È la mattina dell’11 febbraio 2013, giorno in cui la Chiesa ricorda
la Madonna di Lourdes, quando Benedetto XVI, rivolgendosi
in latino ai cardinali riuniti in concistoro per il voto su alcune
cause di canonizzazione, introduce la cattolicità in una fase tutta
nuova della sua storia bimillenaria. Le parole con le quali
apre l’incontro hanno la forza dirompente di una bomba: «Conscientia
mea iterum atque iterum coram Deo explorata ad cognitionem certam
perveni vires meas ingravescente aetate non iam aptas esse ad
munus Petrinum aeque administrandum».
Il papa sta dicendo che rinuncia al trono. Non ce la fa più.
«Dopo aver ripetutamente esaminato la mia
coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che
le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per
esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben
consapevole che questo ministero, per la sua essenza
spirituale, deve essere compiuto non solo con le
opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia,
nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato
da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare
la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo è necessario
anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli
ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere
la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato.
Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto,
con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo
di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei
Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle
ore 20, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà
essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per
l’elezione del nuovo Sommo Pontefice».
Chi avrebbe mai detto che, dopo quasi otto anni, il pontificato
di Joseph Ratzinger, il teologo bavarese al tempo stesso fermo
e gentile, sarebbe terminato in questo modo?
Le prime reazioni sono di incredulità, sia fra i porporati convocati
dal papa, sia nell’opinione pubblica mondiale.
Perché questa decisione?
Negli ultimi mesi del pontificato il papa è apparso molto stanco.
Ma davvero c’è solo questo? Saranno gli storici a tentare
una risposta. Noi contemporanei possiamo soltanto affidarci
alla cronaca. Prima fra tutte quella del 13 febbraio 2013,
quando, in occasione dell’udienza generale
del mercoledì, in un’aula Nervi strapiena e fremente di affetto
per il papa, Benedetto XVI, alla sua prima apparizione pubblica
dopo la clamorosa decisione di rinunciare al pontificato, ribadisce di essere
approdato alla sua decisione «dopo aver pregato a lungo» e dopo
«aver esaminato davanti a Dio la mia coscienza,
ben consapevole della gravità di tale atto, ma altrettanto
consapevole di non essere più in grado di svolgere il ministero
petrino con quella forza che esso richiede. Mi sostiene e mi
illumina la certezza che la Chiesa è di Cristo, il Quale non le farà
mai mancare la sua guida e la sua cura».
Le parole del papa, ripetutamente interrotte da applausi fragorosi,
ribadiscono con nettezza che la scelta è stata pienamente
libera. È quanto richiede il diritto canonico: nessuno può imporre
le dimissioni al papa, e nessuno deve ratificarle.
Nel libro Luce del mondo, intervistato dal giornalista Peter
Seewald, suo conterraneo, Ratzinger aveva detto chiaramente,
già nel 2010, che se il papa avverte di non possedere più le forze
necessarie per reggere le sorti della Chiesa universale ha non
solo il diritto ma il dovere di farsi da parte. E Ratzinger, l’umile
e razionalissimo professore, ne ha tratto le debite conseguenze.
Mancando le energie necessarie, meglio lasciare il campo a
un papa più vigoroso.
Ma come non pensare che il suo passo, così estremo, non sia
nato anche dai tanti problemi che hanno costellato il pontificato?
Che non sia il frutto, per esempio, delle tensioni interne sfociate
nel cosiddetto affare Vatileaks e nell’arresto del maggiordomo
pontificio, accusato di essere «il corvo»? Come non sospettare
che il papa sia stato logorato non solo dagli impegni d’ufficio,
ma anche da una curia litigiosa e spesso molto poco collaborativa
nei suoi confronti? E come non ripensare alle parole dette,
sempre a Seewald, a proposito del giorno dell’elezione, vissuto
come un vero e proprio trauma? Disse Ratzinger ricordando
quelle ore: «Il fatto di trovarmi all’improvviso di fronte a questo
compito immenso è stato per me un vero choc. La responsabilità,
infatti, è enorme. Veramente avevo sperato di trovare pace e
tranquillità. Il pensiero della ghigliottina mi è venuto: ecco, ora
cade e ti colpisce».
