Mentre mi dedico al periodico esercizio di ginnastica mentale (spazzare le foglie secche sul terrazzo) e mi pongo domande d’alto spessore filosofico (perché a volte il vento raduna le foglie sotto la scala e a volte accanto al muretto?), mi concedo anche qualche riflessione più leggera. Tipo: «Quando il Figlio dell’uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla terra?».
A beneficio dei lettori meno misericordiosi, il cui sport preferito è impallinare chi scrive e già staranno pensando «Ma guarda questo che impudente! Si impossessa delle domande altrui!», preciso di essere consapevole del fatto che il copyright è di Gesù. Tuttavia, siccome la domanda è buona e merita d’essere presa sul serio, non esito a farla mia. E aggiungo che, se fossi un pastore di santa romana Chiesa, non ci dormirei.
Pare che la domanda, specie verso la fine della sua vita, tormentasse Paolo VI. Direte: vabbè, ma quello era un papa tormentato già di suo! Può essere. Comunque, credo che, se uno è papa, quella domanda dovrebbe non dico tormentarlo, ma certamente almeno accompagnarlo.
Un pastore che non la evitava era Alessandro Maggiolini. Lo ebbi come professore di Introduzione alla teologia all’Università Cattolica, nei primissimi anni Ottanta del secolo scorso. Io facevo Scienze politiche, ma all’epoca (non so se sia ancora così) ogni bravo studente della Cattolica, qualunque fosse il suo corso di studi, doveva frequentare anche un insegnamento di teologia, uno all’anno, ed io decisi di iscrivermi a quello di Maggiolini perché mi piaceva quel monsignore che scriveva come un giornalista e non parlava «da prete».
Lui ci fece le sue brave lezioni e poi ci portò a una specie di ritiro, dentro una specie di castello, dalle parti di Piacenza, e ricordo che al centro delle sue riflessioni c’era proprio la suddetta domanda: «Quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?».
Dentro il castello c’era molta pace e si stava bene. Si potevano anche fare belle passeggiate, con il non trascurabile contorno di qualche coinvolgente studentessa di Filosofia. Insomma, c’era l’atmosfera giusta. Ma Maggiolini non mollava. Voleva che ci inquietassimo, e lui sapeva come fare.
Amico di Gianfranco Miglio, il temibile preside di Scienze politiche, era altrettanto ruvido e non temeva di spaventarci. Non ancora vescovo (lo sarebbe diventato nel 1983), aveva cinquant’anni e un eloquio irresistibile.
Ci diceva che il cristianesimo non può essere vissuto come una fede mielosa, tutta rose e fiori, «peace and love». Nella storia dell’uomo c’è il male, c’è la sofferenza, e le sacre scritture ce la raccontano come un autentico dramma dal quale non si scappa. E perché c’è il male, perché c’è la sofferenza? Ma perché c’è il peccato! Ed eccoci dritti dritti in quel mistero che è la libertà dell’uomo, la cui dignità si gioca dentro un orizzonte di tragica grandezza.
Noi ragazzi ovviamente ascoltavamo pieni di stupore. Avevamo tutta la vita davanti, stavamo incominciando il nostro percorso accademico, eravamo ricchi di speranze, ed ecco che questo simpatico teologo veniva a parlarci della storia umana come lotta tra bene e male, senza tralasciare il ruolo del demonio, protagonista indiscusso sulla scena del crimine.
Una cosa che mi piaceva di Maggiolini era il suo andare sempre alle radici della fede. Diceva: è generico proclamarsi credenti in Dio. Occorre precisare: credenti in Dio che si è fatto uomo in Gesù ed è risorto. Se non si precisa, già si fa un cattivo servizio alla fede. Anche i musulmani, anche gli ebrei sono credenti in Dio. Occorre puntualizzare. E a chi gli faceva osservare che comunque anche i musulmani onorano Gesù, rispondeva: sì, ma come profeta, non come figlio di Dio, il che fa tutta la differenza del mondo.
Autentico bastian contrario, sempre pronto a marciare controcorrente, il nostro professore contestava la lettura del Vangelo in quanto racconto delle imprese di un grande predicatore carismatico. Il nocciolo sta nella croce, via di salvezza. Se Gesù non è il figlio di Dio e se non salva l’umanità, il resto è solo letteratura. Magari anche ottima, ma solo letteratura.
Ci parlava della felicità e ci raccomandava di riporla in Gesù, perché tutte le altre felicità sono finte, o per lo meno effimere. Basta guardarsi attorno: l’uomo che cerca di rendersi autonomo da Dio è forse felice? Finge di esserlo, e può fingere molto bene, può anche convincersi di essere felice, ma è tremendamente solo e triste.
