Quando don Giacomo Biffi, da parroco, combatteva per la Verità
«Non mi era mai capitato di andare a Legnano, neanche occasionalmente». È il 1960 e don Giacomo, trentadue anni, scrive così all’inizio della nuova esperienza che gli cambia la vita: non più docente di teologia al seminario di Venegono, ma parroco, appunto, a Legnano, nella parrocchia dei Santi Martiri. Ci resterà fino al 1969, e basta citare le date per capire di quali anni stiamo parlando: il Concilio Vaticano II, la contestazione giovanile, il Sessantotto, le tensioni anche all’interno della Chiesa, l’inizio della strategia della tensione, la strage di piazza Fontana. Per un parroco, che oltretutto aveva sempre pensato a se stesso non come a un pastore d’anime ma come a un docente, vuol dire affrontare una tempesta. Ma don Giacomo non si perde mai d’animo e anzi, insieme agli innegabili problemi, riesce a vedere i lati positivi della situazione, a partire dalla fede semplice ma radicata delle persone. Poi, nel 1969, un nuovo cambiamento: da Legnano a Milano, parrocchia di Sant’Andrea, dove resterà fino al 1975. Da una cittadina alla grande metropoli, da una parrocchia un po’ periferica a una storica parrocchia ambrosiana, la cui chiesa è stata consacrata dal grande cardinale Ferrari. Anche in questo caso, basta guardare le date per capire in quali frangenti don Giacomo si trova a guidare il suo gregge. Li definisce «anni inquieti». Lo sono ben oltre le previsioni e li descrive così: «Il subbuglio ideologico, morale, ecclesiastico, sociale di quegli anni – senza precedenti nella storia di Milano e dell’Italia – arrivò inatteso, almeno per me. Credo sia arrivato inatteso anche per quelli (alla scuola rasserenante di Giovanni XXIII e soprattutto a partire dal tempo del Concilio) si erano specializzati nel leggere con qualche disinvoltura i “segni dei tempi”».
Eh sì, tutto cambia in quegli anni, e il disorientamento è tanto, anche nella Chiesa. La parola dominante è «contestazione». È contestato il prete, è contestato il vescovo, è contestato il papa, Paolo VI, già arcivescovo di Milano. È contestata la teologia tradizionale. E l’altra parola dominante è «crisi». Poiché tutto è contestato e contestabile, tutto entra in crisi. Niente più certezze, niente più fondamenti sicuri.
Don Giacomo, che non rinuncia mai al piccolo lusso dell’ironia, cerca di controbattere con finezza. E quando un giovane, «particolarmente acceso e intemperante», attacca ferocemente il l’arcivescovo Giovanni Colombo, replica: «Perché invece di deplorare e di indignarti per il fatto che ci sono vescovi che, secondo te, sono asini, non lodi il Signore e non gioisci per il fatto che ci sono asini che sono vescovi? Dio è grande e riesce a coinvolgere tutti nel suo disegno di salvezza».
Ma don Giacomo è preoccupato e l’arguzia, davanti allo sfacelo, non basta più. Lui stesso riconosce che frasi ironiche ed espressioni pungenti servono a poco mentre tutto sta crollando. Occorre uscire allo scoperto a difesa del vescovo, del papa e dell’unità della Chiesa. E lui lo fa ogni giorno. È un combattente e non accetta la demagogia imperante, l’adesione acritica alle idee dominanti. Con Maritain, si rende conto che il modernismo di inizio secolo è paragonabile a un raffreddore rispetto alla febbre contagiosa che si è diffusa nella Chiesa degli anni Sessanta e Settanta.
Ma eccoci a un’altra svolta. Nel 1975 arriva la nomina a vescovo ausiliare. Incomincia una nuova esperienza, una nuova vita. Dura nove anni, fino al 1984, quando Giovanni Paolo II gli affida la responsabilità della diocesi di Bologna e poi, nel 1985, gli assegna la porpora.
Il don Giacomo di cui stiamo parlando è infatti il cardinale Giacomo Biffi, che morirà a Bologna nel 2015, a ottantasette anni, e le notizie riportate sono tratte da un bel libro, «Cose nuove e cose antiche. Scritti 1967-1975», che ripercorre gli anni meno noti della sua esperienza umana, spirituale e pastorale, quelli appunto vissuti a Legnano e a Milano come parroco.
Il libro, edito da Cantagalli, curato da Samuele Pinna e Davide Riserbato e introdotto da monsignor Dario Edoardo Viganò, è a tutti gli effetti un testo di storia. Storia vista dal basso, dalla prospettiva della vita di tutti i giorni. Ed è prezioso per capire che cos’era la Chiesa prima del Concilio, come cambiò in quel periodo e a quali sommovimenti andò incontro.
