Elemosina sì, elemosina no.
«Molti si domandano se è giusto fare l’elemosina alle persone che chiedono aiuto per strada; lei cosa risponde?».
Era il 28 febbraio 2017 quando il mensile di strada «Scarp de’ tenis» poneva questa domanda a papa Francesco. Il quale rispondeva così: «Ci sono tanti argomenti per giustificare se stessi quando non si fa l’elemosina. ”Ma come, io dono dei soldi e poi lui li spende per bere un bicchiere di vino?”. Un bicchiere di vino è l’unica felicità che ha nella vita, va bene così. Domandati piuttosto: che cosa fai tu di nascosto? Tu quale “felicità” cerchi di nascosto? Un aiuto è sempre giusto. Certo non è una buona cosa lanciare al povero solo degli spiccioli. È importante il gesto, aiutare chi chiede guardandolo negli occhi e toccando le mani. Buttare i soldi e non guardare negli occhi, non è un gesto da cristiano».
L’argomento è spinoso. Per chi, come il sottoscritto, lavora in una zona ad altissima densità di questuanti, è davvero difficile mettere in pratica ciò che dice Francesco. Tenuto conto che in una giornata, nei pressi del Vaticano, puoi essere avvicinato anche da una dozzina di persone che chiedono la carità, risulta chiaro che un comune padre di famiglia non può donare qualcosa a tutti.
Devo dire che se il questuante non è invadente o, peggio, minaccioso (mi è capitato anche di essere preso per un braccio), e se io non vado di fretta (cosa piuttosto rara, a dire il vero), rispondo con un sorriso e con un saluto, guardando bene in faccia la persona, ma non do denaro. Non lo so, forse sbaglio. Ma penso che dando del denaro finirei con l’incentivare quel tipo di vita, che resta oggettivamente disordinato.
Per tutti questi motivi, ho letto con interesse le dichiarazioni del vescovo statunitense Thomas J. Tobin, di Rhode Island, secondo il quale ci sono almeno tre buone ragioni per non dare l’elemosina ai questuanti.
Prima ragione: se qualcuno sul marciapiedi chiede denaro, ci sono problemi di sicurezza e se noi diamo a queste persone i nostri soldi le aiutiamo a vivere male puntando sulla compassione altrui.
Secondo motivo: dare del denaro è umiliante per quelle persone, per la loro dignità, per cui è bene non incentivarle.
Terzo motivo: anche se donare può farci sentire meglio, in realtà stiamo sostenendo uno stile di vita sbagliato e degradante. Quindi, anziché fare la carità alla singola persona, è meglio aiutare le iniziative che la comunità, con strumenti legittimi e programmi strutturati, prende per alleviare la povertà. Il grande pericolo, dice monsignor Tobin, è quello di cadere in «un atteggiamento di paternalismo protettivo».
Mi sembrano considerazioni piuttosto sensate. Oppure voglio semplicemente autoconvincermi che lo siano, così da giustificare la mia scelta di non fare l’elemosina?
Sul tema Francesco intervenne un anno fa, nell’udienza giubilare del 9 aprile 2016, quando disse: «Può sembrare una cosa semplice fare l’elemosina, ma dobbiamo fare attenzione a non svuotare questo gesto del grande contenuto che possiede. Infatti, il termine “elemosina”, deriva dal greco e significa proprio “misericordia”. L’elemosina, quindi, dovrebbe portare con sé tutta la ricchezza della misericordia. E come la misericordia ha mille strade, mille modalità, così l’elemosina si esprime in tanti modi, per alleviare il disagio di quanti sono nel bisogno».
«Il dovere dell’elemosina – proseguì il papa – è antico quanto la Bibbia. Il sacrificio e l’elemosina erano due doveri a cui una persona religiosa doveva attenersi. Ci sono pagine importanti nell’Antico Testamento, dove Dio esige un’attenzione particolare per i poveri che, di volta in volta, sono i nullatenenti, gli stranieri, gli orfani e le vedove. E nella Bibbia questo è un ritornello continuo: il bisognoso, la vedova, lo straniero, il forestiero, l’orfano… è un ritornello. Perché Dio vuole che il suo popolo guardi a questi nostri fratelli; anzi, dirò che sono proprio al centro del messaggio: lodare Dio con il sacrificio e lodare Dio con l’elemosina».