Per poco meno di otto anni il papa tedesco ha accettato di rinunciare
alla pace e alla tranquillità. Poi ha detto basta. Anche
se nessun Dante, probabilmente, lo renderà immortale, sarà ricordato
come il papa dimissionario, più ancora di Celestino V.
Ma è giusto ricordarlo soltanto così?
Certamente no. Perché lungo il suo pontificato ha parlato,
ha insegnato e ha indicato vie importanti per tutti,
non solo per i cattolici e non solo per i credenti. Un contributo
considerevole al dibattito in campo culturale, religioso e spirituale,
di fronte alle sfide che riguardano l’uomo del ventunesimo
secolo. Un contributo che merita di essere analizzato.
Al centro del magistero di Benedetto XVI c’è una domanda: chi
è l’uomo? La risposta, elaborata fin dalla prima enciclica, la Deus
caritas est del 2005, dedicata all’amore cristiano, è che l’uomo è
una creatura voluta da Dio per un atto d’amore che la creatura
è chiamata a sua volta a ricambiare e diffondere. Domanda e risposta
sono state inserite dal papa all’interno di una grande proposta
riguardante la ragione umana.
Il teologo Ratzinger, in controtendenza rispetto al pensiero contemporaneo,
sostiene infatti che lo spazio della razionalità non si
esaurisce con ciò che è sperimentabile, ma va al di là e comprende
la sfera trascendente. L’indagine su se stesso e sul significato del proprio
essere, insopprimibile in ogni uomo, porta inevitabilmente
a fare i conti con l’ipotesi Dio. Un’ipotesi che il papa
chiede di non eliminare a priori, ma di indagare proprio in virtù
di quella razionalità che è pienamente umana quando non è
mutilata dalla pretesa positivistica.
È un discorso, quello sulla ragione, che il papa ha affrontato
in particolare nella lezione tenuta a Ratisbona, durante il viaggio
in Baviera nel 2006. Interpretato in chiave anti-islamica per
via di una citazione riguardante Maometto, l’intervento di Benedetto
XVI aveva come destinatario il pensiero espresso dalla
cultura occidentale e soprattutto europea, un pensiero colpevole,
a suo giudizio, di aver abbandonato l’ipotesi Dio con drammatiche
conseguenze sul piano morale. Nella visione di Ratzinger,
infatti, l’eliminazione di Dio dall’orizzonte conoscitivo equivale
a rendere l’uomo schiavo di sé, perché quando la libertà ha
come unica misura l’uomo stesso è falsa e apre la porta all’uso
strumentale dell’essere umano.
Gli incessanti appelli per il rispetto della vita dal concepimento
alla morte naturale, per la difesa della famiglia fondata sul matrimonio
e per la libertà religiosa vanno inquadrati all’interno di
questa cornice, che comporta un dialogo serrato con la cultura
secolarizzata. Il contrasto a tratti è stato aspro, ma il papa non ha
mai voluto annacquarlo. Intervenendo nel dibattito pubblico, ha
detto a più riprese, la Chiesa non difende interessi propri, bensì
l’identità della persona in quanto creata a immagine di Dio.
Benedetto XVI ha individuato il grande avversario nel relativismo
etico, che nasce dall’abbandono della ricerca della verità,
ritenuta non pertinente alla ragione umana. Oggi proposto ed
esaltato dalla mentalità dominante come garanzia del rispetto
reciproco, della tolleranza e, alla fine, della democrazia stessa,
il relativismo è, per papa Ratzinger, un vero tarlo sia per l’intelletto
sia per lo spirito: creando pericolosi vuoti all’interno della
morale umana, esso lascia la creatura senza punti di riferimento,
del tutto sbandata e incapace di usare la propria libertà in
senso costruttivo.
Contro il relativismo morale il papa si è battuto incessantemente,
riaffermando la validità della dottrina del diritto naturale,
i cui precetti fondamentali sono espressi nel decalogo. La legge
«naturale», ha sostenuto il pontefice citando il Catechismo della
Chiesa cattolica, è chiamata così «perché la ragione che la promulga
è propria della natura umana». Essa infatti «indica le norme
prime ed essenziali che regolano la vita morale» e ruota attorno
a due perni, «la sottomissione a Dio, fonte e giudice di ogni bene,
e il senso dell’altro come uguale a se stesso».
