Il professor Andrea Grillo, con un intervento pieno di spunti interessanti (http://www.cittadellaeditrice.com/munera/i-timori-di-a-m-valli-e-gli-ideali-di-un-cattolicesimo-semplificato/) risponde alle mie osservazioni dei giorni scorsi sulla Chiesa del «ma anche». Lo ringrazio. Sia per la forma, sia per i contenuti. E provo a replicare.
So bene che nel mondo, nella cultura e nella mentalità comune è cambiato tutto. E so bene che Francesco lo sa. Di conseguenza, il papa ritiene che, nell’opera di evangelizzazione, abbia poco senso puntare sulla precettistica, sulla legge, sull’obbligazione morale, su ciò a cui la persona è tenuta. Il tavolo sul quale ha deciso di giocare la sua partita è un altro: l’annuncio della misericordia. Vuol far capire a tutti, anche ai più lontani, che il Dio dei cristiani è un padre buono e accogliente, un Dio personale, sempre pronto a perdonare. Ha detto una volta che il nostro non è un «Dio spray», generico e nebulizzato un po’ ovunque, ma è un Dio al quale ognuno di noi può rivolgersi veramente come a un padre che ha a cuore le sorti di ogni figlio, specialmente se il figlio è sofferente. E alla Chiesa chiede di comportarsi di conseguenza. Di qui l’immagine della Chiesa ospedale da campo, dove si curano le ferite più profonde dell’anima. Di qui il reiterato invito a uscire, a recarsi nelle periferie, a frequentarle con animo aperto e disponibilità all’ascolto. Francesco sa bene che in Occidente la società non è più cristiana, ma pagana. È stata cristiana, ma non lo è più. Dunque è come se tutti dovessimo essere evangelizzati per la prima volta. Oggi la Chiesa, ha spiegato, ha una sola pecorella nel recinto e novantanove fuori. Il dovere del pastore è andare alla ricerca di quelle novantanove. E come può fare? Può forse partire dalla legge, dai precetti, dai doveri morali? Può forse parlare di contrizione, di pentimento, di senso del peccato, di timor di Dio? No di certo, pensa Francesco. Verso una società che ha bisogno di reimparare la speranza cristiana, e che in gran parte è superficiale e disattenta, se non apertamente ostile al messaggio che arriva dalla Chiesa, si può procedere solo proponendo l’immagine del padre misericordioso. Perché nessuno si innamora di una legge.
Di qui il tentativo di Francesco: ricongiungere la dottrina e la pastorale, evitando che la prima prenda il sopravvento sulla seconda e che la preoccupazione per la legge, per il complesso delle norme, diventi preponderante rispetto alla sollecitudine per le creature, così come sono, con tutte le loro contraddizioni, i loro limiti e le loro povertà interiori.
La figura di riferimento è il samaritano, mentre il suo opposto è il dottore della legge.
Secondo Bergoglio l’ispirazione samaritana deve improntare l’intera azione della Chiesa, anche in ambito dottrinale. Ecco così l’immagine, cara a Francesco, di «Chiesa incidentata», nel senso di partecipe e coinvolta, da lui preferita a quella di una Chiesa dottrinalmente ben attrezzata, attenta e rigorosa nel ribadire le verità, ma fredda e lontana dalle persone. Ecco così anche la sua richiesta, rivolta con insistenza ai credenti, di sporcarsi le mani con la realtà, specie con quella dei poveri e degli scartati, e di non trasformarsi in «cristiani da salotto», educati ma tiepidi, impegnati a disquisire dei grandi problemi del mondo restandone a distanza.
In Amoris laetitia il paradigma pastorale è spinto molto avanti, tanto da indurre Francesco a sostenere che non può esserci una norma universale, vincolante per tutti, e che la Chiesa deve procedere, nella sua valutazione, caso per caso.
In questa strategia però vedo uno squilibrio. L’attenzione posta alla misericordia e alla tenerezza di Dio, non accompagnata da un impegno altrettanto assiduo nel sottolineare la questione della verità, del vero bene e del modo di attingerlo, espone al rischio dell’indeterminatezza e del sentimentalismo.
