Non so se siete d’accordo, ma trovo che il messaggio di Benedetto XVI in memoria dell’amico Joachim Meisner, oltre a essere bellissimo per semplicità, profondità ed eleganza, contenga alcuni messaggi che Joseph Ratzinger ha voluto comunicarci e la cui portata va ben al di là del ricordo di un pastore tanto apprezzato dal papa emerito.
Nell’esprimere il suo affetto profondo per il cardinale morto il 5 luglio Ratzinger ci invita a riflettere su alcuni punti che ci dicono molto anche di lui, di Benedetto XVI, di come vede la Chiesa oggi, del modo in cui sta vivendo questa fase della sua vita e delle priorità che i fedeli devono avere ben presenti.
Sandro Magister nel suo blog «Settimo cielo» ha pubblicato il testo integrale nella traduzione italiana dall’originale tedesco, e così possiamo gustare il messaggio parola parola.
Leggiamo dunque le parole di Ratzinger e poi evidenziamo alcuni punti.
In questa ora…
In questa ora, in cui la Chiesa di Colonia e i suoi fedeli danno l’addio al cardinale Joachim Meisner, sono con loro con il mio cuore e i miei pensieri e volentieri acconsento alla volontà del cardinale Woelki e indirizzo a loro una parola di riflessione.
Quando ho appreso mercoledì scorso per telefono della morte del cardinale Meisner, in un primo momento non ci ho creduto. Il giorno prima avevamo parlato al telefono. La sua voce era piena di gratitudine perché era giunto per lui il momento delle vacanze, dopo che era stato presente, la domenica precedente, a Vilnius, alla beatificazione del vescovo Teofilius Matulionis [1873 – 1962, arcivescovo cattolico lituano, vittima delle persecuzioni anticristiane nell’Unione Sovietica, fu prigioniero a più riprese nei gulag staliniani, anche nelle Isole Solovki e in Siberia, ndr]. Il suo grande amore per le vicine Chiese dell’Est che avevano tanto sofferto la persecuzione sotto il comunismo, così come la sua gratitudine per la loro resistenza alla sofferenza in quel tempo avevano impresso in lui una durevole impronta. Quindi non è stato certamente un caso che l’ultima visita della sua vita sia stata fatta a un confessore della fede.
Quello che mi ha più colpito nell’ultima conversazione con il cardinale, ora tornato a casa, è stata la sua naturale serenità, la sua pace interiore e la fiducia che aveva trovato. Sappiamo che è stato duro per lui, appassionato pastore e guida di anime, lasciare il suo ufficio, e proprio in un momento in cui la Chiesa aveva un urgente bisogno di pastori capaci di opporsi alla dittatura dello spirito del tempo e pienamente risoluti ad agire e pensare da un punto di vista di fede. Ma mi ha ancor più impressionato che nell’ultimo periodo della sua vita egli abbia imparato a lasciar procedere le cose, e a vivere sempre più con la certezza profonda che il Signore non abbandona la sua Chiesa, anche se a volte la barca è quasi sul punto di naufragare.
Ci sono state due cose in quest’ultimo periodo che lo hanno reso sempre più felice e sicuro. La prima è quella che mi ha detto più volte: che ciò che lo riempiva di gioia profonda era la percezione, nel sacramento della penitenza, di quanto i giovani, soprattutto i giovani maschi, sperimentino la misericordia del perdono, il dono di aver veramente trovato la vita che solo Dio può dare loro.
L’altra cosa che lo ha tante volte commosso e reso felice è stata la percepibile crescita dell’adorazione eucaristica. È stato questo per lui il tema centrale della Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia: che vi è stata un’adorazione, un silenzio, in cui solo il Signore parlava ai cuori. Alcuni esperti di pastorale e di liturgia erano dell’opinione che un simile silenzio nella contemplazione del Signore con un così gran numero di persone non poteva reggere. Alcuni di essi erano anche del parere che l’adorazione eucaristica fosse superata in quanto tale, poiché il Signore ha voluto essere ricevuto e non guardato nel Pane eucaristico. Ma il fatto che non si può mangiare questo Pane come qualsiasi altro nutrimento e che «ricevere» il Signore nel sacramento eucaristico include tutte le dimensioni della nostra esistenza fa sì che questo ricevere deve essere adorazione, e ciò è qualcosa che diventa di giorno in giorno sempre più chiaro. Così il tempo dell’adorazione eucaristica nella Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia è diventato un evento interiore che è rimasto indimenticabile, e non solo per il cardinale. Da allora, quel momento è stato sempre per lui costantemente presente nell’intimo ed è stata per lui una grande luce.