A giudizio di papa Benedetto, mediante la dottrina della legge
naturale si raggiungono due finalità essenziali: «Da una parte,
si comprende che il contenuto etico della fede cristiana non
costituisce un’imposizione dettata dall’esterno alla coscienza
dell’uomo …; dall’altra, partendo dalla legge naturale di per sé
accessibile a ogni creatura razionale, si pone con essa la base per
entrare in dialogo con tutti gli uomini di buona volontà e, più
in generale, con la società civile e secolare» (discorso nell’udienza
ai membri della Commissione teologica internazionale, 5 ottobre
2007).
Per Benedetto XVI abbandonare la ricerca della verità significa
entrare in una dimensione di smarrimento e confusione che
ha gravi conseguenze sul vivere. Una volta persa l’idea che i
fondamenti dell’essere umano e delle relazioni sociali esistono
e sono riconoscibili, si lascia campo aperto a una lotta tra visioni
diverse e tutte equivalenti. Un relativismo che si ripercuote in
modo drammatico sulle coscienze e anche sul diritto perché, in
mancanza di un fondamento etico originario, evidente e riconosciuto,
il criterio dominante diventa quello della maggioranza
numerica. E di fatto, in queste condizioni, la maggioranza è riconosciuta
come la fonte stessa delle decisioni e della legge civile.
Eliminato il problema della ricerca del bene, perché il relativismo
lo ritiene semplicemente non proponibile, non resta che la
conta delle posizioni, ma in questo modo tutto si sposta sul piano
del potere. Può così accadere che la maggioranza di un momento
diventi la fonte del diritto, anche se la storia dimostra che le
maggioranze possono sbagliare. Di qui l’ammonimento, contenuto
nel discorso citato sopra: «La vera razionalità non è garantita
dal consenso di un gran numero, ma solo dalla trasparenza
della ragione umana alla Ragione creatrice e dall’ascolto comune
di questa Fonte della nostra razionalità».
Il conflitto tra questa visione e quella espressa dalla mentalità
corrente, incapace di accettare il discorso proposto dal papa sulla
verità, ha attraversato in modo drammatico il pontificato di
Joseph Ratzinger. Ma il pontefice teologo, pur con i modi gentili
e il tocco lieve che gli sono sempre stati propri, non ha rinunciato
a condurre avanti la battaglia.
È qui l’origine dell’incessante riproposizione di quelli che ha
definito i principi non negoziabili: la dignità di ogni persona
umana indipendentemente da razza e cultura, il valore di ogni
vita dal concepimento alla morte naturale, il ruolo della famiglia
fondata sul matrimonio, la libertà religiosa. Secondo il magistero
di Benedetto, infatti, questi valori fondamentali non nascono da
un ordinamento umano e non possono essere agganciati ad alcuna
norma elaborata dagli uomini. Nascono invece dal Creatore,
che li ha scolpiti in modo indelebile nel cuore di ogni creatura,
anche se poi l’uomo, come avviene, può impegnarsi a fondo
per dimenticarli o per negare la loro fonte. È dunque la legge
naturale, e non il diritto assunto attraverso la logica delle maggioranze,
l’autentica garanzia del rispetto dei valori fondamentali,
contro ogni manipolazione ideologica e ogni arbitrio determinato
dalla legge del più forte. Ed è tragicamente miope, ha detto
più volte il papa, l’atteggiamento di chi, oscurando la coscienza
individuale e collettiva, lascia campo libero al relativismo etico
e allo scetticismo conseguente, contribuendo così a cancellare,
con la legge naturale, anche il vero fondamento del sistema democratico.
Risiede qui, in questo processo di erosione della legge
naturale, il nocciolo della crisi attuale, considerata dal papa
crisi umana prima ancora che cristiana.
Nel suo libro Gesù di Nazaret, Benedetto XVI dice che tutte
le tentazioni del Maligno nei confronti di Cristo hanno un nucleo
in comune: rimuovere Dio. E che cosa sta facendo la modernità,
si chiede il pontefice, se non eliminare Dio dal proprio
orizzonte? L’operazione sembrerebbe giustificata in nome
del realismo, perché Dio non si vede e comunque appare lontano.
