Nel tunnel della violenza
Nel 1969 il buio della violenza senza volto entra in casa nostra in un giorno di dicembre. Una telefonata da Milano ci avverte che nella sede della Banca nazionale dell’agricoltura, dove lavora lo zio Mario, il fratello di papà, c’è stata un’esplosione con morti e feriti. È quella che passerà alla storia come la strage di piazza Fontana. Da lì in poi l’Italia entra nel tunnel del terrorismo.
Le vittime della strage sono sedici, i feriti una novantina. Lo zio per fortuna è incolume: forse lo ha protetto una colonna. Subito le indagini puntano sui circoli anarchici e, tre giorni dopo la strage, uno degli esponenti di questi gruppi, il ferroviere Giuseppe Pinelli, fermato dalla polizia, precipita da una finestra della questura milanese e muore. Suicidio? Non è possibile stabilirlo. Il commissario Luigi Calabresi, che conduce le indagini, nel momento in cui Pinelli precipita al suolo non si trova nella stanza, ma per la sinistra extraparlamentare diventa un nemico da colpire e punire. Contro di lui parte una sistematica campagna di diffamazione. Sul giornale Lotta continua si parla di lui come di un «marine dalla finestra facile» che «dovrà rispondere di tutto». Sui muri di Milano si moltiplicano le scritte «Calabresi assassino». È un vero e proprio linciaggio a mezzo stampa, condotto non solo dal giornale della sinistra extraparlamentare, ma anche da altri settori della sinistra e in particolare dal settimanale l’Espresso, specie a opera della giornalista Camilla Cederna, le cui accuse nei confronti di Calabresi, tuttavia, non saranno mai provate.
Il settimanale l’Espresso, durante la campagna stampa contro il commissario, pubblica una lettera-appello firmata da ben 757 esponenti di primissimo piano del mondo culturale e giornalistico della sinistra. Fra loro, Nello Ajello, Giorgio Amendola, Giulio Carlo Argan, Gae Aulenti, Nanni Balestrini, Andrea Barbato, Norberto Bobbio, Giorgio Bocca, Tullio De Mauro, Gillo Dorfles, Carlo Lizzani, Nanni Loy, Giovanni Raboni, Eugenio Scalfari, Enzo Siciliano, Mario Soldati, Umberto Terracini, Lucio Villari, Cesare Zavattini. C’è da restare allibiti nel leggere le firme di personaggi così noti, e generalmente stimati, sotto un documento tanto infame. Ma il clima di quegli anni fece dire parole e compiere azioni oggi incomprensibili. Lo dimostra il fatto che un uomo come Bobbio, nel 1998, parlerà apertamente di «orrore» nel rileggere quel documento. Ma il ravvedimento suo e di pochi altri varrà poco.
Il 17 maggio 1972 il commissario Calabresi sarà ucciso da un commando terrorista. Sedici anni dopo, in seguito alla confessione dell’ex militante di sinistra Leonardo Marino, come esecutore del delitto sarà arrestato Ovidio Bompressi, e come mandanti Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. I primi due entreranno in carcere, il terzo resterà latitante.
Ciò che fa più male è rileggere il titolo di Lotta continua all’indomani dell’omicidio di Calabresi («Ucciso Calabresi, il maggior responsabile dell’assassinio Pinelli») e l’articolo in cui si sostiene quanto segue: «L’omicidio politico non è certo l’arma decisiva per l’emancipazione delle masse dal dominio capitalista così come l’azione armata clandestina non è certo la forma decisiva della lotta di classe nella fase che attraversiamo. Ma queste considerazioni non possono assolutamente indurci a deplorare l’uccisione di Calabresi, un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia».
Rivoluzione?
Il fenomeno terroristico nel nostro paese nasce con due volti, uno rosso e uno nero. Il primo è di matrice marxista-leninista, il secondo si ispira al fascismo. Come spesso accade, gli estremi si assomigliano, e in questo caso la somiglianza sta nel comune uso della violenza più spietata. L’universo delle organizzazioni armate di sinistra è lunghissimo. Le sigle principali, oltre alle Brigate rosse, sono Prima linea, i Nuclei armati comunisti, le Formazioni comuniste combattenti, i Nuclei armati proletari, i Proletari armati per il comunismo. A destra troviamo, fra gli altri, Avanguardia nazionale, la Falange armata, il Fronte nazionale, il Movimento di azione rivoluzionaria, i Nuclei armati rivoluzionari, Ordine nero, Ordine nuovo.
Obiettivo dei terroristi è abbattere il sistema democratico e sollevare una rivoluzione. A sinistra, come giustificazione, si parla della necessità di completare il processo incominciato dai partigiani rossi durante la liberazione dell’Italia da fascismo e nazismo. A destra si vagheggia invece il ritorno a un’Italia più «ordinata», ripulita dal pericolo rosso. Gli italiani assistono attoniti e sgomenti all’escalation della violenza ma non aderiscono ai disegni rivoluzionari. E sarà proprio questo atteggiamento a isolare i terroristi spegnendo, alla lunga, ogni loro tentativo di eversione.