Quando l’ultima mattina il cardinale Meisner non si è presentato per la messa, è stato trovato morto nella sua stanza. Il breviario era sfuggito dalle sue mani: era morto mentre pregava, con lo sguardo al Signore, in conversazione con il Signore. Il tipo di morte che gli è stato dato ha dimostrato ancora una volta come egli ha vissuto: con il suo volto rivolto al Signore e in conversazione con Lui. Così possiamo fiduciosamente affidare la sua anima alla bontà di Dio.
Signore, grazie per la testimonianza del tuo servo Joachim! Fa’ che egli ora interceda per la Chiesa di Colonia e per tutto il mondo. «Requiescat in pace!».
Ecco, credo che in questo messaggio Benedetto XVI ci dica molto si sé, così come delle sue preoccupazioni e delle sue speranze per la fede e la Chiesa. Ogni parola andrebbe analizzata, ma mi limito ai concetti che mi hanno colpito di più.
A un certo punto Joseph Ratzinger dice che «non è stato certamente un caso» che l’ultima visita di Meisner «sia stata fatta a un confessore della fede».
Confessare la fede, specie nei momenti più difficili, quando tutto sembra perduto: qui c’è un mandato. Se non è possibile con le parole e con i gesti, se le circostanze impediscono una professione pubblica, la vita stessa di una persona, con la sua fedeltà e la sua coerenza, può diventare confessione. Specie in un’epoca come la nostra, segnata da un processo di secolarizzazione che interessa la Chiesa stessa, è la testimonianza quella che conta, e occorre che i fedeli facciano attenzione ai segni che Dio invia agli uomini attraverso i testimoni della fede.
Ricordo che, a questo proposito, in «Gesù di Nazaret» Benedetto XVI parla dei «deboli segnali che Dio manda nel mondo e che in questo modo rompono la dittatura della consuetudine». Sono segnali che vanno non solo recepiti, ma anche cercati, e per far questo occorre mantenere viva la sensibilità adatta. Le persone in grado di cogliere i deboli segnali di Dio, scrive Benedetto XVI nel libro, «scrutano attorno a sé alla ricerca di ciò che è grande, della vera giustizia, del vero bene», sono persone «che non si accontentano della realtà esistente e non soffocano l’inquietudine del cuore, quell’inquietudine che rimanda l’uomo a qualcosa di più grande e lo spinge a intraprendere un cammino interiore».
Un secondo punto importante si trova là dove Ratzinger, parlando di Meisner, ne sottolinea la «naturale serenità, la sua pace interiore e la fiducia che aveva trovato» nella vecchiaia. Una serenità, una pace e una fiducia che certamente anche Benedetto XVI ha cercato dopo la rinuncia al pontificato ma forse, per tanti motivi, non ha ancora pienamente raggiunto. È un tesoro al quale il papa emerito guarda con tanto desiderio e continua a cercare nella preghiera, nella vicinanza al Signore e con il contributo di persone amiche.
E qui, collegato al precedente, c’è un terzo punto importante. È chiaro che quando Ratzinger parla dei pastori «capaci di opporsi alla dittatura dello spirito del tempo e pienamente risoluti ad agire e pensare da un punto di vista di fede» ha in mente anche a se stesso e la sua esperienza di pastore supremo. Senza voler forzare il pensiero di Benedetto XVI, sembra quasi affiorare una domanda: sarò stato capace di svolgere questo compito? Sarò stato sufficientemente risoluto in un tempo in cui la Chiesa ha così tanto bisogno di autentici pastori? E la mia scelta di rinunciare al soglio di Pietro sarà stata utile sotto questo profilo?
Subito dopo, la figura dello stesso Ratzinger emerge con chiarezza. Quando Benedetto XVI si dice impressionato dall’amico che nell’ultimo periodo della sua vita ha imparato «a lasciar procedere le cose, e a vivere sempre più con la certezza profonda che il Signore non abbandona la sua Chiesa, anche se a volte la barca è quasi sul punto di naufragare», lì , sia pure in controluce, vediamo Benedetto XVI, e lo vediamo proprio nel momento al tempo stesso drammatico e liberatorio della rinuncia, una scelta fatta con totale fiducia nel Signore che non abbandona la Chiesa, anche se il disastro, da un punto di vista umano, sembra così vicino.