Eppure, sostiene il papa, dobbiamo costatare che quando
l’uomo e la società eliminano Dio come fondamento dei valori,
e lo tollerano al più come opzione individuale senza incidenza
sul vivere comune, sprofondano nella mancanza di significato
e in questo modo aprono la strada alla schiavitù. Perché i valori
fondamentali, a partire dalla vita stessa, sganciati dalla loro
origine divina si trasformano in idoli ai quali l’uomo è asservito.
È così che anche il progresso tecnologico, mai condannato
dal papa in quanto tale, se privato del suo riferimento morale
più profondo si trasforma da strumento al servizio dell’uomo
in arma che lo può distruggere.
La vera speranza, la più affidabile, è dunque quella fondata
in Dio, non nell’uomo, nel suo pensiero o nelle sue realizzazioni
(come il papa sostiene nella Spe salvi, la sua seconda enciclica,
sulla speranza cristiana, del 2007), e tutti i valori umani prendono
significato da qui. Riconoscere l’origine divina della creatura
umana non equivale a sminuirne l’importanza. Al contrario,
è proprio l’origine divina che assegna all’uomo quella dignità
e quella grandezza che gli ordinamenti sono chiamati a riconoscere
e tutelare.
La necessità di ampliare il raggio d’azione della ragione umana
è stata sostenuta in modo particolarmente esplicito dal pontefice
in un discorso rivolto al VI Simposio europeo dei docenti
universitari (Allargare gli orizzonti della razionalità. Prospettive per
la filosofia, 7 giugno 2008), quando ha spiegato che solo una ragione
aperta alla fede è in grado di approdare a quell’Amore originario
che è la verità più profonda dell’essere. Questa non è, ha
precisato il papa, una nuova proposta filosofica e teologica, una
fra le tante. È la richiesta di aprirsi alla vera realtà dell’uomo,
superando ogni riduzionismo. Richiesta fatta sulla base di una
«urgenza storica» della quale la fede cristiana deve farsi carico.
Poiché la fede nel Dio cristiano, e dunque nell’opera salvifica
di Cristo, è una realtà che coinvolge interamente la persona e non
riguarda solo la sfera intellettuale, la Chiesa, chiamata a escogitare
metodi efficaci per annunciarla, chiede di essere riconosciuta
come soggetto culturale che esprime un’esigenza profondamente
umana. Ecco perché «il cristianesimo non va relegato al mondo del
mito o dell’emozione, ma deve essere rispettato per il suo anelito a
fare luce sulla verità sull’uomo» (discorso ai partecipanti all’incontro
dei rettori e docenti delle università europee, 23 giugno 2007).
Il realismo della fede cristiana è dimostrato, secondo Benedetto
XVI, dal fatto che la cultura non nasce da un’esigenza intellettuale,
ma dalla vita stessa attraverso i suoi accadimenti,
dal bisogno di trovare un significato e una speranza. È quanto
il papa ha detto nell’incontro con i rappresentanti della cultura
al Collège des Bernardins di Parigi, il 12 settembre 2008 (Le origini
della teologia occidentale e le radici della cultura europea), quando
ha ricordato che i monaci medievali garantirono la sopravvivenza
della vecchia cultura e incominciarono a elaborare la
nuova non perché volessero raggiungere questo traguardo specifico,
ma per un motivo che era al tempo stesso più elementare
e più profondo. «Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare
Dio. Nella confusione dei tempi, in cui niente sembrava resistere,
essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare
ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla
ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle
essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile.»
Ecco ciò che Benedetto XVI ha chiesto anche all’uomo contemporaneo.
In un tempo per molti aspetti assimilabile a quello
culturalmente confuso vissuto dai monaci medievali, ha esortato
tutti a fare ricorso alla ragione «ampliata» per arrivare a Dio.
Una sfida formidabile alla modernità.
Con la stessa incisività con la quale ha impostato il confronto
culturale, il papa ha agito in campo dottrinale, riproponendo la
centralità di Gesù, vero uomo e vero Dio. Poiché la corretta relazione
con Dio è il presupposto tanto della morale personale
quanto dell’ordine sociale, occorre conoscere il suo volto, ed è
una conoscenza che possiamo fare solo attraverso Gesù.
