Da dove viene l’idea di popolo, così centrale nella visione politica, sociale ed economica di papa Francesco?
Visto che il concetto continua ad avere un ruolo importante nel pensiero di Bergoglio e ad essere al centro di commenti (fra l’altro domani, 5 ottobre, il quotidiano «Il Manifesto» pubblicherà un libro, «Terra, casa, lavoro», con i tre discorsi di Francesco ai movimenti popolari), rispondere alla domanda, o almeno provarci, può aiutare a capire meglio il retroterra culturale dell’attuale successore di Pietro.
Nel libro-intervista con Dominique Wolton «Politique et société. Un dialogue inédit», uscito in Francia ai primi di settembre (e del quale da noi si è parlato soprattutto perché Bergoglio ha rivelato al sociologo francese di essere stato seguito per qualche tempo, quando aveva quarantadue anni, da una psicanalista ebrea) il papa fa per la prima volta il nome dell’uomo che gli ha ispirato la sua concezione di «popolo».
Dice infatti, rivolto a Wolton: «C’è un pensatore che lei dovrebbe leggere: Rodolfo Kusch, un tedesco che viveva nel nordovest dell’Argentina, un bravissimo filosofo e antropologo. Lui ha fatto capire una cosa: che la parola “popolo” non è una parola logica. È una parola mitica. Non si può parlare di popolo logicamente, perché sarebbe fare unicamente una descrizione. Per capire un popolo, capire quali sono i valori di questo popolo, bisogna entrare nello spirito, nel cuore, nel lavoro, nella storia e nel mito della sua tradizione. Questo punto è veramente alla base della teologia detta “del popolo”. Vale a dire andare con il popolo, vedere come si esprime. Questa distinzione è importante. Il popolo non è una categoria logica, è una categoria mitica».
Poco oltre Francesco torna sull’argomento e ribadisce: «L’ho detto e lo ripeto: la parola “popolo” non è un concetto logico, è un concetto mitico. Non mistico, ma mitico. […] Una volta avevo detto “mitico” e all’”Osservatore Romano” si sono involontariamente sbagliati nella traduzione, parlando di “popolo mistico”. E sapete perché? Perché non hanno capito ciò che significa il popolo mitico. Si sono detti: No, è il papa che si è sbagliato, mettiamo “mistico”!».
L’errore in cui è incorso il giornale vaticano (in effetti Francesco, di ritorno dal Messico, nel febbraio 2016, disse proprio che «la parola “popolo” non è una categoria logica, è una categoria mitica») evidentemente provocò non poca irritazione nel papa, che anche nell’intervista del successivo luglio ad Antonio Spadaro, direttore della «Civiltà Cattolica», sottolineò: «C’è una parola molto maltrattata: si parla tanto di populismo, di politica populista, di programma populista. Ma questo è un errore. Popolo non è una categoria logica, né è una categoria mistica, se la intendiamo nel senso che tutto quello che fa il popolo sia buono o nel senso che il popolo sia una categoria angelicata. No! È una categoria mitica, semmai. Ripeto: mitica. Popolo è una categoria storica e mitica. Il popolo si fa in un processo, con l’impegno in vista di un obiettivo o un progetto comune. La storia è costruita da questo processo di generazioni che si succedono dentro un popolo. Ci vuole un mito per capire il popolo. Quando spieghi che cos’è un popolo usi categorie logiche perché lo devi spiegare: ci vogliono, certo. Ma non spieghi così il senso dell’appartenenza al popolo. La parola popolo ha qualcosa di più che non può essere spiegato in maniera logica. Essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi: è un processo lento, difficile, verso un progetto comune».
L’errore dell’«Osservatore Romano» ha innervosito il papa ma, in un certo senso, è stato provvidenziale, perché ha permesso a noi di entrare un po’ meglio nel pensiero di Francesco, ed ora, grazie al libro di Wolton, sappiamo anche chi c’è all’origine del popolo come categoria mitica.
Poco noto in Europa, Rodolfo Kusch (1922-1979), antropologo, filosofo e autore di opere teatrali, studiò Heidegger e distinse tra l’«essere» e lo «stare». Nel primo verbo, spiegò, si riassume la visione razionalista, tipica dell’uomo occidentale, nel secondo quella dei popoli indigeni latinoamericani. Se l’«essere» inteso all’occidentale porta a una concezione del mondo eurocentrica e tendenzialmente intollerante, lo «stare» dei latinomaericani si esprime in una cultura, meglio ancora in una «geocultura», caratterizzata dal meticciato. Esponente della filosofia della liberazione, Kusch studiò dunque il meticciato latinoamericano come autentica manifestazione della cultura del continente, la cui virtù sta essenzialmente nell’apertura all’ibridazione. Ecco così che l’incontro con l’altro non è più un rischio da evitare, ma una possibilità di arricchimento che va accolta di momento in momento, senza mai puntare a un’impossibile stabilità assoluta. Di qui un’idea dialogica dell’umanità e di ogni singolo uomo come dialogo vivente tra molteplici diversità. E di qui anche l’idea secondo cui la pretesa di eliminare alcune delle radici a vantaggio di altre, come è successo storicamente in Sudamerica, porta soltanto a una lacerazione dolorosa per tutti.