L’elenco delle vittime del terrorismo è lunghissimo. Nel corso di oltre vent’anni saranno uccisi magistrati come Francesco Coco, Vittorio Occorsio, Girolamo Tartaglione, Emilio Alessandrini e Guido Galli, giornalisti come Carlo Casalegno e Walter Tobagi, sindacalisti come Guido Rossa, docenti come Vittorio Bachelet, dirigenti d’azienda come Giuseppe Taliercio, uomini politici come Aldo Moro. L’Italia è il paese europeo nel quale il terrorismo dura più a lungo, con periodiche recrudescenze anche in tempi più recenti.
Stragi di Stato e autunno caldo
Accanto agli agguati rivolti a singoli individui, ci sono le stragi a colpi di bombe. I casi più eclatanti, oltre a piazza Fontana, saranno nel 1974 le stragi di piazza della Loggia a Brescia e sul treno Italicus, nel 1980 alla stazione di Bologna, nel 1984 sul treno rapido 904. Attentati che nascono, lo si scoprirà nel corso degli anni, da una zona grigia nella quale confluiscono servizi segreti deviati e apparati dello Stato che mirano, attraverso la cosiddetta strategia della tensione, a creare i presupposti per l’instaurarsi di un regime autoritario. In questo contesto non sarà più possibile distinguere chiaramente fra buoni e cattivi, fra Stato e anti-Stato, fra terroristi e forze di sicurezza. Si parlerà di «stragi di Stato».
Torneremo sul terrorismo parlando più in dettaglio di due tragedie come il caso Moro e l’uccisione di Walter Tobagi. Ora fermiamoci al 1969. Nel mese di luglio la missione spaziale americana Apollo 11 porta per la prima volta l’uomo sulla luna e noi tutti, come l’Italia intera, seguiamo le fasi dell’allunaggio attraverso la diretta della Rai, con il giornalista Tito Stagno in studio a Roma e il corrispondente da New York Ruggero Orlando. Fra i due, nel momento topico, c’è anche un battibecco: non si mettono d’accordo sull’istante esatto in cui il modulo spaziale ha toccato il suolo lunare. Situazione tipicamente italiana. In seguito sarà stabilito che Stagno annunciò l’allunaggio con circa un minuto di anticipo e Orlando con dieci secondi di ritardo.
Ma il 1969 è anche «autunno caldo», espressione che viene usata per la prima volta e fotografa una stagione di dure lotte sindacali. Tuttavia, come si può immaginare, per un bambino di undici anni certe vicende sono lontanissime.
I Settanta, anni di piombo
Un sogno in tasca
La fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta per me vogliono dunque dire studio e pallacanestro. Poco studio, a dire il vero, perché il passaggio alle scuole medie coincide con un notevole rilassamento dal punto di vista didattico. Grazie ai cinque anni con la maestra Bice, nel triennio successivo posso quasi vivere di rendita e per andare avanti mi basta veramente poco. La grande novità, dal punto di vista didattico, è l’impatto con il latino (a quel tempo lo si studiava già dalla prima media), ma anche in questo caso mi basta poco per cavarmela. Il resto è basket, è bicicletta (da una piccola e blu, amatissima ma ormai troppo bassa per le gambe che si allungano, sono passato a una favolosa Legnano gialla) ed è passione per il giornalismo.
Non so come e perché, ma da quando sono in terza elementare mi ha preso questo desiderio: diventare giornalista. Nessuno, in famiglia, lo è mai stato, e a dire il vero non so neanche bene come si faccia a diventarlo. Ma non penso ad altro. Come ho detto, costringo perfino alcuni miei compagni a realizzare con me un giornalino di classe, la cui redazione è nel seminterrato della villetta bianca. Usiamo una vecchissima ed enorme macchina da scrivere nera, del nonno Giovanni, che fa un rumore infernale, ma siamo felicissimi e ci sentiamo veri reporter. Ci manca solo la sigaretta tra le labbra. Io scrivo bene, me lo dicono tutti. In particolare, riempiendomi d’orgoglio, l’ha riconosciuto la signora maestra. Quando si tratta di buttare giù parole, il sottoscritto non è una «bestia feroce» come quando c’è da misurarsi con astruse moltiplicazioni o divisioni. Ma la maestra Bice mi ha anche messo in guardia: «Vuoi fare il giornalista? Benissimo. Ricordati però che è un lavoro duro, una vera missione. Dovrai essere sempre al servizio dei lettori».
Scrivere, in effetti, mi piace tanto, e così la strada mi sembra segnata: andrò a lavorare in un giornale, me lo sento. Contrariamente a quanto tutti pensano, non sono un grande lettore di libri, però leggo regolarmente il Corriere della Sera, la Domenica del Corriere ed Epoca. Sul primo divoro gli articoli di Indro Montanelli e Dino Buzzati, ma mi piacciono anche quelli di Alberto Cavallari, Enzo Bettiza, Egisto Corradi. Su Epoca mi affascinano gli articoli di Augusto Guerriero, che si firma con lo pseudonimo Ricciardetto.