Quando accenna alla dottrina, Francesco lo fa per lo più per stigmatizzare il comportamento degli esperti della legge, identificati con gli ipocriti farisei, interiormente corrotti, e per mettere in guardia dai sofismi dei teologi, la cui principale occupazione, dice il papa, è quella di rendere più difficile l’accesso alla Parola di Dio. C’è molta più fede nei semplici e nel popolo di Dio che non nei dottori della legge: così Francesco. Con il che, però, si dimostra un po’ ingiusto, perché si può essere attenti alla dottrina senza essere necessariamente ipocriti farisei e teologi sofisti. Inoltre continua a non affrontare la questione del vero bene.
Per Francesco l’importante è «accompagnare» l’uomo nel suo cammino, con sguardo misericordioso su tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti, ma questa azione di accompagnamento, questa proposta light, non può bastare a se stessa. Le vanno date delle fondamenta.
La pastorale di per sé è una prassi e come tale ha bisogno di una dottrina a cui essere agganciata. Una pastorale senza dottrina, o costruita su una dottrina vaga e ambigua, può andare contro la verità evangelica. La pastorale, svincolata dalla legge, può diventare semplice consolazione di taglio sentimentale, privo di indicazioni circa il vero bene e la strada da seguire per la salvezza dell’anima. E se la Chiesa si limita a questo tipo di accompagnamento rischia di cedere, di fatto, alla logica del mondo.
Il papa raccomanda continuamente che la Chiesa sia missionaria e «in uscita», ma, contrariamente al suo predecessore, non sembra interessato alla questione della verità. Ecco l’origine del disagio che alcuni possono provare davanti ai suoi pronunciamenti.
La stessa immagine dell’«ospedale da campo», dove curare le ferite più gravi, ha bisogno di specificazioni. Curare in che senso? Guarire come? Per approdare a che cosa? In un ospedale può lasciarsi curare e guarire chi non crede nei medici e nelle medicine? Bergoglio sul punto è sfuggente.
La Chiesa ha sempre considerato la dottrina in un solo modo, come via che porta a Dio. Certo, ha anche commesso errori, si è anche resa protagonista di misfatti, ma mai aveva messo in discussione il suo diritto-dovere di indicare la retta dottrina come strada verso Dio. La parola dottrina ha la stessa radice di dottore, di docente. Viene dal verbo docere, insegnare. È uno strumento. La cui validità si giudica dal risultato: se conduce a Dio è vera, se non conduce a Dio è falsa.
In Collaboratori della verità (2006), Benedetto XVI diceva: «Quando la Chiesa denuncia i veri peccati di questa epoca (la distruzione della famiglia, l’uccisione di bambini non nati, le deformazioni della fede) le si contrappone un Gesù che sarebbe stato solo misericordioso. Viene formulata la massima: non si può essere cristiani a spese dell’essere uomini. E per “essere uomini” si intende ciò che pare e piace a ciascuno. Essere cristiani diventa così un optional gradito che non deve costare nulla. Ma Cristo è salito sulla Croce: un Gesù disposto a tollerare tutto non sarebbe stato crocifisso».
Juan Carlos Scannone, il teologo argentino amico di Bergoglio e come lui gesuita (teorico, con Lucio Gera, di quella Teologia del pueblo che ha influenzato non poco il papa attuale), spiega che con Francesco la Chiesa ha fatto proprio il paradigma del Concilio Vaticano II. Dal paradigma precedente, che era a-storico, perché partiva dal «dover essere» senza fare i conti con la realtà del tempo, siamo approdati al paradigma storico voluto da Giovanni XXIII, con la richiesta di tenere più conto del personale e del soggettivo. Un cambiamento, spiega padre Scannone, evidente nella Gaudium et spes, radice e ispirazione di Evangelii gaudium, dove si mette in pratica il metodo «vedere, giudicare, agire» che fu al centro della Conferenza dell’episcopato latinoamericano di Medellin (1968) e che la Chiesa del Sudamerica ha applicato fino alla Conferenza di Aparecida (2007), il cui documento finale, elaborato proprio sotto la guida di Bergoglio, è l’altra fonte di ispirazione di Francesco. Ecco perché, spiega Scannone, il papa è oggi impegnato nell’accompagnamento dei poveri, ecco perché denuncia la cultura dello scarto e chiede ai pastori attenzione e sollecitudine per ogni singola persona. La realtà è più importante dell’idea: Bergoglio lo diceva già nel 1974, quando era provinciale dei gesuiti.
