Quei martiri così attuali
A cent’anni dalla rivoluzione bolscevica del 1917, mi è capitato di leggere un libro che non si occupa di quei fatti, ma di una realtà, quella dell’Albania comunista e delle persecuzioni anticristiane, che ne è figlia legittima e tragica. Una delle tante figlie legittime e tragiche.
Il libro è «Martiri d’Albania. 1945-1990» (Editrice La Scuola, 2016). Curato dagli storici Roberto Morozzo della Rocca e Andrea Giovannelli, narra le vicende di Anton Luli e Gjovalin Zezaj, il primo sacerdote gesuita, il secondo laico cattolico, accomunati dal fatto di essere stati a lungo perseguitati dal regime ateo del dittatore comunista Enver Hoxha.
Sono due storie di carcere, fame, freddo, sofferenze inaudite, ingiustizia e paura. Ma anche di amore per la libertà, fede e tenacia.
Divenuta un grande campo di concentramento, l’Albania di Hoxha nel decennio 1944-1955 arrivò a incarcerare, secondo stime delle Nazioni Unite, più di ottantamila persone su una popolazione di poco superiore al milione. Con padre Luli e Gjovalin Zezaj entriamo nelle baracche piene di prigionieri deboli e malati, infestati dai pidocchi e sottoposti a continue sopraffazioni e umiliazioni. Partecipiamo a interrogatori surreali, il cui esito è deciso già in partenza. Conosciamo aguzzini senza cuore, obnubilati dall’ideologia, e delatori spregevoli. Tocchiamo con mano il male che arriva a escogitare torture sempre più crudeli, fino ad adattare, come racconta Luli, un vecchio telefono a manovella, così che, infilando i fili con i poli opposti nelle orecchie del prigioniero, si provoca uno sconquasso tale che le mascelle sbattono fino a far cadere i denti.
L’inventiva dei carnefici è senza limiti. E poi c’è il lavoro forzato, che non ha altro scopo se non quello di fiaccare i prigionieri nel corpo e nello spirito, perpetuando il terrore.
I racconti di Luli e Zezaj ci portano direttamente nella lucida follia del comunismo ateo, applicato a un paese già molto povero ma di profonda cultura religiosa. Di qui il tentativo del regime: non solo combattere la fede, ma estirparla totalmente, per costruire lo Stato assoluto e senza Dio, abitato dall’uomo nuovo, assoggettato in tutto e per tutto al partito.
Colpisce, nella storia di padre Luli, la fede che non cede mai di fronte alla disperazione. E anche la capacità di mantenere la capacità di giudizio. Nel caso del secondo arresto, il gesuita racconta: «I capi di accusa erano i soliti: agitazione e propaganda contro il comunismo, cui aggiunsero anche l’accusa di sabotaggio economico attuato durante gli anni di lavoro in azienda. Per tutto questo il procuratore chiese la condanna a morte: la cosa era così assurda che mi fece perfino ridere».
Può sembrare un’annotazione marginale, ma la capacità di ridere di una situazione in sé assurda è il sigillo dell’uomo libero. Alla quale il cattolico può aggiungere la fiducia nel Signore e il distacco dai beni di questo mondo: «Alla guardia che mi chiedeva allibita se non avevo paura di morire, risposi che avevo già vissuto abbastanza».
In realtà la paura c’è, e Zezaj lo dice molto chiaramente («Io avevo paura. Erano campi di morte, come quelli dei tedeschi, anzi questi campi albanesi erano peggiori di quelli dei nazisti»), ma non ha l’ultima parola. Ed è la fede la grande risorsa, perché smaschera la menzogna.
La Chiesa cattolica in Albania è stata in prima linea nel testimoniare la verità, ed ha pagato un prezzo altissimo.
Il 21 settembre 2014, quando papa Francesco arriva a Tirana per la visita pastorale, lungo il viale centrale della città si stagliano le immagini di trentotto persone. Sono i martiri albanesi, che saranno beatificati nel novembre 2016: due vescovi, ventuno sacerdoti diocesani, sette frati minori, tre gesuiti, un seminarista, quattro laici. Sono i volti della fede che non muore.