Nel libro dedicato a Cristo, Benedetto XVI si rende conto di
quanto sia facile attribuire un volto a Gesù avendo a cuore uno
specifico problema. Gesù può così diventare, di volta in volta,
un rivoluzionario, se l’obiettivo è la giustizia sociale, o un santone,
se invece lo si vuole utilizzare per il raggiungimento della
pace interiore. Ma Gesù non può essere piegato a queste esigenze.
Come fece Cristo stesso, che chiese agli apostoli quale fosse
l’opinione della gente sul suo conto e poi rivolse la domanda ai
suoi seguaci, papa Ratzinger ha riproposto l’interrogativo e ha
risposto così: Gesù è Dio presente in un uomo, è la rivelazione
divina dentro la storia dell’uomo, è l’amore di Dio che si fa carne
per la nostra salvezza.
L’insegnamento di Gesù, ha osservato una volta Benedetto, sembra
duro e troppo difficile da mettere in pratica. C’è allora chi lo
rifiuta oppure chi cerca di adattarlo alle mode dei tempi, snaturandone
il messaggio. Ma Gesù «non si accontenta di un’appartenenza
superficiale e formale», né gli è sufficiente «una prima ed
entusiastica adesione». Ciò che chiede è che tutta la nostra vita sia
un’adesione «al suo pensare e al suo volere» (udienza del 25 agosto
2009). Aprire con fiducia il cuore a Cristo e lasciarsi conquistare
da lui. Non dobbiamo fare altro. Questo il segreto della felicità.
A più riprese il papa ha sottolineato che l’adesione a Cristo è
anche l’unico vero antidoto alle pretese di dominio attraverso il
potere umano. «Cristo non teme nessun eventuale concorrente,
perché è superiore a qualsivoglia forma di potere che presumesse
di umiliare l’uomo», disse nella catechesi del 14 gennaio
2009, aggiungendo a braccio: «Chi è con Cristo non teme niente
e nessuno».
In quanto «corpo di Cristo», è la Chiesa la realtà «più omogenea»
all’identità di Gesù, ed è quindi solo nella Chiesa che possiamo
concepire pienamente Cristo come nostro Signore sia in
quanto guida della comunità sia in quanto capo del cosmo intero
(il Pantocratore della tradizione bizantina). La Chiesa deve
riconoscere che Cristo è «più grande di lei», e tuttavia deve essere
consapevole del fatto che solo la Chiesa è corpo di Cristo,
non il mondo, non l’universo.
Un’altra suggestiva definizione uscita dalla teologia di Ratzinger
è quella di Cristo come «orma di Dio», anzi «la sua impronta
massima», un mistero di fronte al quale tutte le nostre categorie
concettuali si devono arrendere, lasciando spazio alla «contemplazione
umile e gioiosa». Perché solo l’amore è in grado di capire.
Ogni giorno, anche oggi, Cristo viene nuovamente «fra la sua
gente», disse il papa nel messaggio per il Natale del 2006, quando
si chiese: «Come non sentire che proprio dal fondo di questa
umanità gaudente e disperata si leva un’invocazione straziante
di aiuto?».
«Salvator noster», lo definì in quell’occasione Benedetto XVI:
«Cristo è il Salvatore anche dell’uomo di oggi» e il cristiano
deve essere colui che si rende capace di far risuonare «in ogni
angolo della terra, in maniera credibile, questo messaggio di
speranza».
Chi annuncia Cristo, specificò durante la messa a Luanda,
nel marzo del 2009, non manca di rispetto alle altre culture e
alle altre religioni. Infatti, «se noi siamo convinti e abbiamo fatto
l’esperienza che, senza Cristo, la vita è incompleta, le manca
una realtà, anzi la realtà fondamentale, dobbiamo essere convinti
anche del fatto che non facciamo ingiustizia a nessuno se
gli presentiamo Cristo e gli diamo la possibilità di trovare, in
questo modo, anche la sua vera autenticità, la gioia di avere trovato
la vita». Il cristiano deve sapere che «è un obbligo nostro
offrire a tutti questa possibilità di raggiungere la vita eterna».
La centralità assoluta di Cristo è anche il criterio che, secondo
Benedetto XVI, deve ispirare ogni ipotesi di riforma spirituale
e sociale. Lo disse chiaramente durante l’udienza del 7 ottobre
2009, quando, illustrando la figura e l’opera di san Giovanni
Leonardi, usò la formula «o Cristo o niente».
