Per un san Francesco più autentico
È l’anno 1266 quando Bonaventura da Bagnoregio, generale dell’ordine francescano, ordina di distruggere tutte le biografie di san Francesco, morto quarant’anni prima. Nei quasi millecinquecento conventi francescani e nei quattrocento monasteri delle clarisse le vecchie ricostruzioni della vita di Francesco sono sostituite dalla nuova, scritta dallo stesso Bonaventura tre anni prima e chiamata «Leggenda Maggiore». È così che l’immagine di Francesco subisce un’autentica metamorfosi e diventa quella ancora oggi più nota: un povero frate piuttosto ingenuo, dotato di scarsa cultura, attirato dall’ascesi e dalla mortificazione della carne, un mistico mansueto in dialogo con gli animali più che con i suoi simili. Solo molti secoli dopo, nel 1890, un pastore calvinista, Paul Sabatier, si metterà alla ricerca delle tracce dei testi scomparsi, riuscendo faticosamente a trovare, a Parigi, una testimonianza risalente ai primi compagni di Francesco, desiderosi di tramandare un identikit del santo più aderente alla realtà rispetto a quello imposto da Bonaventura.
È una vicenda che può essere letta anche come una sorta di giallo storico e che Chiara Mercuri, studiosa di storia medievale, in «Francesco d’Assisi. La storia negata» (Laterza, 220 pagine, 16 euro) ricostruisce, restituendoci un Francesco nuovo rispetto a quello più conosciuto, un Francesco dotato di profonda cultura, tutt’altro che sempliciotto ma anzi deciso fino alla durezza, eppure capace di profonda tenerezza per i compagni protagonisti con lui di una stagione straordinaria per la Chiesa.
Non bisogna però pensare che Bonaventura, futuro santo e dottore della Chiesa, con la sua operazione abbia voluto mettere in atto un complotto. Da un lato si propose piuttosto di porre fine alle discussioni, alle lacerazioni e alle polemiche tra le diverse correnti francescane, sia rispetto al Testamento del santo sia rispetto alla Regola, dall’altro applicò un metodo tipico nella Chiesa del tempo: utilizzare la vita di un santo per rafforzare alcune idee e soprattutto alcune proposte morali. In un’epoca in cui non c’erano mezzi di comunicazione al di fuori delle liturgie e dei dipinti conservati nelle chiese, il santo diventava uno strumento indispensabile per veicolare un certo messaggio, anche a costo di non preoccuparsi troppo dell’aderenza del racconto alla verità storica. Ecco così che il Francesco rielaborato da Bonaventura diventa un’altra persona rispetto al Francesco storico, conosciuto dai compagni che, per rivendicare il loro ruolo e marcare la distanza dagli agiografi, firmavano le loro testimonianze come «nos qui cum eo fuimus», «noi che fummo con lui».
Il Francesco storico, testimoniato dai suoi compagni, è un laico che vuole fondare un ordine diverso dai tradizionali ordini monastici. Profondamente legato al Vangelo, si spoglia di tutto ma non ha una particolare predilezione per le pratiche ascetiche. Non ha nemmeno una visione manichea della vita e dell’uomo, non è un teorico dell’aut aut ma, da autentico seguace di Gesù, predilige l’et et: l’uomo è corpo e anima, terra e cielo, materia e spirito; la Chiesa è istituzione (mai messa in discussione da lui) e popolo. In un’epoca segnata dall’eresia catara, fondata sul dualismo fra bene e male, Francesco non è per l’alternativa rigida. Una visione del mondo e dell’uomo, la sua, difficile da digerire per il teologo dogmatico Bonaventura, per il quale l’intera realtà è caratterizzata dal binomio luce-tenebra e anche la figura di Francesco deve servire da supporto a questa interpretazione.
Le prime scoperte delle fonti precedenti alla «Leggenda Maggiore» risalgono al diciottesimo secolo. Per centinaia e centinaia d’anni l’immagine codificata da Bonaventura ha potuto imporsi incontrastata. Ecco così il Francesco ascetico, che si getta nell’acqua gelida per mortificare la carne, che mangia pane e acqua, che dorme sulla pietra, che si fustiga per contrastare ogni slancio vitale. Un ritratto parziale.
I compagni del santo, che non vedono in lui una sorta di santone e nemmeno un maestro ma un amico, e non si pongono il problema di piegare la sua figura alle esigenze generali della Chiesa, raccontano un’altra storia e un altro Francesco, molto più umano, ma le loro memorie sono di fatto censurate.
Anche il papa del tempo, Gregorio IX, ha esigenze che c’entrano poco, o per lo meno soltanto fino a un certo punto, con il Francesco storico. Al fine di una canonizzazione lampo, che avviene a soli due anni dalla morte, il pontefice non cerca tanto Francesco quanto i suoi miracoli. Ne ha bisogno. Senza miracoli, niente canonizzazione. Da qualche tempo la Chiesa, in materia di santi, si è data nuove regole, che ricalcano quelle dei processi e vanno rispettate. Per raccontare Francesco, il papa sceglie Tommaso da Celano, che è sì francescano, ma non ha conosciuto Francesco se non in occasione dei capitoli generali, ha vissuto a lungo in Germania, non è stato presente alla sua morte e non ha avuto alcuna familiarità con lui. Ma la lontananza di Tommaso dal santo è considerata un vantaggio: per scrivere la biografia, meglio scegliere un agiografo che non ha vissuto le tensioni tra le varie correnti francescane. Se il racconto fosse stato affidato, per esempio, a Leone, che fu vicino a Francesco negli ultimi anni e lo vide morire, sarebbe stato molto diverso. Quando Francesco perse la vista, fu Leone ad assisterlo e fu sempre lui a scrivere sotto dettatura il «Cantico delle creature».