Poi Francesco spiegò: «Insieme all’obbligo di ricordarsi di loro, viene data anche un’indicazione preziosa: “Dai generosamente e, mentre doni, il tuo cuore non si rattristi” (Dt 15,10). Ciò significa che la carità richiede, anzitutto, un atteggiamento di gioia interiore. Offrire misericordia non può essere un peso o una noia da cui liberarci in fretta. […] Mi piace ricordare l’episodio del vecchio Tobia che, dopo aver ricevuto una grande somma di denaro, chiamò suo figlio e lo istruì con queste parole: “A tutti quelli che praticano la giustizia fa’ elemosina. […] Non distogliere lo sguardo da ogni povero e Dio non distoglierà da te il suo” (Tb 4,7-8). Sono parole molto sagge che aiutano a capire il valore dell’elemosina».
E ancora: «Gesù, come abbiamo ascoltato, ci ha lasciato un insegnamento insostituibile in proposito. Anzitutto, ci chiede di non fare l’elemosina per essere lodati e ammirati dagli uomini per la nostra generosità: fa’ in modo che la tua mano destra non sappia quello che fa la sinistra (cfr Mt 6,3). Non è l’apparenza che conta, ma la capacità di fermarsi per guardare in faccia la persona che chiede aiuto. Ognuno di noi può domandarsi: “Io sono capace di fermarmi e guardare in faccia, guardare negli occhi, la persona che mi sta chiedendo aiuto? Sono capace?”. Non dobbiamo identificare, quindi, l’elemosina con la semplice moneta offerta in fretta, senza guardare la persona e senza fermarsi a parlare per capire di cosa abbia veramente bisogno. Allo stesso tempo, dobbiamo distinguere tra i poveri e le varie forme di accattonaggio che non rendono un buon servizio ai veri poveri. Insomma, l’elemosina è un gesto di amore che si rivolge a quanti incontriamo; è un gesto di attenzione sincera a chi si avvicina a noi e chiede il nostro aiuto, fatto nel segreto dove solo Dio vede e comprende il valore dell’atto compiuto».
Distinguere tra i poveri e le varie forme di accattonaggio. L’indicazione del papa mi sembra pertinente.
I questuanti che incontro io, in generale, non sono poveri che ispirano pietà, ma veri e propri professionisti dell’accattonaggio, all’opera ormai da molto tempo.
Per esempio, un certo signore, che gira con un sacchetto di plastica in mano e un berretto da baseball in testa, rivolgendosi ai turisti in lingue diverse, lo vedo da vent’anni e siamo invecchiati insieme. Lo stesso si può dire per una signora, tutta vestita di nero, che staziona davanti alla vetrina di una libreria tenendo in bella mostra un biberon e chiedendo qualche soldo per metterci il latte da destinare a un presunto figlio. Idem per un’altra signora che incontro abbastanza spesso ed ha la cannula del respiratore inserita nel naso, ma nessun respiratore. E che dire di certi apparenti sciancati che a fine giornata si alzano, prendono la loro stampella sotto braccio, e se ne vanno di buon passo?
Ecco, di fronte a questi casi proprio non riesco a provare compassione. Al contrario, mi chiedo perché certe persone siano libere di importunare la gente senza che nessuno intervenga.
Dirò di più: ho l’impressione che il vero povero, colui che è veramente bisognoso, non chieda la carità.
Comunque, quando incontrerò la signora con il biberon le suggerirò di aggiornarsi: senza offesa, quel presunto figlio sarà diventato ormai adulto, quindi meglio che chieda i soldi per un presunto nipotino.
Aldo Maria Valli