San Paolo e il santo Curato d’Ars sono gli esempi che il papa
ha ripetutamente additato, soprattutto durante l’anno paolino
e l’anno sacerdotale: Paolo e Giovanni Maria Vianney, due
cristiani che in epoche diverse furono consapevoli di essere portatori
di un «tesoro inestimabile», il messaggio della salvezza,
ma si resero anche conto di portarlo in un «vaso di creta».
Perciò nel trasmettere questo tesoro il cristiano è chiamato a
essere «forte e umile», persuaso che «tutto è merito di Dio».
Seguire Cristo è un cammino di verità, perché seguendo lui,
insegna papa Benedetto, scopriamo la verità su noi stessi. Ma
come si rapporta la verità con la libertà umana?
È questa un’altra domanda centrale nel suo insegnamento.
«Per quale scopo si vive in libertà?», si è chiesto il papa nel discorso
alle autorità della Repubblica Ceca e al corpo diplomatico
il 26 settembre 2009, nel corso della visita a Praga. «Quali sono i
suoi autentici tratti distintivi?» Parte da qui la sua riflessione sul
«corretto uso della libertà». E, nel dare la risposta, Ratzinger introduce
subito l’idea di verità. «La vera libertà presuppone la ricerca
della verità, del vero bene, e pertanto trova il proprio compimento
precisamente nel conoscere e fare ciò che è retto e giusto.»
«La verità, in altre parole, è la norma guida per la libertà e la
bontà ne è la perfezione.» Per questo, ha sottolineato, «l’alta responsabilità
di tener desta la sensibilità per il vero e il bene ricade
su chiunque eserciti il ruolo di guida», in campo religioso,
politico e culturale.
Di qui l’esortazione: «Insieme dobbiamo impegnarci nella lotta
per la libertà e nella ricerca della verità: o le due cose vanno insieme,
mano nella mano, oppure insieme periscono miseramente».
Per i cristiani, ha insegnato incessantemente papa Benedetto,
la verità ha un nome e il bene ha un volto. Il nome è quello di
Dio, il volto è quello di Gesù. Mantenere salde le radici cristiane,
per i singoli come per le comunità sociali, vuol dire dunque usare
la libertà per ancorarsi alla verità e al bene.
San Paolo, nella lettera ai Galati, dice: «Siete stati chiamati alla
libertà». Ma che cosa significa essere chiamati alla libertà? Una
delle lezioni più esaurienti tenute dal papa in proposito si trova
nel discorso pronunciato nel Seminario Romano Maggiore
il 20 febbraio 2009. Spiegando che la libertà è stata sempre una
delle grandi aspirazioni dell’umanità e citando il caso di Lutero,
che per mettere in pratica il messaggio di Paolo arrivò a vedere
nella regola monastica, nella gerarchia e nel magistero un
giogo di schiavitù, il papa affermò che proprio in Paolo c’è la risposta,
quando mette in guardia dall’identificare la libertà con
l’io assoluto, con il proprio arbitrio, ma la fa coincidere con il
servizio agli altri. Non si tratta di vivere secondo la carne, ma di
vivere, mediante la carità, per il prossimo. In fondo, dice Benedetto,
quale fu l’obiettivo dell’illuminismo e del marxismo? Si
tratta sempre della libertà umana come rivendicazione dell’io
contro ogni forma di dipendenza esterna. Ma ciò in cui cadono
le ideologie, sostiene Ratzinger, è un abbaglio. L’io assoluto, che
ha come punto di riferimento e come orizzonte soltanto se stesso,
sembra possedere la libertà, eppure realizza soltanto la degradazione
dell’uomo. Ecco che cosa succede quando si confonde
la libertà con l’autonomia e con il libertinismo.
