Domenica scorsa, 9 luglio, a Roma, e penso in molte altre chiese di rito romano, è stato distribuito ai fedeli il foglio «La Domenica», con le letture del giorno e le principali preghiere, per aiutare a seguire la celebrazione della messa.
In genere, nell’ultima delle quattro paginette della pubblicazione, c’è una riflessione su argomenti di attualità, e in questo caso c’era un intervento sull’esortazione apostolica «Amoris laetitia». Un testo che mi ha fatto nascere molte domande e mi ha lasciato alquanto perplesso.
Dopo una prima, veloce lettura mi sono detto: «Che diamine sta scritto qui? Possibile?». Siccome c’era un caldo torrido, ho dato la colpa a me stesso e al mio intorpidimento, poi però ho letto e riletto, e siccome ad ogni rilettura mi sono sentito sempre più sconcertato, ho capito che non era colpa del caldo.
Sotto il titolo «Prima la coscienza, poi le regole» (di per sé altamente problematico, come dirò), troviamo questa iniziale affermazione: «Tra le quattro parole che traducono il senso profondo dell’esortazione “Amoris laetitia” (accoglienza, accompagnamento, discernimento, integrazione) il discernimento è quello che merita uno sguardo più attento».
Pensavo che, subito dopo, ci sarebbe stata qualche annotazione sul significato del discernimento. Discernimento per arrivare a che cosa? Discernimento guidato da chi, e come? Ma nulla di tutto ciò. Quella che invece viene proposta è un’affermazione tanto perentoria quanto indimostrata, e cioè che, «ricorrendo a questa scelta, il Papa intende concedere alle famiglie cristiane una patente di maturità nella fede».
Ma che significa? Che vuol dire, precisamente, che ricorrendo al discernimento il papa concede alle famiglie cristiane una patente di maturità nella fede? Il papa non dovrebbe vincolare le famiglie, come i singoli, alla legge divina? Ammesso comunque che sia così, e cioè che il papa voglia concedere alle famiglie questa fantomatica patente sulla base di un imprecisato discernimento, quale sarebbe lo scopo finale? Non si sa.
Proseguo nella lettura e trovo il seguente pensiero: «Per il discernimento infatti, più che le regole, serve l’impegno personale. Perché il discernimento, che si adatta alla situazione concreta della persona, è più esigente delle regole. Ogni persona ha una “sua” situazione. Pensare di stabilire tante “regole” quante sono le situazioni vissute dalle persone nella loro vita di relazione vuol dire infilarsi in un ginepraio inestricabile, tanto rischioso quanto ingiusto».
Questo passaggio l’ho riletto anche più degli altri. E sulla mia faccia, già stravolta dal caldo, si è disegnato un enorme punto interrogativo. Dunque, sembra di capire, il discernimento (qualunque cosa voglia dire) si regge non sulle regole, ma sull’impegno personale. Ma quale impegno? Di che tipo? Per arrivare dove? Per fare che cosa? Anche qui, nebbia. Eppure la conclusione, di nuovo, è categorica: questo indefinito «impegno personale» è più importante della legge divina, cioè di quanto Dio stesso insegna per il bene della creatura umana.
E che dire dell’affermazione secondo cui, poiché ogni persona vive una sua situazione, pensare di stabilire tante regole quante sono le singole situazioni vorrebbe dire «infilarsi in un ginepraio inestricabile, tanto rischioso quanto ingiusto»?
Ciò che il testo sembra sostenere è che la singola situazione non può essere normata, ma solo osservata attraverso la lente del discernimento. Siamo dunque in quella che si chiama morale della situazione, caratterizzata dal fatto che il giudizio sulle scelte non avviene in base a una verità universale, espressa da una legge, ma in base al modo in cui la singola situazione è vissuta dal soggetto che ne è protagonista. Il che, volendo chiamare le cose con il loro nome, corrisponde al soggettivismo. Non è la legge divina, universale e vincolante, a determinare ciò che è bene e ciò che è male, ma la coscienza del soggetto. Non solo: la legge universale, se applicata, non corrisponde alla giustizia. Al contrario, ci conduce all’ingiustizia.
