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Cattolici a rimorchio?

Sul fascicolo di dicembre (n. 158, 2016) della rivista Il Timone sono stato intervistato da Lorenzo Bertocchi nell’ambito di una tavola rotonda sul tema Cattolici a rimorchio. Al centro della riflessione la tendenza, da parte di ampi settori della cultura cattolica, di andare appunto “a rimorchio” delle idee correnti senza saper proporre un chiaro punto di vista cristiano e senza, di conseguenza, riuscire a trasformare la fede in cultura. Assieme a me, hanno risposto alle domande monsignor Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia – Guastalla, Cesare Cavalleri, direttore della rivista Studi cattolici e delle Edizioni Ares, e il filosofo Stranislaw Gryegiel, docente al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II e allievo di Karol Wojtyla all’Università di Lublino. Per gentile concessione della rivista, propongo qui le mie risposte alle domande.

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Il papa Giovanni Paolo II, in molte occasioni, ha insegnato che la fede deve farsi cultura. La fede “trasforma” l’uomo che, quindi, diventa capace di una nuova cultura, una nuova visione della realtà, un nuovo modo di vivere. Da questo devono scaturire anche dei criteri per un giudizio sugli avvenimenti e sui fenomeni sociali. In concreto, dal suo punto di vista, come si deve esprimere questo insegnamento?

 

Il punto di vista dal quale mi pongo è soprattutto quello del genitore di sei figli: due giovani adulti, tre universitarie, un’adolescente. Quando si affronta questo argomento, da alcuni di loro arriva un’obiezione: la religione impone troppi obblighi, inventa troppi tipi di obbedienza, costringe la persona in un percorso artificioso, che non sa fare i conti con la realtà. Mi accorgo che questi giovani si concentrano sull’idea di religione, vista come insieme di norme espresse da un’istituzione chiamata Chiesa, e tralasciano il discorso sulla fede in un Dio padre che ci ha voluti per amore, che ci ha pensati proprio così come siamo, con il nostro nome, che conosce tutto di noi ed ha su ognuno un progetto buono, per il nostro bene e per la nostra felicità. Non è facile passare dall’idea di religione a quella di fede, dalla precettistica all’amore. La cultura laicista nella quale siamo inseriti non fa nulla per valorizzare il messaggio essenziale del Vangelo, ma insiste costantemente sulla religione in quanto “gabbia”, in quanto insieme di  norme da superare in vista di un’ipotetica libertà. Così diventa molto faticoso mostrare il percorso di fede come un percorso di libertà, che ha come obiettivo la nostra gioia più vera e profonda, con la liberazione da tutti gli idoli mondani. In quanto genitore, e quindi educatore, questa situazione è fonte di una certa frustrazione, di un certo senso di impotenza, perché le forze in campo sembrano davvero sproporzionate e tu, per quanto cerchi di fornire un esempio di vita coerente con la fede che ti nutre, ti senti costantemente superato da un poderoso apparato culturale e massmediatico imbevuto di un illuminismo all’ingrosso. Così, è difficile anche far passare la grande proposta al centro del pontificato di Benedetto XVI, e cioè che la ragione umana è tanto più autenticamente tale quanto più si apre al trascendente e si pone le grandi domande, mentre il razionalismo esasperato, che pretende di limitare l’orizzonte affermando che la questione di Dio non è pertinente per la ragione umana, non fa crescere la persona, non la rende più libera, ma la impoverisce e la rende più vulnerabile di fronte agli attacchi delle ideologie di vario genere e colore. Credo insomma che a noi credenti, oggi più che mai, corra l’obbligo di tornare al cuore del messaggio evangelico, per mostrarne il fascino e la carica liberatoria per l’uomo. Occorre avere il coraggio di interrogarsi sulla libertà, sulla verità, sulla bellezza. Se si riesce a fare questo, la visione laicista si scioglie come neve al sole e si apre la porta alla vera laicità, che garantisce la libertà di espressione, alla luce della fede, in tutti gli ambiti. Non solo: se si riesce a fare questo, l’adesione al Vangelo di Gesù si mostra come avventura appassionante, degna di essere vissuta in coerenza, e da qui nasce la carica per incidere, per far sì che la fede diventi cultura in atto. Purtroppo però sono pochi i testimoni capaci di trasmettere questa carica. Parlo di “testimoni” a ragion veduta. I predicatori, anche bravi, non mancano, ma il testimone è più del predicatore: il testimone ti coinvolge con la forza del suo esempio, della sua vita, delle sue scelte. Il testimone è uno in grado da un lato di smascherare i miti e i dogmi laicisti mostrandone la falsità e l’inconsistenza, dall’altro di coinvolgerti in un percorso che, alla luce del Vangelo, ti mostri tutta la bellezza della vita cristiana. A mia moglie e al sottoscritto successe così, quando eravamo ragazzi, con Giovanni Paolo II. Fu lui il testimone che cambiò il nostro punto di vista sulle cose. Fu lui a mostrarci la bellezza della fedeltà coniugale e dell’apertura alla vita. Fu lui a proporci di andare controcorrente. E seppe entusiasmarci, appunto, perché non fu solo un bravo predicatore, ma incarnò il Vangelo nella sfida con le questioni poste dalla nostra epoca.

