Educazione sessuale, educazione stradale, educazione civica, educazione alimentare, educazione sentimentale, educazione fisica, educazione digitale, educazione tecnica, educazione emotiva, educazione all’immagine…
Quante educazioni abbiamo oggi! Mai avute così tante! E allora perché è netta la sensazione che ci sia in giro tanta maleducazione? Non è che forse, fra tutte queste educazioni, abbiamo tralasciato la più importante?
La domanda resta sullo sfondo di un bellissimo testo che ci viene regalato dalle edizioni Ares nel libro L’origine e la meta. Studi in memoria di Emanuele Samek Lodovici, a cura di Gabriele De Anna. Il volume è un omaggio a Samek a trentacinque anni dalla sua morte prematura e il testo in questione, intitolato Educarsi all’intelligenza, è la registrazione inedita dell’ultima conferenza pubblica del professor Samek Lodovici, tenuta tre settimane prima dell’incidente stradale del 17 aprile 1981, nel quale rimase coinvolto e che richiese un intervento chirurgico, svoltosi il 5 maggio 1981, durante il quale Samek, a soli trentotto anni, morì.
Filosofo cattolico e geniale (il grande Augusto Del Noce gli scrisse: «Lei ha ormai la possibilità di diventare un vero maestro»), autore nel 1979 di un libro, Metamorfosi della gnosi, nel quale, analizzando contenuti e forme del pensiero contemporaneo, tratteggiò alcune derive culturali che ai giorni nostri hanno trovato compiuta realizzazione, Samek era acuto e spiritoso, e nel testo di cui ci stiamo occupando mise queste sue risorse al servizio della risposta a una domanda che non ci poniamo mai, ma che tutto sommato è decisiva: esistono regole per propiziare l’intelligenza? C’è un modo per educare ed educarsi all’intelligenza?
Sì, per il filosofo Samek le regole ci sono, e sono esattamente tredici. Eccole qua.
La prima «è sapere che l’intelligenza è un dovere, non è dunque facoltativa». Essere intelligenti, e comportarsi come tali, non è un’opzione fra le tante. Dobbiamo esserlo. Vuol dire che l’intelligenza non è solo un dono: è anche e soprattutto un compito.
La seconda regola è che «ci educhiamo all’intelligenza quando capiamo che non è indifferente il linguaggio che usiamo». Questo è un punto molto caro a Samek e anche, se posso dirlo, al sottoscritto. Samek diceva che «chi non ha le parole non ha le cose». Non avere le parole, non saper trovare le parole, è una grave forma di povertà sostanziale. Ecco perché Samek era contrario al turpiloquio. La questione non è moralistica. La questione è che con il turpiloquio tu rappresenti il mondo con poche parole (il turpiloquio fa ricorso in massima parte alle parole che designano gli organi sessuali, e queste parole sono poche), e così facendo non cogli la complessità del mondo, ne resti fuori, alieno, emarginato. Il dramma è che se tu conosci poche parole, oltretutto usurate dalla ripetizione, ti convinci che il mondo corrisponda a quelle povere e poche parole. Se non hai parole, non hai mondo. Se non hai linguaggio, non hai comprensione del mondo.
La terza regola è essere consapevoli del fatto che «ci si può educare all’intelligenza se sappiamo che dobbiamo avere uno stile». Uno stile? Sì, uno stile. E che significa? Significa che, contrariamente a quanto ci viene detto di continuo, nel gran teatro dell’esistenza non è importante ciò che siamo (ingegnere, ciabattino, giornalista, cameriere, chirurgo, fornaio) ma come lo siamo: «Bisogna sapere, cosa fondamentale, che nella nostra vita non conta ciò che facciamo, ma come lo facciamo, conta se lo facciamo bene, se lo facciamo come Dio vuole che lo facciamo». Educarsi ad avere uno stile vuol dire educarsi ad avere una propria forma, un carattere proprio, un proprio profilo: non su Facebook, che ai tempi di Samek, fra l’altro, non esisteva, ma nella vita, nel nostro modo di essere.