Indagare sulle radici del pensiero del papa ci fa capire quanto Francesco sia legato a un certo clima – culturale, sociale e teologico – che continua a influenzarlo. Ma è legittima una domanda: quella stagione, per quanto entusiasmante, non è forse superata? O, per lo meno, non lo è in alcuni suoi aspetti?
Oggi, di fronte al dilagare di soggettivismo e relativismo, immersi come siamo nella cultura «liquida» della postmodernità, esposti al rischio di veder svanire tutti gli strumenti in grado di assicurare una valutazione morale, il paradigma storico può ancora costituire la chiave di lettura principale? Oggi, anche come Chiesa, non rischiamo forse di essere troppo immersi nella storia e incapaci di dotarci di punti di riferimento stabili, in grado di orientare un’umanità moralmente sbandata?
Il teologo Inos Biffi («Osservatore romano», 12 aprile 2016) mette in guardia da alcune derive della cultura contemporanea che possono essere assunte, fa capire, anche dalla Chiesa. Quando la soggettività prevale su tutto, il soggetto resta in balìa delle impressioni e l’azione umana viene «a mancare di una ragione illuminata e solida», in grado di fare da fondamento delle scelte. È il grande problema del nostro tempo. Non abbiamo principi e nozioni di base per spiegare ciò che siamo e ciò che facciamo. O, per meglio dire, abbiamo principi e nozioni che fatalmente si riconducono «a istintività e opinione non sindacabili» , che è come dire all’arbitrio «allergico a qualsivoglia misurazione». Eccoci così all’«assolutizzazione del soggetto, divenuto radicalmente principio ingiudicabile di bene e di male, di valido e invalido». Questione che, nota Biffi, se sulle prime sembra solo antropologica e logica, diviene necessariamente teologica.
Smascherare la visione «liquida» della realtà umana e tornare a rivendicare per l’uomo la facoltà di «ritrovare l’intelligibilità, l’ordine, la luce delle cose, il loro essere riflesso del Verbo e perciò del Padre che le ha chiamate a vita». Ecco la sfida drammaticamente davanti a tutti noi, a maggior ragione al credente, nel tempo della società liquida.
Tuttavia Francesco non sembra interessato ad assumere questa sfida. In alcune occasioni ha usato parole dure contro quello che ha chiamato il «pensiero unico», interpretandolo però in chiave sociale ed economica, non sotto il profilo filosofico e per le sue possibili implicazioni teologiche. La sua teologia, così, sembra ridursi a una teologia dei diritti che esclude, o lascia in secondo piano, i doveri.
«L’ingerenza spirituale nella vita personale non è possibile». Francesco lo dice nell’intervista alla «Civiltà cattolica» e, fra tutte le sue dichiarazioni, è una delle più problematiche.
Qui Bergoglio sembra fare proprio, volontariamente o meno, un luogo comune tipico della postmodernità: la decisione individuale, se presa in coscienza, è sempre buona o almeno ha sempre valore, per cui nessuno la può giudicare da fuori, con una norma universale. Ma se la scelta individuale, per il solo fatto di essere stata presa in coscienza, è di per sé buona e insindacabile, non siamo in pieno relativismo? E non è forse vero che, lungo questa strada, è facile approdare all’idea, ormai diffusa anche nell’azione pastorale della Chiesa, secondo cui la sincerità e la spontaneità cancellano la natura del peccato?
È davvero così misericordioso rispettare la scelta di vita di ciascuno solo perché è una scelta fatta in libertà e sincerità? La Chiesa non dovrebbe forse portare alla luce la condotta di vita improntata al peccato? E non sta forse proprio in questo esercizio la forma più alta di misericordia? Se la Chiesa non mostra il peccato, se non consente al peccatore di fare chiarezza dentro di sé, secondo la legge di Gesù, in che modo si mette al servizio delle persone? Il primato della coscienza non può essere confuso con l’impossibilità o l’incapacità di giudicare. A rischio è l’autorevolezza stessa del papa , ma soprattutto il destino eterno delle anime.