 

Troppe volte sembrano emergere dal mondo cattolico giudizi o interpretazioni di fatti o idee che non sempre sono corretti e/o omogenei. Per esempio, si assiste a valutazioni benevole di un presunto senso religioso, cristiano perfino, in personaggi del mondo culturale o politico che in realtà, con le loro opere o idee, hanno manifestato evidenti contraddizioni con la dottrina e la prassi cattolica. A suo parere, come mai accade questo?

 

Proprio perché viviamo in un mondo profondamente secolarizzato e anzi ormai, possiamo ben dirlo, pagano, fra i cattolici stessi molto spesso c’è una scarsissima consapevolezza di ciò che significa aderire al Vangelo di Gesù, essere seguaci di Gesù e vivere di conseguenza. Il pensiero laicista è riuscito a inculcare in molti uno dei suoi dogmi principali, e cioè che il cristiano, in quanto tale, abbia diritto di cittadinanza solo se la sua fede resta una faccenda strettamente personale, anzi privata, di taglio sentimentale e senza influenza sulla vita sociale. O meglio: l’unico tipo di influenza ammesso è quello di tipo assistenziale e umanitario. Il cristiano va bene, nel senso che è accettato e perfino lodato, quando produce assistenza sociale, ma se si interroga sulle grandi questioni (la vita al suo sorgere e alla sua fine, l’educazione, la morale sessuale) alla luce del Vangelo, e fa discendere dalla sua fede alcune precise richieste che interpellano la cultura e la politica, allora viene messo ai margini e bollato come “integralista” o “fondamentalista”. Ma il fatto è che in molti casi è il credente stesso, ormai cloroformizzato, condizionato o arruolato, ad assumere un atteggiamento  passivo e condiscendente. Al fine di essere accolto e accettato dal  mondo pagano, riduce se stesso, quando va bene, a un assistente sociale e si dimostra molto tollerante, indulgente e politically correct verso la cultura scristianizzata o addirittura anticristiana.  È una sorta di sindrome di Stoccolma. Dalla quale è sempre più difficile uscire man mano che vengono meno le grandi figure di pensatori cristiani capaci di interpretare i fenomeni alla luce del Vangelo e di sottrarsi all’omologazione.

 

In molti casi l’esigenza del dialogo sembra schiacciare la “cultura cattolica” verso un appiattimento nei confronti della cultura laica. Così si finisce per eliminare ogni elemento che possa in qualche modo “offendere” l’interlocutore. Ciò vale, ad esempio, nella scienza, nella letteratura, nella politica, nelle attività educative. Ha senso un dialogo ad occhi chiusi? E’ un problema di fede?