La quarta regola è «educarsi al controllo della fantasia». Ma come? Non ci dicono tutti che la fantasia è sintomo d’intelligenza? Sì, ma educarsi al controllo della fantasia non vuol dire che non bisogna essere fantasiosi: per Samek, vuol dire controllare la tendenza a fantasticare, cioè ad uscire dal proprio ruolo e dalla propria vita. Vuol dire evitare di pensare sempre che se fossimo da un’altra parte (un’altra scuola, un altro ufficio, un’altra famiglia, un altro paese), sarebbe meglio. No, questo non aiuta. Il nostro destino si gioca lì dove siamo, ed è proprio lì che devo acquisire il mio stile, il mio carattere.
La quinta regola è educarsi alla ricerca della verità. È importante voler sapere come stanno le cose, non accontentarsi «di qualche pagina di giornale» (oggi Samek direbbe «di qualche sito internet»), non nutrirsi dei «rimasugli eruttati dall’ultimo mediocre». Occorre non essere superficiali, fare tutto il possibile per cercare e capire. Vuol dire iscriversi (ma questo non lo dice Samek, lo dico io) a quella che Giuseppe Prezzolini chiamava «la società degli àpoti», ovvero di quelli che non la bevono.
Sesta regola: consiste nel sapere che è fondamentale la capacità di rettificarsi. Dice Samek: «Noi non siamo non intelligenti quando sbagliamo, ma siamo intelligenti quando rettifichiamo». Si educa un figlio se lo si educa non a non sbagliare mai, ma a correggersi quando sbaglia.
Settima regola: è quella della solitudine. Non si tratta di diventare musoni intrattabili e antipatici, ma di sapere che per la scoperta delle cose importanti è bene stare soli con se stessi. Stare in compagnia è bellissimo e riempie il cuore, «ma le decisioni per l’esistenza le facciamo da soli». Tutte le grandi scoperte si fanno da soli. Qualcuno ci può dare un aiuto e indicarci la direzione, ma ciò che conta davvero lo scopriamo da soli, facendo i conti con noi stessi. Ma com’è possibile se, in un modo o nell’altro, non siamo mai soli? Appunto. Come diceva Pascal, il problema dell’uomo è che non riesce a stare da solo in una stanza.
Ottava regola: educare ed educarsi all’autoironia, ovvero non prendersi troppo sul serio. «È assolutamente importante avere una distanza da noi stessi». E qui certo non occorre che il sottoscritto vi faccia esempi, in negativo, tratti dalla politica, dallo spettacolo, dal giornalismo, dallo sport.
La nona regola «è quella che ci dice di stare molto attenti alle sofferenze che possiamo infliggere agli altri senza saperlo». Tante volte una certa parola detta in un certo momento, o un certo atteggiamento preso in una certa situazione, hanno conseguenze che provocano sofferenza agli altri. Rendersene conto a posteriori è già qualcosa, ma rendersene conto prima è da intelligenti.
La decima regola: capire che «l’intelligenza da sola non basta». Se per voler essere intelligenti si perde, per esempio, la capacità di essere buoni, gentili e allegri, non si è intelligenti. Si è intelligenti stupidi.
L’undicesima regola «è quella che ci permette di supporre che a essere intelligenti siano gli altri e non noi». In effetti, se c’è una cosa che ho imparato nel tempo, è che, come dice Samek, «solo gli uomini intelligenti sanno trovare l’intelligenza negli altri».
Dodicesima regola: educare se stessi allo «spirito di meraviglia». Se si dà tutto per scontato, difficilmente si è intelligenti. «È l’educazione a tornare bambini, allo spirito di meraviglia che è tipico dei bambini, quello di chi entra nella stanza la mattina di Natale e vede nell’angelo di cartone un angelo vero». «Vuol dire meravigliarci per il fatto che ci siamo ancora, perché domani un ictus cerebrale ci potrebbe portare via».
E l’ultima regola, la tredicesima, che cosa dice? Dice che «diventiamo intelligenti se ci esercitiamo a contemplare la morte, una delle cose che, più di tutte, può insegnarci a capire la vita che abbiamo e che stiamo vivendo».
Ecco qua.
Noterete che nel testo non c’è una definizione di intelligenza. La definizione viene fuori dalle tredici regole, alle quali ognuno di noi può aggiungere qualcosa. Immagino, del resto, che per Samek la pretesa di dare definizioni precise fosse segno di scarsa intelligenza.
Ora non resta che rifletterci sopra. Specie se siamo genitori, nonni, insegnanti, in poche parole educatori. Non farlo sarebbe poco intelligente.
Aldo Maria Valli