Quando Francesco, dialogando con Scalfari, sostiene che «ciascuno ha una sua idea del bene e del male e deve scegliere di seguire il bene e combattere il male come lui li concepisce», che cosa dobbiamo pensare? Qui emerge una concezione soggettivistica e relativistica della coscienza morale che sicuramente non si sposa con quanto ha sempre insegnato la Chiesa. Per il cattolico non esiste forse il vero bene, oggettivo?
E come giudicare il passaggio nel quale il papa sostiene che, nella ricerca del bene, «noi dobbiamo incitarlo [l’individuo] a procedere verso quello che lui pensa sia il bene»? Sostenere che il compito della Chiesa non è quello di mostrare il vero bene, ma semplicemente quello di incitare ogni individuo «verso quello che lui pensa sia il bene», non è un cedimento al pensiero relativistico?
«L’immagine del Giudizio finale è in primo luogo non un’immagine terrificante, ma un’immagine di speranza; per noi forse addirittura l’immagine decisiva della speranza. Ma non è forse anche un’immagine di spavento? Io direi: è un’immagine che chiama in causa la responsabilità». Benedetto XVI scrive così nella Spe salvi (n. 44), ragionando sul giudizio di Dio.
Responsabilità. Occorre ammettere che la parola tanto cara a Ratzinger suona oggi desueta.
Quando recitiamo il Credo diciamo a un certo punto: « …e di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti ». L’idea del giudizio divino non è mai stata estranea ai cristiani. Anzi, fin dai primissimi tempi ha fatto da richiamo per le coscienze e da bussola per i comportamenti. Com’è dunque possibile un cristianesimo senza giudizio? A che cosa è ridotto l’uomo se mettiamo in ombra la libertà, nella responsabilità, di scegliere fra il bene e il male? E a che cosa è ridotto Dio se non gli è riconosciuta la facoltà di giudicare ma solo quella di «misericordiare»?
«Nell’epoca moderna il pensiero del giudizio finale sbiadisce». Scrive così Benedetto XVI.
Non è un caso che l’anno santo della misericordia voluto e indetto da Francesco sia il primo della storia dal quale è quasi sparita l’idea di indulgenza, cioè della remissione della pena temporale da scontare nella vita eterna a causa dei peccati commessi, una remissione che può essere plenaria, cioè totale, oppure parziale, e si può ottenere a determinate condizioni fissate dalla Chiesa. L’indulgenza ci ricorda che c’è un aldilà e che nell’aldilà ci può essere una pena da scontare. Ci ricorda dunque che ci sarà un giudizio da parte di Dio. Concetto scomodo per una spiritualità light. Meglio rimuoverlo.
Papa Francesco non si stanca di incentrare la sua predicazione sulla tenerezza del Padre buono, un Padre che non è giudice, che ha le braccia spalancate e accoglie tutti, ma come si può esercitare il ruolo e la responsabilità di genitore senza essere anche, in qualche misura, giudici dei comportamenti assunti dai figli? Apparteniamo a un’epoca e a una cultura nelle quali la figura del padre ha subìto una repentina metamorfosi: da padre troppo spesso giudice e padrone, è diventato amico e compagno, ma abbiamo visto i guasti che questa trasformazione ha portato con sé. Nessuna nostalgia per i tempi in cui i padri punivano e reprimevano con durezza, ma siamo passati da un eccesso all’altro. Il padre non può essere amico e compagno, come oggi viene dipinto. Se si comporta così, tradisce la sua missione, o per lo meno la svilisce. Allo stesso modo, sembra una forzatura dipingere il buon Dio esclusivamente come un Padre tenero e amorevole, privandolo delle funzioni di direzione morale e quindi del dovere di segnalare i comportamenti sbagliati ed eventualmente sanzionarli. In un mondo che sotto il profilo morale è già allo sbando, in una società culturalmente e spiritualmente «liquida», priva di solidi e credibili punti di riferimento, è proprio il caso di immettere «liquidità» anche nell’immagine di Dio?