Il riferimento alla barca rimanda direttamente alle parole pronunciate da Joseph Ratzinger il 18 aprile 2005, nella «Missa pro eligendo romano pontifice», in quello che, alla vigilia del conclave, risulterà quasi il «manifesto elettorale» del futuro papa: «Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero… La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde, gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie».
La barca è squassata dalle onde, sembra alla deriva, ma il Signore non permette il naufragio e non manda mai una prova senza donare la forza per affrontarla. Proprio quando il naufragio appare più vicino bisogna alzare bene le antenne, alla ricerca di quei «deboli segnali» che Dio non si stanca di inviare, e questo è dovere di tutti, consacrati e laici, e tutti devono aiutarsi nel diventare come «radioamatori» dell’anima, capaci di mettersi sulla lunghezza d’onda di Dio.
E ora veniamo all’adorazione eucaristica. Nella Gmg del 2005 io ero a Colonia come cronista e ricordo bene quella sera: l’adorazione eucaristica da parte di centinaia di migliaia di giovani radunati per la veglia nella spianata di Marienfeld fu un fatto senza precedenti. Il silenzio fu totale, il raccoglimento assoluto. Quei ragazzi e quelle ragazze lanciarono un messaggio potente. Inginocchiati, in preghiera, dimostrarono nel modo più efficace che l’adorazione eucaristica non è qualcosa di superato, ma sta nel cuore dell’esperienza di fede e smentirono i presunti esperti di liturgia e di pastorale secondo i quali l’esperimento sarebbe fallito.
Ma perché Benedetto XVI, rievocando quella veglia di preghiera con i giovani a Colonia, a proposito dell’Eucaristia tiene a sottolineare che «non si può mangiare questo Pane come qualsiasi altro nutrimento», che «”ricevere” il Signore nel sacramento eucaristico include tutte le dimensioni della nostra esistenza» e che «questo ricevere deve essere adorazione, e ciò è qualcosa che diventa di giorno in giorno sempre più chiaro»?
Queste annotazioni, sintetiche ma precise, sono a loro volta segnali che Benedetto XVI sta mandando. E ci ricordano un altro intervento di Joseph Ratzinger. Mi riferisco al breve discorso a braccio tenuto il 28 giugno dell’anno scorso, in occasione del sessantacinquesimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale. Quel giorno non era previsto che, dopo le parole di Francesco, parlasse anche Benedetto, ma il papa emerito (che per la prima volta tornava nel palazzo apostolico dopo la rinuncia) parlò e un certo punto propose una riflessione incentrata, anche lì, sull’Eucaristia. Ricordando la parola che un amico ordinato lo stesso giorno (si chiamava Berger) volle sull’immaginetta commemorativa, «Eucharistomen», disse: «”Eucharistomen”: in quel momento l’amico Berger voleva accennare non solo alla dimensione del ringraziamento umano, ma naturalmente alla parola più profonda che si nasconde, che appare nella liturgia, nella Scrittura, nelle parole “gratias agens benedixit fregit deditque”. “Eucharistomen” ci rimanda a quella realtà di ringraziamento, a quella nuova dimensione che Cristo ha dato. Lui ha trasformato in ringraziamento, e così in benedizione, la croce, la sofferenza, tutto il male del mondo. E così fondamentalmente ha transustanziato la vita e il mondo e ci ha dato e ci dà ogni giorno il Pane della vera vita, che supera il mondo grazie alla forza del Suo amore. Alla fine, vogliamo inserirci in questo “grazie” del Signore, e così ricevere realmente la novità della vita e aiutare per la transustanziazione del mondo: che sia un mondo non di morte, ma di vita; un mondo nel quale l’amore ha vinto la morte».
Mi sono sempre chiesto perché quel giorno, con tanta precisione, Benedetto XVI volle puntare sull’Eucaristia e sulla transustanziazione. E adesso, nel messaggio per l’amico Meisner, ecco di nuovo un riferimento al Pane eucaristico che «non si può mangiare come qualsiasi altro nutrimento» e di fronte al quale non si può rinunciare all’adorazione. Un’insistenza che non può essere casuale.
Ho visto che alcuni commentatori, non senza malizia, si sono chiesti se il messaggio in memoria di Meisner è stato scritto proprio da Benedetto XVI. Per quanto mi riguarda, non solo sono del tutto sicuro che sia farina del suo sacco, ma credo che sia molto importante interrogarci sui segnali che Ratzinger ha voluto mandarci.
Aldo Maria Valli