Parlava di «bassa marea» morale e di felicità a comando, fatta di mimetismo culturale e anche di ignoranza. E diceva: se la Chiesa non mi propone Gesù e la sua risurrezione, qual è il suo scopo? E aggiungeva: ora siete giovani, ma la vita si incaricherà presto di mettervi alla prova con la sofferenza, e allora, quando vi interrogherete sul senso della vita, avrete bisogno di una risposta seria, non di vaghe consolazioni. E la risposta seria è Dio che si incarna, muore e risorge. Ecco la differenza cristiana, che va rivendicata. Perché, se non lo si fa, semplicemente non si è cristiani. E state attenti a non cadere nella trappola di chi dice che, alla fin fine, Dio è sempre Dio, qualunque sia il nome che l’uomo gli vuol dare. Non è così! Perché per esempio il Dio dell’Islam, che se ne sta lontano dall’uomo e chiede soltanto obbedienza e non si commuove, e non si coinvolge nelle vicende umane, non è il mio Dio.
La questione della libertà umana non lo lasciava tranquillo. Diceva: oggi spesso il cristianesimo ci viene presentato in modo edulcorato, esclusivamente come grazia, come una concessione elargita a piene mani, senza che l’uomo debba fare qualcosa. Ma la grazia è una chiamata, occorre rispondere. Citava sant’Ignazio e diceva che se si mostra solo la misericordia di Dio, senza coinvolgere la responsabilità umana, senza sottolineare la necessità di rispondere alla chiamata, si opera un riduzionismo pericoloso e si lascia a Dio l’intero compito della salvezza, mentre Dio richiede una risposta, e la richiede seria, non superficiale, non sentimentale.
A proposito dell’inferno e delle teorie teologiche secondo cui forse c’è, forse non c’è o forse c’è ma è vuoto, diceva: guardate che Gesù parla di chi si salva e di chi si danna, parla della Geenna e del fuoco eterno, parla dell’inferno dove si soffre senza sosta. Non possiamo accettare soltanto alcune parti del Vangelo e dimenticarne altre perché ci turbano e ci sembrano poco in linea con il nostro sentire.
La salvezza non è qualcosa di meccanico. Dio, lasciandoci liberi, ci prende molto sul serio. Ci lascia liberi anche di rifiutarlo, con tutte le conseguenze del caso. E non basta il pensiero, non basta il desiderio. Il desiderio deve concretizzarsi in scelte morali. Il pentimento, il proposito e la riparazione: di questo parla il Catechismo. Ma chi se lo ricorda?
Idem per quanto riguarda il giudizio. Noi sappiamo che il giudizio c’è nel momento della morte. È ineluttabile. Anche in questo caso, fingere di dimenticarsene non rende un buon servizio alla fede, ma soprattutto non rende un buon servizio alle anime bisognose di salvezza. Dunque, guardate con sospetto a chi vi racconta solo una parte del Vangelo. Noi preti, noi credenti, non dobbiamo essere dispensatori di pillole soporifere. Non dobbiamo aver paura di parlare del giudizio.
Ricordo anche che raccomandava di restare agganciati al nocciolo del cristianesimo, senza lasciarsi distrarre da troppe letture e interpretazioni. E il nocciolo è: Dio che si fa uomo, e nasce e muore e risorge per noi, per la salvezza di tutti. L’Anticristo è sempre in servizio, sempre pronto ad annacquare il messaggio evangelico, a confondere, a distrarre. Occorre tornare all’essenziale, ed è così che si difende la fede. La grande apostasia non è qualcosa da prendere con leggerezza: deve metterci paura, una santa paura.
Inutile dire che, con questi discorsi, il nostro arrembante professore ci conquistava. Molto più di quelli che continuavano a blaterare di cristianesimo «peace and love».
So che adesso, a Como, l’associazione culturale che porta il suo nome ha pubblicato l’ultimo testo di Maggiolini, «Visita a Gesù nell’Eucaristia», con la prefazione del cardinale Robert Sarah. Le parole furono dettate dal vescovo nelle ultime settimane di vita, nel 2008.
Ogni tanto mi chiedo che cosa avrebbe detto dell’attuale situazione della Chiesa. Ma credo che non si sarebbe stupito di niente, perché aveva già visto e interpretato tutti i sintomi. Né si preoccupava quando lo accusavano di essere «profeta di sventura».
Mi spiace che oggi, quando si pronuncia il suo nome, scatti il solito commento: «Ah! Il vescovo leghista». E questo solo perché si era posto seriamente il problema dell’immigrazione e della convivenza tra fedi e culture in una società, la nostra, segnata dall’incertezza morale e dalla scarsa propensione alla ricerca della verità.
In uno dei suoi libri Maggiolini scrisse: «Non si dimentichi il dovere o almeno il consiglio di fornire suggerimenti all’autorità da parte dei fedeli prima che l’autorità decida». E una volta, al Meeting di Rimini, intervistato da Eugenio Corti, disse: «La crisi attuale della morale sta nel fatto che non si sa cosa è bene e cosa è male, e in questo modo non si riesce nemmeno a peccare! Così come non si riesce più ad essere eretici: per quante scemenze diciate, troverete sempre un teologo che ne ha detta una più grossa della vostra!».
Come direbbero i miei figli:«Che forza!».
Aldo Maria Valli