Nel parlato di una lingua, lo sappiamo, ci sono parole ed espressioni che per un certo tempo conquistano posizioni dominanti, per poi cadere nell’oblio.
Ricorderete il diminutivo attimino, che anni fa divenne un protagonista incontrastato del discorrere quotidiano, tanto da acquisire significati plurimi (mi dia solo un attimino, mi sento un attimino stanco, mi sembra un attimino strano, per i miei gusti è un attimino troppo salato). A quanto pare, fu un successo effimero, perché attimino, dopo il boom, è quasi sparito dalla circolazione o, per lo meno, è rientrato nei ranghi dai quali proveniva, ovvero quelli di significato temporale.
Secondo alcuni studiosi, attimino prese il posto di cioè, il quale a sua volta conobbe una lunga stagione di protagonismo, negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, per poi tornare a fare quello che aveva sempre fatto: la congiunzione esplicativa. Secondo me il parallelo regge fino a un certo punto, perché attimino si comportò da autentico trasformista, mentre cioè, per quanto sfrontato, si limitò a prendere le sembianze di un intercalare. Ho poi l’impressione che cioè, proprio in quanto intercalare, sia ancora in circolazione e ogni tanto riaffiori, come un fiume carsico, soprattutto in certe aree d’Italia.
Altro caso interessante è quello di e quant’altro, il cui andamento è piuttosto strano, come a ondate. In chiusura di frase, al posto di eccetera, e così via, e altro ancora, il nostro e quant’altro si fa vivo in determinati periodi, poi si dà alla macchia e poi, quando i più lo ritengono estinto, eccolo di nuovo. Adesso sembra che si sia ritirato, ma sappiamo che di e quant’altro non ci si può fidare. Probabilmente si sta soltanto riorganizzando, pronto a tornare in pista, più forte e invadente di prima, con tutto il suo carico di indeterminatezza. Perché e quant’altro, occorre ammetterlo, è usato quando non si vuole, non si può o non si sa dire in che cosa consiste, precisamente, questo altro.
E poi ci sono le parole che, improvvisamente, senza un motivo preciso, incominciano a comportarsi da factotum. Come importante, che ormai è usato in mille salse diverse. In sostituzione di grande, bello, valoroso, notevole, storico, encomiabile, memorabile, rilevante, ragguardevole, significativo, abbiamo sempre e soltanto importante. Specie nello sport.
«Mister, come giudica la prestazione della sua squadra?»
«Beh, è stata una prova importante».
«E il difensore che ha sostituito nella ripresa?»
«Mi è spiaciuto, perché aveva appena eseguito una giocata importante»
Il massimo lo si raggiunge quando l’aggettivo importante è messo a corredo del sostantivo qualità.
«Questa squadra farà strada, ha delle qualità importanti».
«Sapevo che il giocatore Tal dei Tali sarebbe esploso: ha qualità importanti».
L’italiano, a differenza di altre lingue (ogni riferimento all’inglese è voluto), è bello perché è pieno di sinonimi. Ma noi, chissà perché, lo vogliamo appiattire, e così ci inventiamo le parole tuttofare. Che saranno anche utili, ma spesso sono fuori luogo e alla fine diventano insopportabili.
E ora un altro tic lessicale: mi riferisco a detto questo. Non so se l’avete notato, ma il detto questo da un po’ di tempo imperversa.
«Io sono per i democratici, sia chiaro. Detto questo, mi sembra che Trump tutto sommato non abbia torto…».
«Vado matto per il risotto. Detto questo, una buona zuppa non la rifiuto…».
Il più delle volte detto questo è completamente inutile. Basterebbe ricorrere al ma anche: «Simpatizzo per i democratici, ma mi piace anche Trump», «Mi piace il risotto, ma anche la zuppa». Detto questo, però, ha un che di perentorio. È una specie di marcatore usato per prevenire le obiezioni. Con detto questo metto le mani avanti, cerco di evitare le critiche. Abbiamo talmente paura della possibile obiezione altrui da sentire il bisogno di usare un’arma per neutralizzarla. Perché? Forse perché non siamo sufficientemente convinti delle nostre idee? Non credo. Ritengo piuttosto che il detto questo nasca dal timore del contrasto e dell’aggressione. Ai nostri giorni il confronto dialettico è spesso così violento, e segnato da così tanta intolleranza, da far avvertire la necessità di una prevenzione.
Un’espressione che assomiglia a detto questo, ed è a sua volta diventata alquanto abusata, è premesso che.
«Premesso che non sono razzista, penso che questi immigrati siano proprio maleducati».
«Premesso che amo il rosso, mi piace anche il blu».
Derivato dal linguaggio burocratico e amministrativo, premesso che ha invaso il parlato quotidiano per motivi probabilmente simili a quelli che hanno portato al dilagare di detto questo: è un mettere le mani avanti, un prevenire l’obiezione, ma forse è soprattutto un modo per tenersi libere tutte le vie. Con un premesso che nessuno può chiudermi in un angolo. Quindi, se la paura da cui nasce il detto questo riguarda una possibile aggressione, il premesso che dà piuttosto l’impressione di avere origine dal desiderio di poter indirizzare l’argomentazione verso varie destinazioni. Ciò che sto per dire può avere un sapore razzista, ma ho premesso che non lo sono. Ho detto che amo il rosso, ma ho premesso che non disdegno nemmeno il blu. In questo senso, difficile non notare nel premesso che anche un sintomo di ipocrisia. Sotto sotto un po’ razzista lo sono, ma non si può dire! Sotto sotto il rosso è veramente il mio colore preferito, ma meglio tenere buoni rapporti anche con quelli che amano il blu: non si sa mai!
Intanto possiamo interrogarci su un’altra parola prezzemolina: niente. Una parola che, a differenza di altre, ama piazzarsi proprio all’inizio della frase.
«Buonasera, che cosa vuole dirci?»
«Niente… Telefonavo perché…»
«Salve, che cosa ne pensa?»
«Ehm, niente… Secondo me…»
«Ecco, è in linea, parli pure…»
«Buongiorno, mi chiamo Mario, eeeh niente…»
Perché le persone, proprio nel momento in cui si accingono a dire qualcosa, partono con un bel niente?
Certamente l’imbarazzo ha un ruolo. Si tratta di riempire il vuoto iniziale, di mettere in moto il ragionamento. Ma perché utilizzare proprio niente?
Secondo me, mi perdonerete la psicologia spicciola, un ruolo lo gioca l’inconscio. La persona che parla sa in cuor suo di non aver niente da dire, o che sta parlando di niente, e si tradisce in quel modo. Niente è un segnalatore, come una boa galleggiante sulla nostra inettitudine. Parliamo perché tutti lo fanno. Parliamo perché è inevitabile. Parliamo perché solo così ci sentiamo vivi. Parliamo perché ci piace ascoltarci. Tuttavia, consapevoli del nostro vuoto interiore, lasciamo in bella evidenza la boa.
«Grazie di aver chiamato, dica, dica…»
«Eeeh… niente…»
Mi sa che Oscar Wilde («Amo molto parlare di niente. È l’unico argomento di cui so tutto») l’aveva intuito.
Aldo Maria Valli