«Per due anni un gruppo di personalità religiose di ogni credo (preti cattolici, pastori protestanti, rabbini ebrei e bonzi buddisti) ha accettato di assumere sostanze stupefacenti per permettere ai ricercatori americani di stare a vedere quel che succede nel loro cervello».
Si apre così l’articolo di Rino Camilleri «Fede allucinante: LSD testato su personalità religiose» pubblicato qualche giorno fa da «La Nuova Bussola Quotidiana».
La notizia arriva, com’era prevedibile, dagli Stati Uniti e parla di una ricerca condotta da due atenei: la John Hopkins University e la New York University.
«L’autore di cotanta trovata – annota Camilleri – è lo psicologo William Richards e le “cavie” sono una trentina». A loro viene somministrata soprattutto psilocibina, sostanza psichedelica, presente in alcuni funghi, che può essere usata per curare disturbi della personalità ma può anche provocare allucinazioni.
Non so niente di psilocibina e affini, ma, mi chiedo, perché somministrarla a esponenti religiosi?
Il motivo non è chiaro. Al «Washington Post» il professor Richards si è limitato a esporre la metodologia: si prende il religioso, gli si chiede di chiudere gli occhi, gli si somministra la sostanza e si aspetta per vedere l’effetto che fa. Risultato? «Con gli occhi chiusi queste persone vedono immagini meravigliose, incluse visioni di Gesù, apparentemente non legate o indotte da studi particolari, ma a qualcosa di geneticamente impresso».
Commento che viene spontaneo al profano: e allora?
Ma sentiamo il professor Richards: «Esistono esperienze sacre, eterne, che gli esseri umani sono capaci di avere». E poi: «Una delle intuizioni riportate più comunemente da questi preti, pastori e rabbini è quella di una interconnessione profonda tra tutti gli esseri umani».
Con tutto il rispetto, non mi sembra questa gran scoperta. Per arrivarci c’era proprio bisogno di tirare in ballo la psilocibina e scomodare preti, rabbini, pastori e bonzi?
Comunque sia, la notizia mi ha fatto tornare alla mente un capitolo di quel piccolo capolavoro che secondo me è «Roma senza papa», di Guido Morselli (1912 – 1973), romanzo terminato nel 1966 e uscito postumo nel 1974, nel quale si immagina una Roma a ridosso dell’anno duemila, senza papa perché il pontefice Giovanni XXIV (un monaco irlandese, venuto dopo Paolo VI e dopo il libanese maronita Liberio I) per chissà quali motivi (povertà, penitenza, timidezza, paura?) ha deciso di vivere in una villetta a schiera a Zagarolo, per cui la basilica di San Pietro è ormai soltanto una sorta di mausoleo, dove i turisti, grazie a una tecnologia d’avanguardia, due volte al giorno, alle 12 e alle 18, possono ascoltare Paolo VI, ma non solo: con la tecnologia «touch», infatti, «quella mano è afferrabile, baciabile».
Il protagonista del romanzo è un prete cattolico, Walter, svizzero e sposato con Lotte (Morselli immagina che l’obbligo del celibato sia ormai caduto), il quale, in attesa di essere ricevuto dal papa, si aggira per qualche tempo in una Roma accaldata, confusa e allo stesso tempo indolente, una città che se da un lato sembra rassegnata a non avere più il papa, dall’altro è inquieta e risentita, come «una femmina senza marito».
Ebbene, in questo contesto di cambiamenti e di incertezze indotte sia da un difficile confronto con la modernità sia da tante domande senza risposta riguardanti il papa (perché se n’è andato? Perché il rifiuto di vivere nel palazzo apostolico in Vaticano? Perché la scelta di non mostrarsi in pubblico? Perché parla pochissimo? Che cosa starà preparando? Oppure, semplicemente, non ha niente da dire?), i gesuiti della Gregoriana appaiono tra i più inquieti. Come dimostra la questione del GR6.
