ma non sarebbe forse il caso di evocare il discorso della montagna e le beatitudini? Non sono forse lì le basi della filosofia cristiana che ha forgiato la cultura europea e occidentale? La dignità della persona, di ogni persona, e di conseguenza i suoi diritti fondamentali, che nessuno può violare, nascono con il Vangelo delle beatitudini, del quale la lavanda dei piedi è una conseguenza. «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati…». Le beatitudini aprono alla dimensione trascendente, aprono a Dio e al suo Regno, ed è così che riscattano la persona. Limitarsi a sottolineare l’importanza della lavanda dei piedi, gesto senz’altro nobilissimo e profondamente evangelico, non rischia di ridurre tutto alla sola esperienza terrena e la Chiesa a un’agenzia di assistenza?
E veniamo all’Islam. Il fatto che il papa ne parli è di per sé rilevante, perché in genere non lo nomina mai. Il problema però è che a un certo punto dice: «Non credo che oggi ci sia una paura dell’Islam in quanto tale, ma di Daesh e della sua guerra di conquista, tratta in parte dall’Islam. L’idea di conquista è inerente all’anima dell’Islam, è vero. Ma si potrebbe interpretare, con la stessa idea di conquista, la fine del Vangelo di Matteo, dove Gesù invia i suoi discepoli in tutte le nazioni».
Sorvoliamo sul fatto che oggi ci sia più paura di Daesh (cioè lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante o della Grande Siria) che dell’Islam in quanto tale: se ne può discutere. Le vere parole problematiche sono quelle con cui Francesco dice che, con lo stesso metro di giudizio, si può interpretare come attività di conquista anche la missione affidata da Gesù ai discepoli.
Qui il papa riprende un’idea già espressa in Evangelii gaudium, quando, affermando che i fondamentalismi ci sono da entrambe le parti, sia fra i cristiani sia fra i musulmani, li mette sostanzialmente sullo stesso piano. Ma è un’affermazione che non sta in piedi. E per spiegarlo ci rifacciamo a quanto scrive un esperto di Islam come il padre Samir Khalil Samir, anche lui gesuita, che a proposito di Evangelii gaudium, e del parallelo fatto dal papa, afferma (Asianews, 19 dicembre 2013): «Personalmente, non metterei i due fondamentalismi sullo stesso piano: i fondamentalisti cristiani non portano le armi; il fondamentalismo islamico è criticato, anzitutto proprio dai musulmani, perché questo fondamentalismo armato cerca di riprodurre il modello maomettano. Nella sua vita, Maometto ha fatto più di sessanta guerre; ora se Maometto è il modello eccellente (come dice il Corano, 33:21), non sorprende che certi musulmani usino anche loro la violenza ad imitazione del Fondatore dell’Islam».
E a questo punto occorre parlare della violenza nel Corano e nella vita di Maometto. Sentiamo ancora il padre Samir: «Infine, il papa accenna alla violenza nell’Islam. Nel paragrafo 253 [di Evangelii gaudium, ndr] si legge: “Il vero Islam e un’adeguata interpretazione del Corano si oppongono ad ogni violenza”. Questa frase è bellissima, ed esprime un atteggiamento molto benevolo del papa verso l’Islam. Mi sembra però che essa esprima più un desiderio che una realtà. Che la maggioranza dei musulmani possa essere contraria alla violenza, può anche darsi. Ma dire che “il vero Islam è contrario ad ogni violenza” non mi sembra vero: la violenza è nel Corano. Dire poi che “un’adeguata interpretazione del Corano si oppone ad ogni violenza” ha bisogno di molte spiegazioni. Se l’Islam vuole rimanere oggi in questa visione legata al tempo di Maometto, allora ci sarà sempre violenza. Ma se l’Islam – e vi sono parecchi mistici che l’hanno fatto – vuole ritrovare una spiritualità profonda, allora la violenza non è accettabile. L’Islam si trova davanti a un bivio: o la religione è una strada verso la politica e verso una società politicamente organizzata, oppure la religione è un’ispirazione a vivere con più pienezza e amore. Chi critica l’Islam a proposito della violenza non fa una generalizzazione ingiusta e odiosa: mostra delle questioni presenti, vive e sanguinanti nel mondo musulmano. In Oriente si comprende molto bene che il terrorismo islamico è motivato religiosamente, con citazioni, preghiere e fatwa da parte di imam che spingono alla violenza. Il fatto è che nell’Islam non vi è un’autorità centrale, che corregga le manipolazioni. Ciò fa sì che ogni imam si creda un muftì, un’autorità nazionale, che può emettere giudizi ispirati dal Corano fino a ordinare di uccidere».
Ho citato a lungo le parole del padre Samir perché sono chiare e pongono il problema nella giusta prospettiva. L’Islam ha un problema con la violenza di matrice religiosa, come aveva segnalato Benedetto XVI a Ratisbona nel 2006. Negarlo vuol dire prima di tutto non aiutare l’Islam a fare i conti con se stesso.
Certo, ogni religione, in misura più o meno accentuata, può avere un problema con la violenza, perché ogni religione, compresa quella cristiana, può essere usata in modo fanatico e violento. Ma sostenere che il cristianesimo e l’Islam siano, in questo senso, speculari, non è corretto, perché il Nuovo testamento e il Corano non sono la stessa cosa. Un cristiano fanatico, che interpreti come un mandato di conquista il compito assegnato da Gesù agli apostoli, snatura completamente il Vangelo. Un islamico fanatico, che interpreti come mandato di conquista alcuni messaggi di Maometto, può trovare nel Corano parole che sostengono la sua tesi.
Un’ultima annotazione riguarda la parola «colonialismo» che il papa utilizza nell’intervista per descrivere il comportamento, a suo giudizio sbagliato, di chi rivendica con tono «trionfalistico» l’importanza delle radici cristiane dell’Europa. A un cittadino europeo, nell’affrontare la questione, difficilmente verrebbe alle labbra la parola «colonialismo» . Perché noi europei siamo tutti, chi più chi meno, un po’ eurocentrici. Diverso è il punto di vista di un sudamericano come Bergoglio. Ma colonialismo significa dominio e sfruttamento e ha in sé una connotazione razziale. Dunque non è un termine quanto meno esagerato, e non è avventato usarlo così, a proposito di chi ha a cuore le radici cristiane dell’Europa? Francesco aiuta noi europei a considerare i problemi da una prospettiva diversa dalla nostra, e va bene. Meno bene va quando le analisi sono sviluppate in modo superficiale o addirittura fuorviante.
Aldo Maria Valli