Si è detto che Leone non fu scelto come biografo perché, come gli altri amici di Francesco, non parlava latino e non era colto, ma non è così. Leone era prete, e con Francesco ebbe uno scambio di lettere in latino. Del resto, i primi compagni del santo non erano dei poveri emarginati: erano invece esponenti di famiglie benestanti, la «meglio gioventù» di Assisi, persone dotate di mezzi culturali e sociali. Forse Leone non fu scelto non perché incolto, ma perché troppo vicino al santo.
Il lavoro di Tommaso risulta deludente, specie per gli assisani. Da forestiero, non ha tenuto conto dell’importanza di Assisi, della sua gente, del suo stile di vita. Sì, ha ascoltato alcuni testimoni, ma non è riuscito a restituire il clima e il carattere di una comunità che per Francesco ha avuto un’importanza decisiva. E poi, nel retorico tentativo di far risaltare la santità del frate, ha finito per dipingere i suoi contemporanei in modo ingiusto. Troppi sono i riferimenti agli stereotipi delle agiografie classiche, pochi i contenuti che possano trovare riscontro nella verità storica. La biografia non piace nemmeno al papa Gregorio IX, ma non tanto perché lontana dalla verità quanto perché poco «miracolistica». Paradossalmente, l’unico aspetto per il quale si può dire che Tommaso abbia colto il messaggio dei compagni, cioè il rifiuto di fare di Francesco un santo taumaturgo, è quello che gli vale la sostanziale bocciatura da parte del pontefice.
Nel 1244, a diciotto anni dalla morte del santo, il generale dell’ordine, Crescenzo da Jesi, a sua volta non contento della biografia di Tommaso da Celano commissionata dal papa e desideroso di aprire un’inchiesta su Francesco, si rende conto di quanto sarebbe importante conoscere non solo i prodigi del santo, ma anche il Francesco storico, nella sua vita di tutti i giorni. Il generale sa che il gruppo dei primi compagni incomincia ad assottigliarsi e chiede ai superstiti di mandare i loro ricordi. I compagni scrivono e inviano i testi richiesti, tuttavia l’incarico di procedere con la nuova biografia è affidato ancora a Tommaso da Celano, che se da un lato tiene conto del nuovo materiale dall’altro aggiunge dettagli non veritieri. Per esempio, in linea con lo stereotipo del santo che sta alla larga dalle donne, dipinge un Francesco misogino, che non guarda mai negli occhi le amiche, mentre la realtà non fu mai questa.
Nemmeno Tommaso da Celano è un complottista. È solo un uomo del suo tempo e, nello scrivere e riscrivere la biografia, applica alcune regole ritenute irrinunciabili. Deve essere la classica biografia da leggere in chiesa, a scopo edificante. Quando poi Bonaventura, mosso principalmente dalla necessità di dettare nuove linee guida per l’Ordine, si impegna nell’opera di eliminazione sistematica di tutte le biografie precedenti, incanala la storia umana e spirituale di Francesco lungo un percorso dal quale sarà impossibile uscire.
Tuttavia Leone disubbidisce, non distrugge le sue memorie, e in alcuni ordini non francescani, come benedettini e cistercensi, la sua versione sopravvive. Lì c’è il Francesco autentico, importante per il rispetto della verità ma anche perché è stato proprio Francesco a insegnare ai compagni che non è il miracolo a fare la santità, ma la vita. Ed è questa la versione, datata 11 maggio 1318, ritrovata da Paul Sabatier tra i codici della biblioteca Mazarine, alla fine dell’Ottocento.
Viene dunque da chiedersi: per i suoi contemporanei chi fu Francesco? Risponde Chiara Mercuri: non un angelo, ma un uomo, e uno sperimentatore. Non fu mai attirato dal monachesimo nel senso comune del termine. Ciò che voleva, e che proponeva ai compagni, era una vita nel segno della radicalità evangelica, con l’abbandono di tutti i beni e l’attenzione rivolta in particolare ai più deboli e agli scartati, una frequentazione che la vita monastica non permetteva. Francesco tuttavia non abbracciò la visione pauperista e manichea tipica di alcuni gruppi ereticali. Fu un precursore che segnò il passaggio da una religiosità fondata sullo sforzo ascetico per salire a Dio a una religiosità incentrata sulla povertà e sul povero: arrivare a Dio attraverso l’uomo più reietto e dimenticato, perché il volto di quell’uomo è il volto di Gesù. Quelli che «furono con lui» tengono a sottolinearlo: «Possiamo testimoniare che, sano o malato che fosse, era di infinita carità e bontà non solo verso i suoi frati, ma anche verso tutti i poveri».
Aldo Maria Valli