Sempre più spesso, ascoltando i discorsi degli uomini di Chiesa o leggendo i loro testi, mi accorgo che non parlano delle cose essenziali relative alla fede e alla salvezza delle anime, ma si occupano d’altro. Lo fanno anche bene, dimostrando una certa preparazione. Ma non parlano, o parlano molto poco, o non in prima istanza, di Dio e della rivelazione divina. Non si occupano di quelli che un tempo si chiamavano i «novissimi» (morte, giudizio, inferno, paradiso), ma preferiscono parlare d’altro, delle cose terrene.
Definirei questo atteggiamento «divagarite». Significa che queste persone divagano. Per esempio fanno sociologia, discettano di temi ecologici, affrontano alcune questioni economiche, scendono in campo sul piano dei diritti umani.
Non sto dicendo che siano temi di poco conto, né che la Chiesa non se ne debba occupare. Sto dicendo che, privilegiando questi temi, e trascurando Dio, la Trinità, la rivelazione, il giudizio divino e il destino dell’uomo dopo la morte, di fatto viene messa in atto una specie di autocensura. Che può essere conscia o inconscia. Ma c’è.
Perché succede?
Qualcuno ritiene che il fenomeno sia dovuto all’ingresso dell’ideologia politica nel cuore e nella mente degli uomini di Chiesa, per cui la loro predicazione si indirizza preferibilmente ai problemi di quaggiù e non ai misteri di lassù. È una spiegazione. Ma forse ci sono anche ragioni più profonde.
È noto che oggi, in piena post-modernità, è ritenuto inconcepibile che qualcuno pretenda di essere portatore e testimone di una verità assoluta. Se poi questa verità è una verità religiosa, peggio ancora. E se poi, come nel caso del cristianesimo, la religione si presenta addirittura come religione del «Logos», sintesi di ragione e fede, il suo contenuto è considerato del tutto improponibile.
L’uomo contemporaneo, imbevuto di soggettivismo e relativismo, è in larga misura uno sbandato. Lo è nel senso letterale del termine, perché non solo non possiede un orientamento sicuro, ma esclude che sia possibile averlo al di fuori del proprio sentimento in relazione a una singola situazione. Tuttavia possiede alcune certezze che, paradossalmente, sono proprio il frutto del suo sbandamento. La prima è che nessun pensiero e nessuna religione possono avere una pretesa di verità. La seconda è che tra fede e ragione non può esserci sintesi, ma solo divaricazione e opposizione. Così, nel momento stesso in cui il cristianesimo rivendica per sé il doppio ruolo di religione vera, in grado di rispondere alle grandi domande dell’esistenza ergendosi su tutte le altre filosofie e religioni, e di religione razionale, che non separa ma integra la fisica e la metafisica, scatta immediatamente il rifiuto: tutto ciò, dice la mentalità sottoposta al dominio di soggettivismo e relativismo, è semplicemente assurdo. Per l’uomo contemporaneo un’esperienza religiosa oggi non può accampare alcuna pretesa né di verità né di razionalità; l’unica cosa che può fare è porsi umilmente accanto a tutte le altre, sullo stesso piano, nel segno del pluralismo.
Un altro principio oggi diffuso, un vero e proprio dogma laicista, è che qualunque obbligazione morale derivante dall’esperienza religiosa sia improponibile. Se tale esperienza non può rivendicare per sé lo status di razionale e vera, l’obbligazione morale che ne consegue è necessariamente infondata e arbitraria, frutto di disposizioni istituzionali che si sostituiscono alla libertà di scelta.
Si tratta di convincimenti tanto radicati, e così pervasivi, da aver fatto breccia anche fra i cattolici. I quali spesso sono i primi a ridimensionare la pretesa di razionalità e di verità della quale dovrebbero essere portatori. Ecco così che la stessa figura di Gesù è relativizzata e storicizzata fino al punto da mettere in ombra la sua divinità; ecco che l’origine divina della Chiesa in Gesù e la sua pretesa di essere l’unica vera Chiesa non sono più riaffermate come certe. Ed ecco anche il dilagare della «divagarite».
Se, come dissero gli apostoli a Gesù, «questo linguaggio è duro», difficile da afferrare per il mondo, perché stare a combattere? Meglio adeguarsi. E un modo comodo e rapido per adeguarsi è parlare d’altro. È una via di fuga, che raggiunge il duplice obiettivo di evitare argomenti troppo «duri» per la mentalità secolarizzata e di assicurarsi l’applauso del mondo.
Ma, se la «divagarite» è così diffusa, com’è che la fede ancora resiste? C’è qualche medicina? E, se c’è, come funziona?
Sì, le medicine ci sono. E non occorre cercarle chissà dove (per esempio, anche se qualcuno ha detto che Lutero è stato una medicina per la Chiesa, non occorre rivolgersi alla farmacia dei fratelli luterani). La medicina numero uno, in realtà, è un vecchio ritrovato della farmacia cattolica e si chiama adorazione. Per la precisione adorazione eucaristica. Per lo più silenziosa.
Mi torna alla mente la Giornata mondiale della gioventù a Colonia, nel 2005. Ero là come inviato e ricordo la notte dell’adorazione eucaristica da parte di migliaia e migliaia di giovani nella spianata di Marienfeld. Che momento! Non ci furono parole, eppure la forza di quella preghiera si poteva toccare.
So che in tutto il mondo, anche in Italia, si moltiplicano i gruppi di adorazione eucaristica. Mia moglie Serena, detta Santa Subito e catechista di lungo corso, non vi rinuncerebbe mai e fa i salti mortali pur di ritagliarsi quello spazio.
Butto giù questi appunti dopo essere stato in una chiesa nella quale c’è uno spazio riservato all’adorazione perpetua. Niente discorsi, niente proclami, niente attivismo. Solo il tabernacolo e il Santissimo. Che meraviglia.
Ecco. Praticata regolarmente, da tante persone nascoste, l’adorazione combatte la «divagarite» e molti altri morbi. Ed è significativo che lo faccia attraverso il silenzio.
«La force du silence» si intitola un bel libro del cardinale Robert Sarah. E in san Giovanni della Croce troviamo questo pensiero fulminante: «Il Padre pronunciò una parola, che fu suo Figlio, e sempre la ripete in un eterno silenzio; perciò in silenzio essa deve essere ascoltata dall’anima».
Potendo contare su una medicina così, la nostra fede è al sicuro. Anche se alcuni pastori, in preda ad attacchi di «divagarite», mostrano la tendenza a trasformarsi in sociologi, economisti o politologi, la contemplazione silenziosa ci riporta continuamente all’essenziale.
Aldo Maria Valli