Biffi, autore di best seller come «Contro Maestro Ciliegia», «Peppone, Pinocchio, l’Anticristo e altre divagazioni», «Il quinto evangelo» e «Memorie e digressioni di un italiano cardinale», scrive benissimo, con una nitidezza che non viene mai meno. Tanti gli spunti di riflessione offerti dalle sue memorie di parroco, ma qui vorrei concentrarmi su una parola alla quale il cardinale dedica particolare attenzione. Perché è una parola che anche oggi va per la maggiore: pastorale.
Nel capitolo «Meditazione sull’aggettivo “pastorale”» Biffi parte da una premessa la cui attualità mi ha colpito moltissimo. Sentite: «Viviamo un’epoca ecclesiale profondamente segnata dall’ambiguità. I termini “chiesa”, “fede”, “amore”, “preghiera”, “sacerdozio”, “mondo”, “dialogo” eccetera non vengono usati tra i cristiani nello stesso senso».
Quando Biffi scrive è il 1974. Sta vivendo l’ultima parte della sua esperienza di parroco a Milano. Squassata dalle diverse interpretazioni del Concilio e dalle tensioni sociali e politiche che inevitabilmente la coinvolgono, la Chiesa è più che mai divisa e il futuro vescovo e cardinale punta giustamente l’attenzione sul linguaggio, che è insieme lo strumento e il risultato della divisione.
Sempre incline a vedere il bene anche nelle situazioni apparentemente più disperate, Biffi si chiede se l’ambiguità non sia il prezzo da pagare, o una forma di carità evangelica, per poter continuare a ritenerci membri della stessa Chiesa, senza arrivare a separazioni drammatiche. Tuttavia, notando che l’ambiguità si può trovare non solo all’interno dello stesso organismo ecclesiale ma addirittura «nel comportamento della stessa persona, nello stesso scritto, nello stesso discorso», denuncia quello che definisce «un diffuso orrore delle certezze», tanto che è ormai diventato obbligatorio presentarsi al mondo non con le risposte, ma «ammantati di problematica e accompagnati da interrogativi».
Sono passati più di quarant’anni, eppure sembra che Biffi parli di noi, della nostra situazione attuale, della nostra Chiesa, nella quale l’ambiguità è penetrata ormai alla grande ed è abilmente coltivata ogni volta che i detentori dell’autorità, muovendosi secondo criteri politici e non evangelici, cercano di piacere al mondo sganciando la misericordia e la carità dall’imprescindibile legame con la verità.
«Io credo – scrive Biffi – che l’ambiguità non sia un valore; che la carità debba sempre nascere dalla verità ed esserne costantemente alimentata».
Una delle parole più soggette a un uso ambiguo è proprio «pastorale», e Biffi è chirurgico nell’esaminare l’immagine del pastore. Un’immagine, dice, che nelle Scritture e nella vita della Chiesa subisce un progressivo scivolamento. Il pastore è certamente Dio, ma poi lo è anche Gesù, e poi lo diventano i Dodici, e poi ancora i presbiteri. Il compito pastorale si allarga quindi all’insegna della corresponsabilità, il che significa che nessuno può considerarsi pastore in proprio, ma tutti quelli che lo sono riflettono la pastoralità del Cristo e del Padre.
Il punto è che il ministero pastorale «non deriva assolutamente dal gregge, ma discende costituzionalmente dall’alto». La sua legittimazione non ha origine dal basso, ma dall’autorità e, dunque, dalla verità della quale l’autorità è depositaria e custode. Ne consegue che chi esercita l’autorità pastorale deve verificare quotidianamente la sua consonanza non con la base, non con il popolo, ma con il capo dei pastori.
E qui Biffi introduce un’altra riflessione che ribalta i luoghi comuni dominanti. Si dice spesso che nella Chiesa mancano i pastori, ma «tra i gravi problemi della cristianità odierna non c’è solo la scarsità di pastori, c’è anche (ed è ancora più drammatica) la mancanza di persone che si riconoscano evangelicamente pecore».
L’azione pastorale ha un solo obiettivo: non la consolazione, non il conforto, ma la salvezza eterna. L’azione pastorale è tale quando ha come punto di riferimento Gesù. E Gesù, per ottenere la salvezza, propone un passo decisivo e non aggirabile: la metànoia, la conversione. Se è vero che nessun problema umano è estraneo all’attenzione pastorale, è altrettanto vero che la risposta ai problemi dell’uomo è la conversione.
Molti altri sarebbero i passi da citare. Mi limito a quello che conclude il capitolo sulla pastorale: «Questa nostra riflessione ci ha portato a individuare alcuni princìpi che a me sono sembrati irrinunciabili. Naturalmente il difficile comincia quando si vogliono veramente incarnare questi princìpi sul piano operativo. Ma, coi tempi che corrono, sarebbe già gran cosa se ci si potesse intendere tutti almeno sui princìpi».
Già. Coi tempi che corrono.
Aldo Maria Valli