La persecuzione religiosa in Albania avvenne in due tappe: quella seguita all’instaurazione del regime comunista, subito dopo la seconda guerra mondiale, e quella iniziata nel 1967, quando Hoxha lanciò la grande lotta contro la «superstizione religiosa». I perseguitati vissero così la beffa atroce di una prima liberazione effimera e illusoria, perché seguita da nuovi arresti e nuove violenze da parte dell’onnipresente Sigurimi, la polizia segreta.
Colpiscono, nella testimonianza dei due perseguitati, l’assoluta mancanza di parole di odio e maledizione nei confronti degli aguzzini e il coraggio che viene fuori nei momenti decisivi. Come quando padre Luli, pur debolissimo e mezzo morto, riuscì a tenere testa all’istruttore del partito comunista e alla fine si meritò i complimenti non solo dei prigionieri cattolici, ma anche di quelli musulmani.
Il 21 settembre 2014, durante la messa a Tirana, Francesco disse: «Chiesa che vivi in questa terra di Albania, grazie per il tuo esempio di fedeltà. Non dimenticatevi del nido, della vostra storia lontana, anche delle prove; non dimenticate le piaghe, ma non vendicatevi. Andate avanti a lavorare con speranza per un futuro grande. Tanti figli e figlie dell’Albania hanno sofferto, anche fino al sacrificio della vita. La loro testimonianza sostenga i vostri passi di oggi e di domani sulla via dell’amore, sulla via della libertà, sulla via della giustizia e soprattutto sulla via della pace. Così sia».
Fu in quell’occasione che Francesco, commosso, abbracciò don Ernest Simoni, l’unico sacerdote vivente testimone delle persecuzioni, liberato nel 1990 dopo trent’anni ai lavori forzati.
«Durante il periodo di prigionia, ho celebrato la messa in latino a memoria, così come ho confessato e distribuito la comunione di nascosto», raccontò don Simoni davanti al papa. «L’ostia la cuocevo di nascosto su piccoli fornelli a petrolio che servivano per il lavoro. Se non potevo utilizzare il fornello, mettevo da parte un po’ di legna secca e accendevo il fuoco. Il vino lo sostituivo con il succo dei chicchi d’uva che spremevo. E d’inverno utilizzavo delle boccette con il vino che mi portavano i miei parenti. Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla. Quante volte ho recitato questo Salmo. Con la venuta della libertà religiosa il Signore mi ha aiutato a servire tanti villaggi e a riconciliare molte persone con la croce di Cristo, allontanando l’odio e il diavolo dai cuori degli uomini».
Francesco un anno fa, il 19 novembre 2016, ha assegnato a Simoni la berretta rossa cardinalizia. È il rosso del sangue: «Accipite biretum rubrum… per quod significatur usque ad sanguinis effusionem», ricevete la berretta rossa, a significare che dovete essere pronti a comportarvi con fortezza, fino all’effusione del sangue, come dice la formula.
Gjovalin Zezaj racconta di quanto importante fu per lui e altri cattolici, durante la persecuzione, poter ascoltare, sia pure di nascosto, la radio italiana e la radio vaticana, che trasmetteva anche in lingua albanese.
I fatti narrati non riguardano un altro mondo, un pianeta alieno. Tutto avvenne dall’altra parte dell’Adriatico, accanto a noi.
La libertà non va mai data per scontata. Ogni volta che noi, per trascuratezza, insipienza o ignoranza, abbiamo la tentazione di non curarla e custodirla, pensiamo a tutti coloro che non la possiedono.
Lenin chiamava la Chiesa «il Nemico». Sapeva bene che era l’ostacolo più grosso sulla strada della «purificazione» da ottenere sistematicamente attraverso il terrore e le purghe permanenti. Che cosa sarebbe successo se quell’ostacolo, anziché restare saldo, si fosse scansato?
Aldo Maria Valli