La fede, la Chiesa, la scomunica. Qualche precisazione

Dopo il mio articolo sulla scomunica mi hanno scritto molte persone e alcune mi hanno chiesto: perché la Chiesa prevede la scomunica per chi procura l’aborto e non in tanti altri casi di comportamenti gravissimi, come l’uccisione di un essere umano già venuto al mondo, la violenza sessuale, la pedofilia, la tortura e via elencando?

Premetto che il mio non è stato un intervento di tipo tecnico e giuridico (non ho competenze in proposito) sulla scomunica e sui casi in cui è o non è applicata. Ho voluto piuttosto, relativamente al caso balzato in primo piano dopo il documento «Misericodia et misera», ovvero l’estensione a tutti i preti della facoltà di assolvere il peccato di aborto procurato, approfittare della circostanza per ragionare un po’ sul significato che la scomunica ha per la madre Chiesa, un significato spesso equivocato, perché è di contenuto spirituale con finalità pedagogiche e pastorali (ti sei messo fuori dalla comunità, stai lì per un po’ e medita su ciò che hai fatto, e quando ti sarai pentito potrai rientrare) ed è ben diverso da quello a cui si è portati a pensare normalmente (la scomunica come un’esclusione a vita, una sorta di «ergastolo» a cui la Chiesa ricorre per sanzionare e reprimere).

Provo comunque a rispondere alla domanda, chiedendo preventivamente scusa ai canonisti per le mie approssimazioni che certamente li riempiranno di orrore!

La Chiesa non è uno Stato, una società politico-statuale alla quale si appartiene attraverso la cittadinanza. La Chiesa, corpo mistico di Cristo, è una comunità di fedeli alla quale si appartiene per libera scelta. Di uno Stato fai parte per necessità. Della Chiesa fai parte per fede.

Anche la Chiesa, in quanto società umana, è dotata di un apparato giuridico, istruisce processi ed eventualmente condanna, ma non bisogna mai dimenticare che nella sua dimensione più vera, cioè quella di comunità di fede,  quando si pone il problema della giustizia si occupa essenzialmente dei peccati, non dei reati. Quasi sempre il peccato è anche un reato, ma la Chiesa, anche attraverso le sue norme giuridiche, ha sempre come fine ultimo, di tipo «medicinale», la salvezza delle anime (come spiegò molto bene Benedetto XVI nel 2010 in un discorso alla Rota romana). Dunque la Chiesa mette al centro il rapporto del Dio creatore con la creatura e tutti gli aspetti della vita della Chiesa che derivano da questo rapporto.

Per quanto riguarda la pena della scomunica latae sententiae (che scatta per il fatto stesso che un determinato peccato è stato commesso e tocca, bisogna sempre ricordarlo, chi si sente parte della comunità ecclesiale e chi è consapevole di questa pena, non chi non ne conosce l’esistenza), il diritto canonico precisa che è prevista nei seguenti casi: apostasia, eresia, scisma, profanazione delle specie consacrate, violenza contro il papa, assoluzione del complice nel peccato contro il sesto comandamento del decalogo, consacrazione di vescovi senza il mandato pontifico, violazione del sigillo sacramentale da parte del confessore e, appunto, aborto procurato.

Come si vede, la Chiesa arriva a dirti che «sei fuori», anzi che «ti sei messo fuori» dalla comunità, quando tu, che di questa comunità ti senti parte e conosci la punizione prevista dalla Chiesa stessa, ti rendi responsabile di un grave attentato all’integrità della fede, quando operi contro l’unità della Chiesa, quando profani il pane e il vino nei quali è presente Cristo, quando vuoi fare del male alla persona del papa, quando utilizzi il sacramento della penitenza e della riconciliazione per un tuo fine turpe, quando scavalchi il papa nell’ordinazione del vescovo, quando non rispetti il segreto confessionale e infine quando sopprimi il più innocente e indifeso degli esseri umani, quel bambino che in nessun altro modo può far sentire la sua voce se non venendo al mondo.

Questo provvedimento che è la scomunica, insomma, è previsto in alcuni, pochi casi che la madre Chiesa considera di importanza vitale: la fede nella sua integrità, la Chiesa nella sua unità, l’altissima venerazione da attribuire a nostro Signore nel pane e nel vino consacrati,  il rispetto della persona del papa e infine l’accoglienza del dono più grande che Dio ci può fare dopo la fede stessa, ovvero una nuova vita umana.

Nel corso del tempo poi la Chiesa ha previsto la scomunica latae sententiae per altri peccati, come per esempio la registrazione e la divulgazione di ciò che viene detto durante la confessione, il mancato rispetto del segreto nel conclave e il voto in conclave espresso dietro compenso (simonia). In ogni caso, la scomunica (cioè, ripeto, il mettersi fuori dalla comunità di cui ci si sente parte) arriva quando tu, peccatore, hai combinato qualcosa di veramente grave contro la fede, contro la Chiesa e contro Dio stesso.

È chiaro che anche tanti altri delitti che l’uomo può compiere (dall’assassinio di una persona già nata alla violenza sessuale, fino alla tortura) costituiscono peccati gravissimi, mortali per l’anima di chi li commette, ma, occorre ripeterlo, la Chiesa, con il suo Codice di diritto canonico, non si muove come una società politico-statuale che persegue i reati in tutte le loro fattispecie al fine di tutelare l’integrità dell’ordine pubblico e il rispetto dell’ordinamento. La Chiesa, corpo mistico di Cristo, si occupa dei peccati e della salvezza delle anime: la sua giurisdizione, sempre di contenuto teologico-pastorale, è orientata alla salus animarum. Ecco perché, con la scomunica, sanziona i peccati considerati di importanza decisiva per l’integrità della fede e la vita della Chiesa stessa.

Papa Francesco tempo fa ha di fatto scomunicato i mafiosi, poi ha denunciato a ripetizione chi commette torture, chi è corrotto, chi si rende responsabile del traffico di esseri umani e riduce le persone in schiavitù. Sono tutti peccati gravissimi, sicuramente mortali, a causa dei quali i responsabili (sempre che si sentano parte della Chiesa: agli altri non interessa nulla) si autoescludono dalla comunità dei credenti. È vero, non è stato messo mano al Codice di diritto canonico, ma quelle del papa sono state prese di posizione chiarissime, di impatto perfino più forte di quello si potrebbe avere con una revisione formale del Codice.

Il punto, secondo me, è che perfino noi credenti, ormai profondamente immersi in una mentalità secolarizzata, guardiamo spesso alla Chiesa come a una società politico-statuale e non come a una comunità di fede. Anche quando ci occupiamo della madre Chiesa e della fede, la nostra visione e il nostro giudizio sono dunque di tipo prevalentemente sociologico, non di tipo teologico (rapporto con Dio) e pastorale (azione della Chiesa al fine di salvare le anime).

Non so se ho risposto alla domanda. Ritengo comunque positivo ragionare su questi argomenti. Senza litigare, mi raccomando!

Aldo Maria Valli

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