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Lettera agli amici

Un  giornalista non dovrebbe mai parlare di se stesso, se non altro per buon gusto. Faccio un’eccezione, e prometto che resterà tale, per rispondere ai tanti amici che hanno reagito ai miei ultimi articoli, nei quali non ho nascosto le perplessità circa Amoris laetitia e altre affermazioni di papa Francesco.

Amoris laetitia in un primo tempo mi è piaciuta. Ci ho visto lo sforzo sincero di calarsi nella realtà. Poi però, leggendo e rileggendo, ecco le perplessità e i dubbi. Riconducibili a una domanda che mi assilla: ma il paradigma della situazione, fatto proprio da Francesco quando suggerisce di procedere secondo la logica del caso per caso, non finisce per giustificare tutto? E, così facendo, non scivola nel relativismo? E non sarà forse per questo che Francesco è tanto applaudito da atei e laicisti, che scambiano la sua misericordia per un lasciapassare? Ecco perché ho scritto l’articolo nel quale esprimo tutte le mie perplessità su quella che ho definito la Chiesa del “ma anche”. Una Chiesa che, attraverso il paradigma della situazione contingente, alla fin fine risponde sì, ma anche no, no, ma anche sì, una Chiesa che cerca di tenere assieme ciò che assieme non può stare e che in questo modo non porta all’integrazione, ma alla confusione.

Scrivendo, avevo in mente tanti amici divorziati e risposati, così come tanti amici omosessuali, i quali, da credenti, mi hanno sempre detto di aspettare dal papa una parola sicura.

Da parte mia, nessuna “manovra”, nessun progetto di chissà quale natura, nessuna decisione di abbandonare un partito (ma quale?) per entrare in un altro (ma quale?). Solo la manifestazione sincera, e anche dolorosa, di un dubbio. Dolorosa perché voglio molto bene al papa. Ma è proprio perché gli voglio bene che lo prendo sul serio. Ed è proprio perché lo prendo sul serio che mi interrogo su quanto insegna. A partire dal concetto di misericordia, che Francesco ha messo al centro del suo magistero.

Vi dicevo di altre perplessità suscitate in me dalle parole del papa. Mi limito a due circostanze. La prima, quando, in un video dedicato al dialogo tra le religioni, Francesco ha sostenuto che “in questa moltitudine, in questa ampia gamma di religioni e assenza di religioni, vi è una sola certezza: siamo tutti figli di Dio”. La seconda, quando, nella chiesa luterana di Roma, con un lungo intervento a braccio, ha detto che la possibilità o meno di fare la comunione insieme (luterani e cattolici) “è un problema a cui ognuno deve rispondere”.

Come sarebbe a dire che la “sola certezza” è che siamo tutti figli di Dio? E il Vangelo di Gesù? Non è quella la nostra certezza? Mi chiedo: qui non siamo, di nuovo, di fronte a parole dal sapore relativista (e, in questo caso, anche sincretista)? E come sarebbe a dire che la comunione, cuore della vita cristiana, è un problema a cui ognuno deve rispondere? Non siamo qui, ancora, nel relativismo? Su una questione così importante non dovrebbe essere proprio il papa, il nostro pastore, a rispondere?

Alla luce di queste perplessità, ho riletto anche la famosa frase sul “chi sono io per giudicare?”, che all’inizio mi era apparsa molto evangelica, e pian piano è cresciuto dentro di me il dubbio: non c’è forse, anche lì, il germe del relativismo?

Lo ripeto: voglio bene al papa, molto bene. Per questo mi faccio tante domande che, fra l’altro, mi creano un sacco di problemi. Quanto sarebbe più comodo starsene tranquilli e ripetere, senza troppi pensieri, le parole che vanno per la maggiore, come misericordia, periferie, Chiesa in uscita, eccetera. Invece no: mi interrogo. Perché non mi sembra serio, oltre che ben poco cristiano, recepire tutto in modo fintamente neutro. Il buon Dio ci ha dotato di cuore e cervello, ed è contento se li usiamo.

Come molti di voi sanno, io sono un papà di sei figli. Un papà ormai un po’ attempato (e adesso anche nonno), ma che è ancora in servizio attivo (quattro le figlie che vivono con me e mia moglie Serena) e ancora, di conseguenza, si confronta ogni giorno con il problema delle risposte da dare ai figli su molteplici questioni: andare al mare in auto e fermarsi fino a tardi, dormire fuori con il fidanzato, stare a casa per evitare il compito in classe di latino, comprare o meno un vestito nuovo, cercare un appartamento per andare a vivere da sola…

Ora, mi chiedo e chiedo a voi: che padre sarei se alle mie figlie, di fronte alle mille domande che mi pongono, rispondessi: sì, ma anche no; no, ma anche sì, fate voi. Che padre sarei se rispondessi che dipende dalla situazione contingente? Se rispondessi così, non lascerei credere alle mie figlie che non esistono il bene e il male in quanto tali ma esiste solo l’esperienza individuale e quella è la misura di tutto? Che padre sarei se rispondessi che non è mio compito giudicare? Come potrei mantenere la mia credibilità se fossi un padre del “ma anche”? Che cosa significa, per un padre, essere misericordioso? Giudicare la realtà e dare risposte certe, attraverso rigorose argomentazioni, o affidarsi al paradigma della situazione?

Badate bene: io sono convinto che il relativismo sia nell’aria che respiriamo. Pertanto, tutti ci possiamo cadere, anche inavvertitamente. Ma proprio per questo motivo dobbiamo vigilare, prima di tutto nei confronti di noi stessi.

Cari amici miei, non so se sono riuscito a spiegarmi. Il discorso dovrebbe essere molto più lungo, ma credo di aver detto l’essenziale e non voglio annoiarvi.

Ringrazio tutti per l’attenzione che mi riservate: davvero non avrei mai immaginato di poter suscitare tante reazioni.

A chi poi paventa che, dietro le mie ultime uscite, ci sia una sorta di manovra per “lanciare” un nuovo libro, rispondo: magari potessi scrivere un nuovo libro su questi argomenti! Vorrebbe dire che avrei le idee chiare. E invece mi trovo a essere così pieno di dubbi, così turbato e perplesso.

Ma sursum corda!  E duc in altum!

Grazie a tutti.

 

Aldo Maria Valli

Aldo Maria Valli:
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