Durante la presentazione ufficiale di Amoris laetitia in Vaticano, il cardinale Christoph Schönborn si è chiesto: «Questo continuo principio dell’inclusione preoccupa ovviamente alcuni. Non si parla qui in favore del relativismo? Non diventa permessivismo la tanto evocata misericordia? Non esiste più la chiarezza dei limiti che non si devono superare, delle situazioni che oggettivamente vanno definite irregolari, peccaminose? Questa esortazione non favoreggia [sic] un certo lassismo, un “everything goes”? La misericordia propria di Gesù non è invece, spesso, una misericordia severa, esigente?».
Pur dimostrandosi consapevole del problema, l’arcivescovo di Vienna ha dato una risposta che non mi convince. Ha detto: sapendo che «non ha senso una denuncia retorica dei mali attuali», e che «neppure serve pretendere di imporre norme con la forza dell’autorità», Francesco chiede una «conversione pastorale». Che significa?
Papa Francesco, ha spiegato ancora il cardinale, da buon gesuita ha a cuore l’educazione alla responsabilità personale. Per questo dice che «c’è sempre bisogno di vigilanza». Tuttavia, «la vigilanza può diventare anche esagerata». Leggiamo infatti nell’esortazione: «L’ossessione non è educativa, e non si può avere un controllo di tutte le situazioni in cui un figlio potrebbe trovarsi a passare […]. Se un genitore è ossessionato di sapere dove si trova suo figlio e controllare tutti i suoi movimenti, cercherà solo di dominare il suo spazio. In questo modo non lo educherà, non lo rafforzerà, non lo preparerà ad affrontare le sfide. Quello che interessa principalmente è generare nel figlio, con molto amore, processi di maturazione della sua libertà, di preparazione, di crescita integrale, di coltivazione dell’autentica autonomia» (n. 261).
Secondo l’arcivescovo, è «molto illuminante mettere in connessione questo pensiero sull’educazione con quelli che riguardano la prassi pastorale della Chiesa. Infatti, proprio in questo senso papa Francesco torna spesso a parlare della fiducia nella coscienza dei fedeli: “Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle” (n. 37)».
Siamo, qui, nel cuore del problema. Capisco bene che l’educatore non deve essere ossessionato dalla vigilanza, ma ciò non toglie che la regola e la legge restino decisive. Chiunque è stato o è educatore sa che non si può educare aggirando il problema delle regole e che introdurre regole non significa automaticamente esserne ossessionati.
Bisogna seguire, dice il cardinale Schönborn, la «via caritatis», che si estrinseca appunto nel discernimento e nell’accompagnamento, non nel giudizio. Francesco capisce le preoccupazioni di chi preferisce «una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione» (n. 308), ma a tutti obietta dicendo: “Poniamo tante condizioni alla misericordia che la svuotiamo di senso concreto e di significato reale, e quello è il modo peggiore di annacquare il Vangelo”» (n. 311).
Papa Francesco, conclude Schönborn, «confida nella “gioia dell’amore”. L’amore sa trovare la via. È la bussola che ci indica la strada. Esso è il traguardo e il cammino stesso, perché Dio è l’amore e perché l’amore è da Dio. Niente è così esigente come l’amore. Per questo nessuno deve temere che papa Francesco ci inviti, con Amoris laetitia, a un cammino troppo facile. Il cammino non è facile, ma è pieno di gioia!».
Ora, tutti sappiamo che l’arcivescovo di Vienna è un fine teologo, ma queste sue osservazioni non spiegano molto. Il richiamo finale all’amore, che sa trovare la via, suona veramente troppo generico e superficiale. Quale amore? Quale via? Per arrivare dove?
Il richiamo alla funzione educativa è giusto, ma ripetiamo: gli educatori più accorti sanno bene che la questione della norma, e quindi del limite, e quindi della dottrina, non può essere aggirata. Nessun genitore, alla domanda su come far crescere una persona nella responsabilità, può permettersi di rispondere facendo riferimento, genericamente, all’amore. Occorre precisare. L’amore va declinato. Anche attraverso le regole, senza le quali non ci può essere vera educazione alla libertà responsabile. Altrimenti il salto nel relativismo è cosa fatta.
Aldo Maria Valli