Se penso a Joaquín Navarro-Valls, che ci ha lasciato oggi a ottant’anni di età, mi torna alla mente soprattutto la sua cortesia di autentico gentiluomo.
Quando, nel 1996, diventai vaticanista per il Tg3, andai a trovarlo nel suo ufficio, nella sala stampa vaticana, in via della Conciliazione. Mi tremavano un po’ le gambe, perché stavo per conoscere un mostro sacro, il portavoce di Giovanni Paolo II. Alcuni colleghi poi mi avevano detto che il direttore della sala stampa era una persona quasi irraggiungibile, un uomo che se ne stava rintanato nel suo antro e ammetteva alla sua presenza solo pochi eletti. Io, in quel momento, ero l’ultimo arrivato, e quindi mi sembrò strano che avesse subito risposto alla mia richiesta di appuntamento. Però quando entrai da lui mi resi conto che il mostro sacro, in realtà, non era per niente un mostro, ma un signore sorridente, molto ben educato, direi addirittura affabile e molto curioso. Volle sapere di me e del mio lavoro, naturalmente, ma più ancora si interessò alla mia famiglia: se ero sposato, se avevo figli. Quando gli dissi che ero sposato con Serena e che avevamo cinque figli (poi, tre anni dopo, sarebbe arrivata anche la sesta) si dimostrò entusiasta e sorrise ancora di più. E quando gli dissi che, se avevamo una famiglia numerosa, un bel po’ di responsabilità era proprio del suo capo, ovvero del papa Giovanni Paolo II, perché, quando eravamo ragazzi, era stato lui a entusiasmarci con l’idea del matrimonio cristiano aperto alla vita, ne fu felicissimo, e da allora ogni volta che mi vedeva mi chiedeva regolarmente di Serena, mi pregava di portarle i suoi saluti e voleva sapere come andava con i figli.
Posso dire che fin dal primo momento, per me, il dottor Navarro-Valls, medico con la vocazione del giornalismo, non è stato tanto il direttore della sala stampa vaticana, ma un amico. Quando ci si vedeva, si parlava di tutto, con grande libertà. Era curioso e voleva capire come vivesse una coppia cattolica in un mondo profondamente secolarizzato. Mi chiedeva quali fossero i problemi nell’educazione dei figli e nella scelta delle scuole, come ci comportavamo, noi genitori, quando dai figli arrivavano richieste strane. Lui che, in quanto numerario dell’Opus Dei, non si era sposato e aveva fatto la scelta della castità, era desideroso di entrare, sia pure per interposta persona, nei percorsi di una famiglia. Tanto è vero che una volta, durante una cena alla quale invitò il sottoscritto e Serena, ci tenne quasi una conferenza, sia pure senza darlo a vedere, sull’importanza di stare con i figli, di trascorrere del tempo con loro, e non smise di complimentarsi con mia moglie per la scelta di fare la mamma a tempo pieno.
Il mio desiderio di stare in famiglia era uno degli argomenti sui quali spesso scherzavo con lui. «Caro Joaquín – gli dicevo – tu mi incoraggi a stare accanto a moglie e figli, e va benissimo, ma dovresti dire al tuo capo di darsi una calmata. Se lui continua a girare per il mondo e a tenere folli ritmi di lavoro, io, povero vaticanista, come faccio a dedicare tempo alla famiglia?». Allora lui sorrideva e mi diceva: «Non hai tutti i torti, ma Serena capirà».
Durante i viaggi al seguito del papa, più volte gli chiesi una battuta per il telegiornale, e lui non si rifiutò mai. Anche al di fuori delle canoniche conferenze stampa, quando mi vedeva arrivare con l’amico cameraman Luigi Conti, mi dedicava sempre qualche minuto. Noi magari eravamo accaldati e arruffati: lui invece sempre impeccabile, in giacca e cravatta, anche sotto il sole dell’Africa.
Nel 2001 pubblicai un libro su alcuni dei viaggi di Giovanni Paolo II e chiesi a Joaquín la prefazione. Pensavo che sarebbe stato difficile ottenere una risposta positiva, dati gli impegni del direttore. Invece disse subito di sì e nel giro di pochi giorni mi mandò il suo testo. L’ho qui di fronte a me. Il libro era, ed è, intitolato «Per le vie del mondo. Quattordici viaggi di Giovanni Paolo II», e Joaquín nelle pagine introduttive scriveva fra l’altro: «Questo libro conferma nuovamente che la geografia delle peregrinazioni papali si identifica con la complessità delle diverse situazioni umane e non con gli scenari idilliaci che avremmo avuto di fronte se si fosse lasciato al di fuori dei programmi tutto ciò che oggi nel mondo è problematico». E ancora: «In ogni viaggio del papa vi sono due itinerari non sempre paralleli. Da una parte vi è ciò che il programma segnala, il calendario degli appuntamenti e degli incontri prestabiliti e, dall’altra, ciò che con la presenza del papa, e solo con l’insostituibile presenza di un papa, avviene in ogni luogo. Lo sforzo di un cronista, in questa situazione, è doppio. Mentre si segue lo sviluppo di un evento, bisogna prestare attenzione alla ricerca del dettaglio che fornisce la chiave di ciò che in realtà sta succedendo». Sono annotazioni di un professionista ben consapevole della sfida quotidiana a cui si trova di fronte un vaticanista.
Anni dopo, quando scrissi «Piccolo mondo vaticano. La vita quotidiana nella città del papa»,Joaquín mi fece i complimenti perché, disse, ero riuscito ad accompagnare un visitatore comune, non specializzato, dentro un universo tanto strano, e accettò di partecipare alla presentazione del volume in una libreria romana.
Tra i ricordi più intensi c’è una passeggiata nei giardini vaticani, fino alla grotta di Lourdes, parlando un po’ di tutto, e poi un pomeriggio, da lui, nel suo ufficio. Rivedo quel momento. Mi mostra un telefono bianco, accanto alla scrivania, e mi dice: «Vedi, questo è l’unico al quale devo rispondere sempre. Linea diretta… Gli altri posso anche lasciarli squillare, ma questo proprio no». Capisco che la linea diretta è con l’appartamento pontificio, con Giovanni Paolo II, e proprio in quel momento, neanche a farlo apposta, il telefono squilla. Io, imbarazzato, mi alzo e faccio per uscire, ma Joaquín mi fa segno di restare, e così ascolto un suo breve colloquio con il papa.
Un’altra volta mi raccontò di quanto Karol Wojtyła fosse interessato alla revisione dei viaggi. Il papa, mi spiegò, si preparava molto alla vigilia, naturalmente, ma dedicava altrettanta attenzione, al ritorno, a una sorta di riepilogo critico, con la presenza di pochissimi collaboratori, per una verifica scrupolosa sui vari appuntamenti, sulle reazioni della gente e della stampa.
I ricordi che ho di Joaquín sono tanti. Pochi giorni dopo la morte di Giovanni Paolo II, gli chiesi come si sentisse. E lui, per un impercettibile frazione di secondo, si commosse. Si ricompose subito, ma quello sguardo non lo posso dimenticare. Allora mi resi veramente conto di quanto l’avessero segnato gli anni trascorsi accanto al papa polacco.
Caro Joaquín, ti ricordo con tanto affetto. Grazie.
Aldo Maria Valli