 

Il dialogo per il cattolico è un valore, come ci insegna l’enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI. Ciò non toglie che l’idea di dialogo possa essere anche molto ambigua. Sono stati Giovanni Paolo II e Benedetto XVI a spiegarci bene che non c’è dialogo se prima di tutto non conosciamo noi stessi, se non abbiamo consapevolezza delle nostre radici e dei contenuti fondamentali della nostra fede. In mancanza di tale consapevolezza, il dialogo si trasforma facilmente in un discorso vuoto, riempito soltanto di sentimentalismo. Il vero dialogo può e anzi deve essere anche scomodo, deve toccare i  nervi scoperti. Oggi, nel confronto con la modernità, il dialogo deve necessariamente toccare la questione della verità e del vero bene. Se evitiamo di interrogarci su questi punti nodali, il dialogo è soltanto una conversazione, magari anche simpatica ed erudita, ma senza una meta. Per la modernità la verità sta nell’esperienza: è vero ciò che si prova. Di qui la tendenza a farne una questione di quantità: l’importante è accumulare esperienze. La modernità si interroga volentieri sui come, ma evita i perché. Infatti oggi siamo ossessionati dai come (come essere bravi genitori, come essere belli, come essere efficienti, come trascorrere il tempo) ma ignoriamo i perché, i motivi per cui facciamo qualcosa o prendiamo una certa decisione. Capite quindi che il pensiero cristiano, sia esso di taglio filosofico o teologico, non può essere tenero né accomodante con la modernità. Ma il problema è: dove sta oggi un pensiero cristiano? Dove trovare una filosofia che si possa definire cristiana? Dove rintracciare una teologia consapevole delle questioni in gioco? Dobbiamo ammettere che in proposito il panorama è piuttosto sconfortante. Può succedere di aprire una rivista che dovrebbe divulgare la filosofia cristiana e trovarvi tutti i dogmi della modernità, anche se avvolti da un linguaggio clericale.

 

Infine, le pongo una domanda che si poneva lo stesso Giovanni Paolo II nel lontano 1988 parlando agli universitari di Bologna. “Come di questa cultura, di questa cultura europea – che attraverso i progressi intellettuali, culturali, scientifici, si è staccata, anzi programmaticamente staccata dal cristianesimo, dalla fede – come con questa cultura, fare una nuova inculturazione per fare una vera nuova evangelizzazione?”

 

Io penso che oggi sia l’ora dei laici. Di fronte a pastori che spesso si  mostrano inconsapevoli, incerti, sbandati o non adeguatamente preparati, il laico, che vive nel confronto continuo con il mondo e con la modernità, ha il dovere di essere evangelizzatore, a tempo pieno, con la sua stessa vita, con il suo esempio, direi con il suo volto. Voi mi direte: ma se i pastori stessi sono allo sbando, dove alimentarsi, dove trovare l’energia per questo impegno così radicale? È un grosso problema, ma il laico lo può superare se immagina se stesso come un detective del pensiero, come, direbbe Prezzolini, un “apota”, uno che “non la beve”. Visto così, l’impegno si fa stuzzicante. Ogni giorno io, laico consapevole, vado alla ricerca della verità, ne seguo le tracce, le trovo nei luoghi più insospettabili, le studio. E, anche grazie agli strumenti della comunicazione, mi metto in relazione con altri cercatori impegnati nella stessa missione. Siamo pochi? Non importa. Siamo guardati con sospetto dai quietisti di turno? Pazienza. Siamo attaccati da chi ci accusa di eccessivo legame con la tradizione e di incapacità di leggere i segni dei tempi? Ce ne faremo una ragione. Il detective della verità oggi è uno che applica il dubbio sistematico non al buon Dio, ma ai dogmi della modernità (perché la modernità ne è piena) e li smaschera uno a uno, anche sul terreno del linguaggio, del quale la modernità si serve per occultare e ribaltare la verità. È così che il laico si fa evangelizzazione. Non con il sentimentalismo, non con la pacca sulle spalle, ma con la ricerca, con lo studio e, direi, con un sano accanimento nel voler attribuire un significato preciso a ogni parola, senza accontentarsi di approssimazioni e frasi che suonano bene. Ogni giorno occorre chiedersi: perché io sono cattolico?  Con tanto amore per la santa madre Chiesa, che è la nostra casa, e per il papa. E senza mai dimenticare il buon vecchio Chesterton quando ci dice che tutta la nostra civiltà dipende da decisioni su vecchie questioni morali. Proprio quelle questioni che i laicisti dipingono come superate.

Da Il Timone, n. 158, dicembre 2016

Aldo Maria Valli:
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