Correva l’anno 1989, mese di febbraio. Il mondo era ancora diviso in blocchi, il muro di Berlino ancora in piedi, e il líder máximo Fidel Castro, all’epoca sessantatreenne e saldamente in sella a capo del regime comunista cubano, andò a far visita al Venezuela.
Per l’occasione, un migliaio di personaggi pubblici venezuelani, appartenenti al mondo della cultura, del giornalismo, dell’arte e dell’economia, pensarono di accogliere Castro con un gentile pensierino, un «Manifiesto de bienvenida» che si apriva con queste parole: «Nosotros, intelectuales y artistas venezolanos al saludar su visita a nuestro país, queremos expresarle públicamente nuestro respeto hacia lo que usted, como conductor fundamental de la Revolución Cubana, ha logrado en favor de la dignidad de su pueblo y, en consecuencia, de toda América Latina».
Il «Manifesto» era tutta una lode a Castro, dipinto come un autentico salvatore. «In questa drammatica ora del continente – si leggeva – solo la cecità ideologica può negare il ruolo del processo che voi rappresentate nella storia della liberazione dei nostri popoli». Poi si parlava del regime castrista come di «una vittoria esemplare sulla tirannia, la corruzione e il vassallaggio» e di Castro come di un eroe, un punto di riferimento in vista delle sfide del progresso e della costruzione di un’America Latina unita. Insomma, un panegirico in pompa magna.
Ebbene, scorrendo l’elenco dei novecentoundici firmatari ecco che al numero 810, dopo il signor Miguel Octavio Sosa e prima del signor Jesús Sotillo, troviamo Arturo Sosa, s. j. Sì, proprio lui: il padre gesuita Arturo Sosa, futuro preposito generale della Compagnia di Gesù, eletto nell’ottobre scorso e balzato all’onore delle cronache qualche mese fa per aver sostenuto, in un’intervista al vaticanista ticinese Giuseppe Rusconi, che le parole di Gesù vanno relativizzate e contestualizzate, perché a quell’epoca non c’erano registratori e dunque noi non possiamo essere sicuri di ciò che nostro Signore veramente disse.
Ora, per chi non ricordasse, occorre dire che Fidel Castro, pur essendo stato battezzato e avendo studiato dai gesuiti, fin dalla sua presa del potere, nel 1959, abolì la libertà religiosa a Cuba e diede inizio a una lunga persecuzione dei cristiani, che si sarebbe allentata, ma più nella forma che nella sostanza, solo all’inizio degli anni Novanta e solo per consentire un reinserimento di Cuba nel consesso internazionale.
Verranno poi le visite di Giovanni Paolo II (1998), Benedetto XVI (2012), Francesco (2015 e 2016). Verrà la mediazione vaticana per ristabilire relazioni diplomatiche tra l’Avana e Washington, verranno le aperture del regime nei confronti della Chiesa. Ma certamente in quel febbraio del 1989 Fidel Castro era un persecutore dei cattolici. Eppure il gesuita venezuelano Arturo Sosa lo accoglieva a braccia aperte, come liberatore ed eroe.
La notizia, riportata da Infovaticana.com, pone qualche domanda sul padre Sosa. Sappiamo che in gioventù fu un fan della teologia della liberazione, e sappiamo anche che negli anni Settanta, dopo aver frequentato, a Roma, la comunità di San Paolo, sposò le tesi marxiste, tanto da scrivere un articolo per la rivista «Sic» del Centro Gumilla de Investigación y Acción Social, gestito dai gesuiti di Caracas, intitolato «La mediación marxista de la fe cristiana», nel quale sosteneva che tale mediazione è non solo «legittima», ma «necessaria», perché la critica marxista della religione colpisce non il vero Dio, schierato con i poveri, ma il dio falso utilizzato dal capitalismo e dallo Stato borghese per opprimere e asservire.
All’epoca dell’articolo il «papa nero» era il padre Pedro Arrupe e il giovane Sosa ne era conquistato. Non stupiscono quindi le sue valutazioni, che ricalcano quelle della teologia della liberazione in voga in quel periodo. Tuttavia nel 1989 i tempi erano cambiati e per chi, libero da pregiudiziali ideologiche, avesse voluto aprire gli occhi c’erano tutte le possibilità di farlo. Invece il padre Sosa, che nel 1989 aveva quarant’anni e non era più uno studente idealista, firmava un panegirico a favore di Castro, il tiranno che aveva trasformato Cuba in un grande carcere.
Vale la pena di rileggere la valutazione che l’esule cubano Flavio Labrador fece su «Asianews» all’indomani della visita di Francesco a Cuba, quando scrisse: «Per noi cattolici la Chiesa è madre e maestra, e anche saggia, ma spesso i suoi gesti verso governi o individui rischiano di rimanere incomprensibili a molti. La visita di papa Francesco a Cuba nei giorni scorsi sta risvegliando in persone di tutto il mondo molte domande: perché il papa non ha incontrato i dissidenti? Perché non ha ascoltato la loro voce direttamente, perché non ha ascoltato le loro preoccupazioni, essendo essi fra le persone che soffrono di più? Perché non chiamare le cose con il loro nome, chiamando dittatura il governo dell’Avana e chiedendo pubblicamente che esso garantisca ai cubani libertà e una vita senza persecuzioni e senza paura?».
Domande legittime. Che forse uno studioso di scienze sociali e politiche, qual è il padre Sosa, dovrebbe fare proprie. Finalmente.
Aldo Maria Valli