Nel libro-intervista Francesco non dice fino a che punto e in quale misura ha accolto la lezione di Kusch, ma certamente la mitizzazione del popolo è figlia di quella filosofia.
Si spiega anche così l’attenzione e l’ammirazione di Francesco per i «movimenti popolari», incontrati la prima volta a Roma nel 2014, la seconda in Bolivia, a Santa Cruz de la Sierra, nel 2015, e la terza di nuovo a Roma il 5 novembre 2016. In ciascuna di queste occasioni il papa ha tenuto discorsi insolitamente lunghi per le sue abitudini, esortando i movimenti a scendere in politica per «rifondare e rivitalizzare» i sistemi democratici in crisi.
Anticapitalisti e antioccidentali, i movimenti cari a Francesco raccolgono gli esclusi, gli emarginati, tutti coloro che, secondo Bergoglio, sono vittime della «cultura dello scarto» alimentata, nelle democrazie liberali e liberiste, dalla ricerca del profitto.
D’accordo con questa visione del papa è l’arcivescovo argentino Marcelo Sanchez Sorondo, responsabile della Pontificia accademia delle scienze e della Pontificia accademia delle scienze sociali, così come il generale dei gesuiti, il venezuelano Arturo Sosa Abascal, già docente di scienze politiche, in gioventù apertamente marxista e poi sostenitore di Hugo Chávez.
Ma nell’attenzione che il papa riserva al popolo quanto c’è di peronismo e quanto di populismo?
A queste domande ha cercato di dare risposta il professor Loris Zanatta, studioso dell’America Latina e coordinatore del corso di laurea magistrale in Scienze internazionali e diplomatiche all’Università di Bologna, nonché autore del libro «La nazione cattolica. Chiesa e dittatura nell’Argentina di Bergoglio (Laterza, 2014), testo importante per capire Francesco, il quale («Un papa peronista?», in «il Mulino», n. 2/2016) non ha nascosto di scorgere in Bergoglio chiari sintomi di peronismo.
Secondo Zanatta, il papa sarebbe peronista «nel senso che il peronismo è il movimento che sancì il trionfo dell’Argentina cattolica su quella liberale, che salvò i valori cristiani del popolo dal cosmopolitismo delle élite. Il peronismo incarna perciò per Bergoglio la salutare coniugazione tra popolo e nazione a difesa di un ordine temporale basato sui valori cristiani e immune da quel […] liberalismo protestante, il cui ethos si proietta come un’ombra coloniale sull’identità cattolica dell’America Latina». E positiva, sempre per Zanatta, è anche la risposta da dare sul populismo di Bergoglio. Il papa è populista nel senso che «il suo popolo è buono, virtuoso, e la povertà gli conferisce un’innata superiorità morale». Infatti, «è nei quartieri popolari, dice il papa, che si conservano saggezza, solidarietà, valori del Vangelo. Lì sta la società cristiana, il deposito della fede. Di più: quel “pueblo” non è per lui una somma di individui, ma una comunità che li trascende, un organismo vivente animato da una fede antica, naturale, dove l’individuo si scioglie nel tutto. Come tale, quel “pueblo” è il popolo eletto che custodisce un’identità in pericolo
Il dibattito in proposito è aperto. Appare sufficientemente chiaro comunque che la nozione di popolo in Bergoglio è romantica, tanto che il papa tende a scorgere nel «pueblo» una superiorità morale e culturale.
Da questo punto di vista, sostiene Zanatta, si può parlare di visione manichea: da una parte il popolo, sempre buono e comunque virtuoso, dall’altra le oligarchie ingiuste e sfruttatrici. Una semplificazione che, secondo il professore, è tipica dei populismi, i quali hanno sempre bisogno di un nemico esterno per dare ragione di se stessi.
Alcuni osservatori sostengono che Francesco non sarebbe completamente contro il mercato e il capitalismo, ma soltanto contro le sue degenerazioni. In ogni caso le accuse che rivolge al sistema capitalista sono forti, perché tale sistema non ha, per lui, soltanto la colpa di depredare il popolo. Colpa ancora più grave è quella di corromperlo, prosciugando le sue virtù. Un’accusa, dice Zanatta, che affonda le sue radici nell’antiliberalismo cattolico argentino, che pur di osteggiare il capitalismo arrivò a simpatizzare per fascismo e comunismo e ora, orfano di ideologie, abbraccia la causa «no global».
Del tutto estraneo a Bergoglio, osserva Zanatta, è quell’altro cattolicesimo, quello liberale, attento alla laicità della politica, ai diritti dell’individuo, alla proprietà privata, alle libertà economiche e sociali.
La «famiglia» politica di Francesco sarebbe dunque nazional-popolare, e sarebbe al suo interno che il papa cerca di rinverdire il mito del «pueblo». Sebbene nelle società odierne, sempre più articolate, plurali e cosmopolite, sembri davvero difficile poter trovare riscontro reale a un’idea di popolo come custode di antiche virtù.
Aldo Maria Valli