Questa prima conclusione, dal punto di vista cattolico, è di per sé inaccettabile. Ma non è finita, perché subito dopo leggiamo: «E infatti nell’”Amoris laetitia” il Papa non l’ha fatto». Non ha fatto che cosa? Non si è infilato in quel «ginepraio tanto rischioso quanto ingiusto» che sarebbe la legge divina universale. Ovvero ha abbracciato la morale della situazione, ovvero il soggettivismo, ovvero il relativismo. E questa sarebbe una cosa buona. Se le parole hanno un senso, ecco quanto ci viene spiegato nel foglio «La Domenica» distribuito nelle parrocchie. Ne prendiamo atto. E veniamo al finale.
«Il discernimento personale è più rispettoso, ma anche più impegnativo. La “regola” è più comoda, il discernimento più severo. Dio non pretende da noi un bene in generale, ma quel bene che rappresenta ciò che è meglio per noi in quella determinata situazione, alla luce della nostra vita di relazione. Quindi il “massimo bene possibile”, che si può realizzare solo con il discernimento».
In che senso il discernimento personale sarebbe più rispettoso di quanto lo sia la legge? Più rispettoso, sembra di capire, significa qui più comprensivo. Ma siamo sicuri che mostrandoci più comprensivi siamo più rispettosi? Si è davvero più rispettosi quando si è più tolleranti, più flessibili, meno legati alla verità? O, al contrario, si è più rispettosi quando si prende la legge come punto di riferimento vincolante nella certezza che è stata voluta per il nostro bene?
Quanto all’idea secondo cui la regola sarebbe più comoda, mentre il discernimento sarebbe più severo, ancora una volta viene da chiedersi: che vuol dire? In che senso la regola sarebbe più comoda? Dobbiamo concludere che il buon Dio, con i dieci comandamenti, avrebbe scelto la via della comodità? Sarebbe stato meglio se si fosse scomodato e avesse aggiunto ai comandamenti svariate postille per ogni singolo caso? E che significa che Dio non pretende un bene in generale ma ciò che è meglio per noi in una certa situazione? Vuol dire che il bene oggettivo non esiste, ma esiste solo il bene soggettivo? Ma se non esiste il bene oggettivo, come facciamo a sapere che cosa è bene e che cosa è male in una data situazione? Su che cosa fondiamo la valutazione? Di nuovo, la conclusione a cui arriviamo è che vale solo l’esperienza soggettiva, la quale è buona in sé, al di là di ogni norma e ogni legge universale oggettiva. Ovvero: l’uomo è dio per se stesso. Ovvero: l’uomo non ha bisogno di Dio.
E ora leggiamo le ultime righe: «L’applicazione rigorosa della legge richiama invece il concetto di “minimo male realizzabile”, lo stesso atteggiamento farisaico del tipo “rispetto il sabato e sono tranquillo”. Ma il Vangelo non dice così».
Domanda: perché l’applicazione della legge dovrebbe richiamare il concetto di «minimo male realizzabile»? In che senso? Dunque il buon Dio, donando all’uomo le tavole della legge, aveva in mente non il bene della sua creatura ma il minimo male realizzabile? Dunque la nostra santa madre Chiesa, insegnando la verità e l’applicazione della legge divina, si accontenta del minimo male realizzabile anziché cercare la salvezza di ogni creatura? E perché l’applicazione della legge dovrebbe portare a un comportamento di tipo farisaico? Se per farisaico, come sembra di capire, qui si intende ipocrita, dobbiamo forse concludere che coloro i quali hanno a cuore la verità, e dunque il rispetto della legge universale, vincolante per tutti, sono necessariamente ipocriti e quindi falsi e impostori?
Il testo si conclude in modo perentorio: «Ma il Vangelo non dice così». Davvero? Che cosa dice il Vangelo, cioè Gesù? Non dice forse «quello che Dio ha congiunto l’uomo non lo separi»? Non dice forse «e i due saranno una carne sola»? Non dice forse «va’ e d’ora in poi non peccare più»? Non mette forse in guardia chi «trasgredirà uno solo di questi precetti»? Dice «andate e ammaestrate tutte le genti» o dice «andate e discernete caso per caso»?