Il papa riconosce che quello proposto da Paolo è un paradosso
difficile da digerire per la mentalità contemporanea, abituata
a vedere nella libertà semplicemente una mancanza di vincoli e
di doveri. Paolo arriva a dire che la libertà si manifesta nel servire:
tanto più siamo liberi quanto più siamo servi gli uni degli
altri. Ridursi alla sola carne, cioè all’idea dell’autonomia assoluta,
vuol dire abbracciare una menzogna. Perché in realtà «l’uomo
non è un assoluto, quasi che l’io possa isolarsi e comportarsi solo
secondo la propria volontà». Pensare questo «è contro la verità
del nostro essere». «La nostra verità è che, innanzitutto, siamo
creature, creature di Dio, e viviamo nella relazione con il Creatore.
Siamo esseri relazionali. E solo accettando questa nostra relazionalità
entriamo nella verità, altrimenti cadiamo nella menzogna
e in essa, alla fine, ci distruggiamo.»
La relazione con il Creatore sarebbe una dipendenza nefasta
se Dio fosse un tiranno, ma il Dio cristiano è buono, è un Dio che
ci ama. Essere nel suo spazio è sicuramente una dipendenza, ma
poiché è spazio d’amore è una dipendenza positiva, per il nostro
bene. Corrisponde alla nostra libertà. «Quindi questo è il primo
punto: essere creatura vuol dire essere amati dal Creatore, essere
in questa relazione di amore che egli ci dona».
Siamo qui nel cuore dell’insegnamento di Benedetto XVI, ma
è un cuore difficile da accettare per la mentalità moderna e anche
per il cristiano stesso, oggi sottoposto incessantemente a sollecitazioni
che lo spingono a identificare sempre di più la libertà
con l’autodeterminazione.
La nostra condizione di esseri in relazione, spiegò il papa nel
discorso ai seminaristi, implica non solo questo legame diretto e
fondante con il Dio creatore. In quanto figli di Dio, noi formiamo
una famiglia, e dunque, proprio in quanto famiglia, siamo anche
in relazione l’uno con l’altro. Di conseguenza, libertà è sia essere
nello spazio di Dio, spazio di gioia perché Dio ci ama, sia essere
in relazione fra creature: «Non c’è libertà contro l’altro. Se io mi
assolutizzo, divento nemico dell’altro, non possiamo più convivere
e tutta la vita diventa crudeltà, diventa fallimento. Solo una
libertà condivisa è una libertà umana; nell’essere insieme possiamo
entrare nella sinfonia della libertà».
Sono espressioni che dimostrano, anche dal punto di vista stilistico,
la tensione presente nel papa e il suo desiderio di far capire
nel modo più limpido che cos’è la libertà per il cristiano. Una
libertà che ha senso solo se vissuta in comune, non come fatto
individualistico. Proprio perché si tratta di un bene comune, la
libertà così intesa ha bisogno, per essere davvero tale, di un terreno
valido per tutti, un «ordine giusto», come lo chiama Benedetto.
Presupposto di questo ordine è una verità nella quale l’intera
comunità possa riconoscersi. Questa verità è appunto Dio, ma se
Dio non è riconosciuto, se Dio è negato, non c’è verità comune e
non c’è ordine. Ecco così che l’ordine, con il diritto che ne deriva,
diventa strumento di libertà contro la schiavitù dell’egoismo.
Il papa cita le celebri parole di sant’Agostino: «Dilige et fac quod
vis, ama e fa’ ciò che vuoi». Non è, spiega, un invito all’assolutizzazione
dell’io. Tutto dipende da quale significato diamo al verbo
amare. Se siamo in comunione con Cristo, se ci siamo compenetrati
con lui, con la sua morte in croce e la sua risurrezione, allora
possiamo dire che la legge divina entra nella nostra volontà
e la nostra volontà si identifica con quella di Dio. «E così siamo
realmente liberi, possiamo realmente fare ciò che vogliamo, perché
vogliamo con Cristo, vogliamo nella verità e con la verità.»
Quelli appena ricordati sono i punti fermi dell’insegnamento
di Benedetto XVI, da sottolineare per capire quali sono stati
i presupposti del suo magistero, quali le sue principali
preoccupazioni, quali le questioni affrontate
da un lato nel dibattito con la cultura contemporanea, dall’altro
nel confronto all’interno della Chiesa. È così che papa Ratzinger
si è proposto all’attenzione delle persone – non solo credenti,
non solo cattoliche, non solo cristiane – di questo nostro tempo.
È così che ha formulato il suo pensiero. Da non dimenticare.
Aldo Maria Valli