Una vicenda oscura
Nel 1970 in Italia il nuovo decennio si apre all’insegna di una vicenda oscura, i cui particolari emergeranno nel corso del tempo. È la notte fra il 7 e l’8 dicembre quando alcuni cospiratori, riuniti attorno a un ex ufficiale della Regia Marina, il principe Junio Valerio Borghese, fascista già aderente alla Repubblica sociale italiana e poi iscritto al Movimento sociale, cercano di attuare un colpo di Stato allo scopo di instaurare un regime neofascista. Il piano, che coinvolge estremisti di destra, servizi segreti, ufficiali delle forze armate e funzionari ministeriali, prevede di prendere il controllo di due ministeri chiave (Interni e Difesa), occupare le sedi della Rai, deportare gli oppositori, rapire il presidente della Repubblica, all’epoca il socialdemocratico Giuseppe Saragat, e uccidere il capo della polizia, Angelo Vicari. Borghese ha già scritto il proclama che leggerà ai microfoni della Rai. Sostiene che venticinque anni di regime democratico hanno portato il paese sull’orlo dello sfacelo economico e morale e che d’ora in avanti l’Italia, liberata dal pericolo comunista, potrà costruire un futuro tutto nuovo avendo come unico vessillo il tricolore. Se non che, proprio mentre il piano è in svolgimento, Borghese, all’improvviso, ne ordina l’annullamento. Perché? Le ragioni non saranno mai chiarite. Tra le ipotesi, un ordine improvviso da parte degli Stati Uniti, che avrebbero dato il loro benestare al colpo di mano solo se a capo del nuovo governo fosse stato insediato Giulio Andreotti. L’unica cosa certa è che, per sottrarsi alla cattura, Borghese fugge in Spagna, dove morirà nel 1974 in circostanze anch’esse mai chiarite.
La scomparsa di De Mauro
Il 16 settembre 1970 a Palermo scompare un giornalista. Si chiama Mauro De Mauro, lavora al quotidiano L’Ora e viene rapito di sera, mentre sta tornando a casa. L’ultima a vederlo è la figlia Franca, che lo scorge mentre posteggia l’auto davanti alla sua abitazione. La ragazza, che due giorni dopo si sposerà, gli va incontro al piano terra, ma vede che il papà viene circondato da due o tre uomini che lo fanno salire su una vettura. La macchina sarà ritrovata il giorno dopo, ma del giornalista, da allora in poi, nessuna traccia.
Chi ha rapito De Mauro e perché? Due le ipotesi: il giornalista potrebbe essere stato sequestrato e ucciso da Cosa nostra, a causa delle sue inchieste sui traffici di droga gestiti dalla mafia, oppure la sparizione potrebbe essere legata alle ricerche condotte da De Mauro sulla morte di Enrico Mattei, avvenuta, come abbiamo visto, nelle campagne del Pavese nel 1962 a causa di una bomba collocata sull’aereo del presidente dell’Eni.
Forse entrambe le ragioni sono valide. Sta di fatto che nei cassetti di De Mauro gli inquirenti trovano appunti in cui il giornalista fa riferimento sia a Eugenio Cefis, successore di Mattei all’Eni, sia ad alcuni esponenti politici siciliani, sia a un «colpo di Stato» che potrebbe essere il tentato golpe Borghese.
Le indagini hanno permesso di stabilire che sicuramente De Mauro si stava occupando del caso Mattei, tanto da diventare un pericolo per chi ordinò la morte del presidente dell’Eni. De Mauro in quel periodo stava infatti collaborando con il regista Francesco Rosi alla sceneggiatura di un film, Il caso Mattei, che uscirà nel 1972. Ma in questo mistero entra anche un’altra vicenda, di cui parleremo nelle prossime pagine: l’uccisione dello scrittore, poeta e regista Pier Paolo Pasolini. Quando fu assassinato, nel 1975, Pasolini stava lavorando a un romanzo, intitolato Petrolio, del quale sono rimasti solo frammenti. Nel romanzo, uscito postumo nel 1992, ci sono riferimenti all’Eni e al successore di Mattei, Eugenio Cefis, uomo misterioso, con amicizie altolocate negli Stati Uniti, il quale, in base a un appunto dei servizi segreti italiani ritrovato nel corso delle indagini sulla morte di Mattei, sarebbe stato il vero fondatore della loggia massonica deviata P2. Pasolini, come De Mauro, aveva saputo qualcosa a proposito dell’uccisione di Mattei? Come De Mauro, fu messo a tacere proprio per questo?
Tratto da Noi del Cinquantotto. Breve manuale di storia recente a uso di figli e nipoti, Ancora libri, 2016