Torniamo ora al titolo: «Prima la coscienza, poi le regole». Ripeto: se facciamo della coscienza un assoluto, e non parliamo di coscienza ben formata mediante la Parola e la legge divina vincolata alla verità, finiamo dritti dritti nel soggettivismo. È dunque questo che insegna oggi la nostra santa madre Chiesa?
Un testo come quello che abbiamo ora analizzato potrebbe figurare degnamente nel Bollettino dell’Associazione Soggettivisti Incalliti (tranquilli, non esiste, l’ho inventata adesso, tanto per intenderci), ma trovarmelo di fronte nel foglio «La Domenica», distribuito in migliaia di parrocchie con tanto di nullaosta di un signor vescovo, mi lascia sgomento.
«Prima la coscienza, poi le regole». Letto e riletto, il titolo mi ha rimandato a qualcos’altro. Naturalmente mi è tornata alla mente la «Lettera al Duca di Norfolk» del beato cardinale Newman, nella quale il grande convertito al cattolicesimo sostiene che, dopo un pranzo, in un ipotetico brindisi, volendo introdurre la religione, brinderebbe al papa, ma prima alla coscienza e poi al papa. Tuttavia, come ha spiegato molto bene Joseph Ratzinger commentando il celebre brano, Newman con quella sua espressione non volle certamente spezzare una lancia a favore del soggettivismo. Quando parlava di coscienza, Newman si riferiva alla coscienza illuminata dalla rivelazione e dunque dalla legge divina. La sua non era la via della soggettività che afferma se stessa, ma la via dell’obbedienza alla verità oggettiva, perché (sono ancora parole di Ratzinger) «solo così, attraverso il legame alla verità, a Dio, la coscienza riceve valore, dignità e forza».
Insomma, dire «prima la coscienza, poi le regole» per un cattolico, semplicemente, non ha senso. Perché la coscienza, per non cadere vittima della soggettività autoreferenziale, ha bisogno della verità, dunque della legge, dunque delle regole.
Poi però, dopo aver pensato al Newman spiegato da Ratzinger, mi è tornato alla mente anche il metodo dell’ipnopedia di cui parla Aldous Huxley in «Il mondo nuovo».
Mi direte: che c’entra adesso l’ipnopedia?
L’ipnopedia è una tecnica che consiste nella somministrazione di stimoli uditivi a un soggetto addormentato, così che i concetti trasmessi siano inconsciamente assimilati in profondità. Nel romanzo distopico di Huxley l’ipnopedia è impiegata dal regime politico imperante perché i sudditi possano interiorizzare slogan utili al regime stesso, e naturalmente la ripetizione esclude la spiegazione, perché l’obiettivo è condizionare, non consentire un’adesione razionale.
Ora provate a ripetere in continuazione: «Accogliere, accompagnare, discernere, integrare». Non stancatevi. Lasciate che diventi una sorta di mantra tibetano. Ecco, bravi, così: «Accogliere, accompagnare, discernere, integrare». Non chiedetevi il perché è il percome. Non lasciatevi distrarre dalla questione del significato. Ripetete e basta. Lasciatevi rapire dal suono, così bello, così buono, così politicamente ed ecclesiasticamente corretto. E poi aggiungete: «Prima la coscienza, poi le regole». E ancora, e ancora. Lasciatevi cullare. Non pensate. Liberate la mente. «Accogliere, accompagnare, discernere, integrare. Prima la coscienza, poi le regole». Non fatevi domande. Le domande non servono più. Il significato non ha più importanza. Conta solo il suono.
Fatto? Bene, fratelli. Benvenuti nella Neochiesa.
Aldo Maria Valli
P.S. L’autore della riflessione pubblicata da «La Domenica» è un giornalista, un collega che conosco e stimo. Vorrei rinnovargli amicizia e stima, ma davvero non riesco a capire come possa aver scritto ciò che ha scritto. Abbiamo raggiunto un grado di confusione ormai ben più che preoccupante.