“Niente disperazione! Niente cecità del fato!”. È il 9 maggio 1976. In Friuli c’è stato il terremoto. I morti sono quasi mille (a settembre ci sarà poi un’altra scossa) e il papa di allora, Paolo VI, nell’Angelus domenicale, invita a non perdere la speranza e a non credere all’idea che la vita degli uomini sia governata solo dal caso, dalla fatalità, da un destino senza scopo e senza perché.
In questi giorni, mentre fatichiamo a trovare le parole di fronte a quanto è successo nel Centro Italia, è interessante, e istruttivo, andare a vedere che cosa dissero i papi del recente passato in occasione dei diversi terremoti che hanno martoriato il nostro paese. Quali parole trovarono? Come manifestarono la loro vicinanza? Come riproposero la speranza cristiana?
Paolo VI: Friuli
Nel 1976, dunque, è Paolo VI a far sentire la sua voce, sia pure a distanza. All’epoca il pontefice parla ancora in terza persona plurale: “Precipitano anche sopra di noi le disastrose notizie del terremoto in Friuli, come quelle d’una rovina comune. Sentiamoci uniti a quanti sono nella sventura, nell’indigenza, nella necessità”. Poi il papa, ricordando anche i tanti problemi internazionali del momento, fa un paragone suggestivo: “Il nostro cuore è come un sismografo, nel quale si ripercuotono tutte le vibrazioni dell’umana passione”.
Il linguaggio è un po’ aulico per la nostra sensibilità attuale, e chi ha una certa età, come il sottoscritto, ricorda ancora il tono della voce di papa Montini. Nella Carnia, dice, “è il nostro prossimo che piange: ebbene, piangiamo insieme!”.
In questo modo scopriamo che qualche bene, e non di poco conto, c’è anche nel male che ci colpisce, e “il primo bene è la solidarietà”. Perché “il dolore si fa comunitario, e nel nostro abituale disinteresse, nelle nostre contese egoiste, ci fa sperimentare uno sconosciuto amore. Diventiamo fratelli, ci sentiamo cristiani, comprendiamo gli altri, esprimiamo finalmente l’amore disinteressato, solidale e sociale”.
Il papa sceglie le parole dell’apostolo di cui porta il nome, Paolo. Non lasciamoci vincere dal male, ma vinciamo il male con il bene. “Quando sono infermo, allora divento forte”. Dice così l’apostolo (“ Cor. 12,10) e secondo il papa sono le parole più vere per descrivere il comportamento della gente friulana, “gente forte e buona, ora percossa dall’immane sciagura micidiale e devastatrice del terremoto”. Davanti al lutto e alle rovine, non si può dire di più. Le dimensioni della tragedia sono tali che “sembrano rifiutare ogni conforto”. Quindi non si faccia altro che “raccogliere in silenzio riverente il grido ineffabile di questa acerbissima pena”. Tuttavia “una parola non possiamo tacere per i cuori forti, per gli animi buoni: niente disperazione! Niente cecità del fato! La nostra incapacità a dare una spiegazione che rientri negli schemi abitali della nostra breve e miope logica, non annulla la nostra superiore fiducia nella misteriosa, ma sempre provvida e paterna, presenza della bontà divina, che sa risolvere a nostro vantaggio anche le più gravi e incomprensibili sciagure”.
Giovanni Paolo II: Irpinia e Basilicata
Passano quattro anni e l’Italia è di nuovo colpita da un sisma devastante, questa volta in Irpinia e Basilicata. La terra trema in novembre, la sera del giorno 23. I morti sono più di duemilacinquecento, decine di migliaia i feriti e i senza tetto.
A soli due giorni dalla tragedia, Giovanni Paolo II è già sul posto, a Balvano, in provincia di Potenza, nella cui chiesa, intitolata a Santa Maria Assunta, sono morte settantasette persone, fra le quali sessantasei adolescenti.
Come rivolgersi a una comunità di credenti colpita al cuore?
Ecco le parole di papa Wojtyla: “Sia lodato Gesù Cristo! Miei carissimi fratelli e sorelle, io non sono venuto qui per curiosità, ma come vostro fratello e vostro pastore; vengo per motivo di solidarietà umana, vengo per motivo di compassione, carità”.
Il papa è consapevole del dolore straziante, dell’annientamento subìto. “Qualcuno mi ha detto: ma questa gente non può più pregare! La mia risposta è questa: voi, carissimi, pregate con la vostra sofferenza! E però sono convinto che voi pregate più di tanti altri che pregano, perché portate dinanzi al Signore questa vostra grandissima sofferenza, queste vostre vittime, specialmente le vittime rappresentate dai giovani, dai bambini, che sono morti nella chiesa”.
Giovanni Paolo II saluta il parroco, anch’egli distrutto dal dolore. Come consolare? Il papa, dice, non può fare altro che confermare i fratelli nella fede. E quando non lo può fare con le sue forze di uomo, può però spingere a credere nella forza di Gesù che ha sconfitto la morte e, con la croce e la risurrezione, ha aperto una prospettiva nuova. “Vi offro, al termine di queste parole, la mia benedizione: benedizione del vostro papa, successore di Pietro, e benedizione del vostro fratello nella sofferenza”.
Giovanni Paolo II: Annifo, Cesi, Assisi
E ora il ricordo, per il sottoscritto, diventa personale e diretto. Siamo nel 1998, il 3 gennaio, e Giovanni Paolo II va ad Annifo, in Umbria, a Cesi, nelle Marche, e infine ad Assisi. Il papa non è più l’uomo aitante che ha visitato Balvano. È un vecchio che cammina appoggiandosi al bastone. Entra nel prefabbricato di due anziani come lui, Maria e Celestino, e dice, semplicemente: “Coraggio, il papa vi è vicino”.