Mi spiego subito. Un giorno il nostro protagonista va alla «Gregoria», come la chiamano gli studenti, per capire perché il suo diacono (tale Hans Altdorfer, ventisei anni, di Wassen, cantone di Uri) sia stato allontanato dal corso che frequentava e proposto per una sospensione. E che cosa scopre? Che il buon Hans è stato denunciato per non aver assunto GR6, un allucinogeno che alla «Gregoria» prendono un po’ tutti dopo che la rivista dei gesuiti francesi «Études», confortata dalla «Civiltà Cattolica», ha sentenziato che se l’Occidente trae vantaggio dalla pratica psichedelica un motivo ci dev’essere e, siccome «le vie del progresso coincidono con quelle della Provvidenza», è «inutile e dannoso tirarsi da parte, per poi accodarsi ultimi». Quindi, sì al GR6.
D’altra parte, «la Chiesa volta a volta si è messa contro l’uso del tabacco, la vaccinazione, il parto indolore, gli anticoncettivi, l’eutanasia, e alla fine ha dovuto approvare tutto. Incanalare i fenomeni sociali, non ignorarli o combatterli, questa è sapienza cristiana: non l’odium theologicum o l’intransigenza velleitaria».
Siamo realisti: «Spesso – scrive la “Civiltà Cattolica” in quell’immaginario 199… – le cose sono dannose perché sono proibite, non sono proibite perché sono dannose».
E poi, riflette Walter, di che cosa si deve aver paura? Non è forse vero che «l’Oriente, dove l’oppio e la canapa indiana fanno parte dell’alimentazione comune da duemila anni, possiede pure quel profondo senso del divino che in Occidente abbiamo perso da un pezzo, con tutte le nostre inibizioni, i nostri tabù igienici»?
E teniamo conto del fatto, continua il prete svizzero partorito dalla fantasia di Morselli, che in Inghilterra, dove il sessanta per cento della popolazione mette GR6 nelle sigarette al posto della nicotina, «c’è un diffuso revival della fede» e «il cattolicesimo ne è il primo beneficiario». Indi per cui «il liberalismo dei gesuiti potrebbe essere la politica più opportuna».
E però, però…
Come conciliare la «Summa» e il GR6? E come sopportare che le mani che aprono il tabernacolo siano le stesse usate per assumere l’allucinogeno?
Il nostro prete è pieno di dubbi. Le gesuitiche riflessioni proposte da riviste tanto prestigiose lo inducono ad accettare l’aggiornamento, ma in lui albergano remore radicate. Tanto più che va bene tutto, ma i frati del convento dei Minori Osservanti di Riefenbach, in Baviera, devono proprio fabbricare e vendere, a quintali, compresse effervescenti di GR6 a vantaggio della loro clinica di malattie mentali? I bravi frati «non potevano seguitare col loro liquore al cardamomo, famoso come l’Arquebuse dei padri maristi o la Bénédictine di Fécamp»? E che dire dei monaci di St. Michel in Bretagna, che iniziano i loro novizi con dosi progressive di LSD? Non sembra forse lecito il dubbio che «questa prassi sia priva di effetti secondari, specie di ordine morale»?
«Insomma – conclude perplesso il nostro Walter – trovo che il problema abbia ancora lati oscuri. L’atteggiamento del mio chierico Altdorfer, che si rifiuta di riconoscersi un adepto fra i tanti, non mi pare poi così strano».
Con le citazioni da «Roma senza papa» andrei avanti per pagine e pagine, tale è il fascino malizioso che il romanzo esercita sul sottoscritto grazie alle sue profezie, queste sì, stupefacenti (e non solo ai proposito dei gesuiti). Ma chiudo qui. E naturalmente mi guardo bene dal rivelare se Walter riuscirà a farsi ricevere dal papa a Zagarolo e che cosa trarrà dall’udienza.
Aldo Maria Valli