Avevo promesso che non avrei più parlato di me stesso, e invece rieccomi qua (è proprio vero che dei giornalisti non ci si può fidare).
Dopo che ho manifestato dubbi e perplessità circa l’insegnamento contenuto in Amoris laetitia (eccessivo ricorso alla morale della situazione, ambiguità diffusa, rischio di sfociare nel soggettivismo e nel relativismo), alcuni amici mi hanno detto: «Da te proprio non ce l’aspettavamo! Tu che eri amico di Martini! Tu che hai scritto a favore della comunione ai divorziati risposati e contro le discriminazioni ai danni degli omosessuali!». Implicita l’accusa di essere in contraddizione con me stesso.
Partiamo allora da Martini. È vero, mi ha onorato della sua amicizia e l’averlo potuto frequentare è stato un dono grande. Proprio perché eravamo amici ci è capitato anche di mettere a confronto idee diverse. Non entrerò nei dettagli. Dico solo che, a mio giudizio, il cardinale non fu mai ambiguo. Quando chiedeva di capire le ragioni degli altri (fino al punto di istituire la cattedra dei non credenti) e di cogliere i segni dei tempi, si metteva certamente in ascolto con grande attenzione, ma non per questo abbassava il livello della riflessione. Al contrario, lo alzava. Si interrogava, cercava di mettersi nei panni degli altri, ma non pretendeva di piegare il Vangelo alle esigenze del mondo. Per tutta la vita non ha fatto altro che leggere il mondo, con tutti i suoi cambiamenti e stravolgimenti, tenendo la Bibbia in mano.
E ora la comunione ai divorziati risposati. Mi sento un po’ in imbarazzo nell’affrontare l’argomento perché non ho competenze teologiche. Dirò tuttavia che vedo l’eucaristia come l’aiuto numero uno, il più potente e prezioso, nel cammino del cristiano e come un balsamo per i sofferenti, non certo come un premio per i perfetti. Gesù è venuto per i malati, non per i sani. Quindi capisco molto bene tutti quei preti che sostengono i divorziati risposati perché l’eucaristia sia vissuta così. Diverso è il caso delle coppie omosessuali credenti, ma anche sotto questo profilo mi sento vicino a tutti quei preti in cura d’anime che, senza applicare alle persone etichette di «regolarità» o «irregolarità», si comportano da padri nella fede, con rispetto e insieme autorevolezza. Ho affrontato questi temi in due libri-inchiesta, Chiesa ascoltaci! e C’era una volta la confessione (scusate la pubblicità, ma è solo per spiegare che non parlo per sentito dire), che mi hanno fatto toccare con mano la sofferenza reale di preti divisi interiormente tra la spinta a donare il balsamo dell’eucaristia e il dettato della norma canonica. Ricordo soprattutto la testimonianza di un sacerdote che, confessando la sua disobbedienza nei confronti del codice, mi ha detto: «Io non me la sento di chiudere il Cielo in faccia alle persone».
Ora la domanda: Amoris laetitia scioglie questi nodi? A mio giudizio no. Purtroppo li rende ancora più ingarbugliati. Perché non dà risposte chiare ma si limita ad affermare la morale della situazione come criterio-guida. Il che, di fatto, non solo accresce la confusione, ma indebolisce l’autorevolezza del munus docendi, del compito di insegnare, proprio di ogni sacerdote e a maggior ragione del papa.
Non starò a riproporre tutti i dubbi circa Amoris laetitia. Mi limito a osservare la disparità rispetto a Familiaris consortio (n. 34), là dove san Giovanni Paolo II invita a non confondere la legge della gradualità con la gradualità della legge, come se la legge divina avesse vari gradi di cogenza a seconda delle varie situazioni. Occorre stare attenti: è facile relativizzare la legge divina. E lo sanno bene i coniugi cristiani, ministri del loro matrimonio, chiamati alla fedeltà reciproca e all’indissolubilità del vincolo.
Ho già fatto in altri interventi il paragone con il padre di famiglia: che cosa potrebbero pensare i miei figli se una norma (per esempio, rientrare a casa non più tardi della mezzanotte) valesse in un certo grado per l’uno e in un certo grado per l’altro? Sarà che di figli ne ho sei, ma se applicassi la gradualità della legge e la morale della situazione, provocherei sconcerto nei figli e metterei a rischio la credibilità di padre. L’importante è invece applicare la legge della gradualità, ben sapendo che ciascuno matura con tempi diversi e attraverso cammini diversi.
In Familiaris consortio san Giovanni Paolo II è tutt’altro che duro con i coniugi. Esigente sì, ma non duro. A un certo punto osserva che nei loro confronti, da parte di chi li sostiene nel cammino spirituale, occorrono «non poca pazienza, simpatia e tempo». Ecco la legge della gradualità. Ben diversa dall’idea che vi sia una gradualità nella legge divina. Ed ecco perché papa Wojtyła chiede a tutti coloro che sono impegnati nella pastorale familiare «riflessione, informazione, idonea educazione dei sacerdoti, dei religiosi e dei laici» e poi sottolinea che «di singolare importanza in questo campo è l’unità dei giudizi morali e pastorali dei sacerdoti: tale unità dev’essere accuratamente ricercata ed assicurata, perché i fedeli non abbiano a soffrire ansietà di coscienza». Unità dei giudizi morali: il contrario della confusione dilagante.
Gradualità della legge e morale della situazione possono forse apportare benessere psicofisico, ma conducono alla salvezza dell’anima?
Arrovellarsi attorno a queste domande è ovviamente tempo sprecato per chi pensa che tutto finisca con la morte. Lo è anche per chi ritiene che il buon Dio, alla fin fine, non giudicherà ma si limiterà ad apporre un timbro di idoneità al paradiso. Ma il Salmo ci parla di un Dio «grande nell’amore» e «lento all’ira», un Dio che «ha pietà di quanti lo temono». L’ira di Dio, il timor di Dio: non sono fantasie, esistono. Non commettiamo l’errore di leggere solo le parole che ci garantiscono consolazione superficiale e di ignorare quelle che riguardano il giudizio e dunque chiamano in causa la nostra libertà e la nostra responsabilità.
Alcuni amici mi dicono: ma tu cadi in sottigliezze infinite e così perdi di vista l’umanità. Rispondo con le parole di Chesterton: «Chi si conforma a dire “Non vogliamo che i teologi dibattano su sottigliezze” si conformerebbe sicuramente anche a dire “Non vogliamo che i chirurghi operino filamenti più sottili di un capello”. È un fatto che molte persone oggi sarebbero morte se non fosse perché i medici hanno dibattuto sulle delicate sfumature della medicina. È anche un fatto che la civiltà europea oggi sarebbe morta se i dottori della divinità non avessero dibattuto sulle delicate sfumature dottrinali».
Aldo Maria Valli