Il giro si conclude ad Assisi, dove il terremoto ha fatto crollare la volta giottesca della basilica superiore, uccidendo due tecnici e due frati che stavano verificando i danni.
Papa Wojtyla spiega che già a Bologna, dove si trovava per il Congresso eucaristico, ha incominciato a seguire le notizie provenienti da Umbria e Marche, desiderando subito recarsi sul posto. E ora eccolo, impegnato soprattutto a esortare le autorità perché la ricostruzione sia rapida ed efficace: “Auspico che tutto si realizzi in tempi brevi, perché il panorama delle città e dei paesi, oggi largamente segnato da cumuli di macerie e da strade dissestate, grazie alla necessarie opere di restauro e di rifacimento delle abitazioni, delle chiese e dei monumenti danneggiati torni a essere suggestivo come prima”.
Giovanni Paolo II ricorda le parole rivolte a Francesco dal Crocifisso di San Damiano: “Francesco, va’ e ripara la mia casa!”. Parole quanto mai attuali, dice il papa, innalzando la sua preghiera per tutti: le vittime, i familiari, i senza tetto, gli operatori dell’assistenza, i volontari: “Il Signore conforti tutti e faccia sentire a ciascuno il suo sostegno!”.
Benedetto XVI: Onna e L’Aquila
Da cronista ho seguito anche la visita di Benedetto XVI in Abruzzo, il 28 aprile 2009, e ricordo bene il suo arrivo a Onna, la frazione di poche centinaia di abitanti in provincia dell’Aquila. Ecco il papa che osserva incredulo le rovine e poi si lascia avvicinare da tutti, con grande disponibilità e semplicità. Stringe mani, anche ai vigili del fuoco, e non si tira indietro quando le persone cercano il suo abbraccio. Il timido Ratzinger parla all’aperto e dice: “La Chiesa tutta è qui con me, accanto alle vostre sofferenze, partecipe del vostro dolore per la perdita di familiari e amici, desiderosa di aiutarvi nel ricostruire case, chiese, aziende crollate o gravemente danneggiate dal sisma. Ho ammirato e ammiro il coraggio, la dignità e la fede con cui avete affrontato anche questa dura prova, manifestando grande volontà di non cedere alle avversità […] C’è in voi una forza d’animo che suscita speranza”.
Poi Benedetto XVI, in auto, raggiunge L’Aquila, dove sosta nella basilica di Collemaggio. Lì venera l’urna con le spoglie di Celestino V, il papa che rinunciò al suo mandato, e vi depone sopra il pallio che gli fu imposto all’inizio del pontificato: un indizio della futura, storica decisione?
All’Aquila il papa parla nel cortile della scuola della Guardia di Finanza. Prima ha fatto una visita alla città e ha sostato davanti alla Casa dello studente, dove sono morti otto giovani. “Desidero sottolineare – dice Benedetto XVI – il valore e l’importanza della solidarietà che, sebbene si manifesti particolarmente in momenti di crisi, è come un fuoco nascosto sotto la cenere. La solidarietà è un sentimento altamente civico e cristiano e misura la civiltà di una società. Essa in pratica si manifesta nell’opera di soccorso, ma non è solo un’efficiente macchina organizzativa: c’è un’anima, c’è una passione che deriva proprio dalla grande storia civile e cristiana del nostro popolo, sia che avvenga nelle forme istituzionali, sia nel volontariato. E anche a questo, oggi, voglio rendere omaggio”.
Benedetto XVI: Emilia Romagna
Ed eccomi all’ultimo ricordo. 26 giugno 2006: Benedetto XVI in Emilia Romagna. A Rovereto di Novi la zona rossa, la più colpita, è completamente transennata e i vigili del fuoco lasciano passare i cronisti solo a piccoli gruppi e solo se accompagnati da alcuni di loro. Vedo le case lesionate, i negozi abbandonati, i balconi crollati. Vedo la chiesa di Santa Caterina di Alessandria, dove il parroco, don Ivan Martini, è stato ucciso da un crollo.
Fa caldo, il sole picchia forte. Il papa, per forza di cose, fa una visita breve e spiega: “Avrei voluto visitare tutte le comunità per rendermi presente in modo personale e concreto, ma voi sapete bene quanto sarebbe stato difficile. In questo momento, però, vorrei che tutti, in ogni paese, sentiste come il cuore del papa è vicino al vostro cuore per consolarvi, ma soprattutto per incoraggiarvi e sostenervi”. Poi Benedetto cita il salmo, là dove dice: noi “non temiamo se trema la terra” perché “Dio è per noi rifugio e fortezza”. Sono parole, ammette il teologo Ratzinger, totalmente in contrasto con la paura, l’angoscia, il dolore, ma il salmo non si riferisce a questi sentimenti, che sono naturali. “La sicurezza di cui parla è quella della fede, per cui, sì, ci può essere la paura, l’angoscia – le ha provate anche Gesù, come sappiamo – ma c’è, in tutta la paura e l’angoscia, soprattutto la certezza che Dio è con noi. Come il bambino che sa sempre di poter contare sulla mamma e sul papà, perché si sente amato, voluto, qualunque cosa accada, così siamo noi rispetto a Dio. Piccoli, fragili, ma sicuri nelle sue mani”.
Così parlarono i papi nell’Italia ferita a morte dai terremoti. Ferita, ma non annientata.
Aldo Maria Valli