«Vedo la Chiesa afflitta da una piaga mortale. Più profonda, più dolorosa rispetto a quelle di questo millennio, quella del comunismo e del nazismo. Si chiama islamismo. Invaderanno l’Europa. Ho visto le orde provenire dall’Occidente e dall’Oriente».
Queste parole di Giovanni Paolo II, riferite da monsignor Mauro Longhi, hanno suscitato clamore. Monsignor Longhi, sacerdote dell’Opus Dei, ha raccontato (durante un incontro pubblico a Bienno, in Valcamonica) che la visione gli fu descritta direttamente da Giovanni Paolo II nel 1992.
Longhi, che poté frequentare papa Wojtyla per anni, nel corso della sua relazione ha confermato che Giovanni Paolo II aveva un’intensa vita mistica, comprendente anche visioni. Una delle quali riguardò appunto l’Islam: «L’Europa sarà come una cantina piena di vecchi cimeli, tra le ragnatele. Voi, Chiesa del terzo millennio, dovrete contenere l’invasione. Ma non con le armi, le armi non basteranno. [Dovrete farlo] con la vostra fede vissuta con integrità».
Qualcuno mi ha chiesto: ma secondo te è possibile che Wojtyla abbia parlato così? Non ho una risposta. D’altra parte non ho motivo di dubitare della correttezza di monsignor Longhi e della veridicità del racconto.
Credo che l’episodio narrato sia comunque utile per una riflessione, per quanto sintetica, sul modo con il quale Giovanni Paolo II si mise in relazione con il mondo islamico.
Come sappiamo, papa Wojtyla nel corso del suo lungo pontificato diede molta importanza al dialogo con l’Islam, tanto da recarsi più volte in paesi musulmani ed entrare, primo papa nella storia, in una moschea, a Damasco, nel 2001.
Numerosi sono i testi nei quali Giovanni Paolo II riflette sul rapporto con l’Islam.
La base di tutti gli interventi si trova nella «Nostra aetate», il documento del Concilio Vaticano II (28 ottobre 1965) dedicato al dialogo con le religioni non cristiane, nel quale si legge che «la Chiesa guarda con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini».
Davvero Giovanni Paolo II manifestò sempre stima e rispetto, ma non possiamo ignorare le ulteriori riflessioni da lui proposte. Riflessioni caratterizzate da tre aspetti: la lealtà nel riconoscere le differenze, la necessità di procedere sempre alla luce della verità e la richiesta di garantire la reciprocità in materia di libertà religiosa.
Della questione della lealtà Giovanni Paolo II parlò in modo esplicito nel celebre, storico discorso tenuto ai giovani musulmani del Marocco, a Casablanca, il 19 agosto 1985. Ecco il punto: «La lealtà esige pure che riconosciamo e rispettiamo le nostre differenze. Evidentemente, quella più fondamentale è lo sguardo che posiamo sulla persona e sull’opera di Gesù di Nazaret. Voi sapete che, per i cristiani, questo Gesù li fa entrare in un’intima conoscenza del mistero di Dio e in una comunione filiale con i suoi doni, sebbene lo riconoscano e lo proclamino Signore e Salvatore. Queste sono differenze importanti, che noi possiamo accettare con umiltà e rispetto, in una mutua tolleranza; in ciò vi è un mistero sul quale Dio ci illuminerà un giorno, ne sono certo».
Le differenze quindi non vanno sottaciute o minimizzate. Non c’è dialogo sincero senza un chiaro riconoscimento di ciò che differenzia, a partire dalla figura di Gesù.
E qui veniamo alla grande questione della verità, che Giovanni Paolo II non si stancò mai di mettere in primo piano. Come disse nel palazzo presidenziale di Cartagine, il 14 giugno 1996, durante il viaggio in Tunisia, «porsi nella verità gli uni di fronte agli altri è un’esigenza fondamentale». Può dialogare proficuamente soltanto chi è interprete consapevole e sincero della fede: «I protagonisti del dialogo saranno sicuri e sereni nella misura in cui saranno veramente radicati nelle rispettive religioni. Questo radicamento consentirà l’accettazione delle differenze e farà evitare due ostacoli opposti: il sincretismo e l’indifferentismo. Consentirà anche di trarre profitto dallo sguardo critico dell’altro sul modo di formulare e di vivere la propria fede».
Non c’è dialogo senza verità. Se si esclude la verità, si cade facilmente nel mescolamento arbitrario di messaggi diversi, nella pretesa di conciliare ciò che non è conciliabile e nell’idea che ogni religione sia uguale all’altra. «Il grande compito della vita è cercare la verità di Dio e la sua giustizia!» (discorso nella moschea Omayyade, Damasco, 6 maggio 2001).
Sotto questo profilo Giovanni Paolo II non nascose mai il punto nodale della verità di Cristo, come si legge chiaramente, per esempio, nell’esortazione apostolica «Una speranza nuova per il Libano» (10 maggio 1997): « La Chiesa cattolica considera con attenzione la ricerca spirituale degli uomini e riconosce volentieri la parte di verità che entra nel cammino religioso delle persone e dei popoli, affermando tuttavia che la verità perfetta si trova in Cristo, che è l’inizio e la fine della storia che, grazie a Lui, giunge alla sua pienezza» (n. 13).
Infine la questione della reciprocità in materia di libertà religiosa, che papa Wojtyla non mancò mai di sottolineare, come nel messaggio in occasione dell’apertura della moschea di Roma (21 giugno 1995): «In una circostanza significativa come questa si deve rilevare purtroppo come in alcuni paesi islamici manchino altrettanti segni di riconoscimento della libertà religiosa. Eppure il mondo, alle soglie del terzo millennio, attende questi segni». E come nell’esortazione apostolica «Ecclesia in Europa» (28 giugno 2003), quando scrisse: «Si comprende d’altronde che la Chiesa, mentre chiede alle istituzioni europee di promuovere la libertà religiosa in Europa, si faccia egualmente un dovere di ricordare che la reciprocità nella garanzia della libertà religiosa deve essere osservata anche nei paesi di tradizione religiosa diversa, dove i cristiani sono in minoranza».
Alla fine di questo rapido excursus, vale la pena riportare quanto Giovanni Paolo II scrive in «Varcare la soglia della speranza», edito nel 1994, forse il testo nel quale il papa esprime nel modo più chiaro la sua valutazione sulle radicali differenze tra cristianesimo e Islam: «Chiunque, conoscendo l’Antico e il Nuovo Testamento, legga il Corano, vede con chiarezza il processo di riduzione della Divina Rivelazione che in esso s´è compiuto. È impossibile non notare l’allontanamento da ciò che Dio ha detto di Se stesso, prima nell’Antico Testamento per mezzo dei profeti, e poi in modo definitivo nel Nuovo per mezzo del Suo Figlio. Tutta questa ricchezza dell’autorivelazione di Dio, che costituisce il patrimonio dell’Antico e del Nuovo testamento, nell’islamismo è stata di fatto accantonata. Al Dio del Corano vengono dati nomi tra i più belli conosciuti dal linguaggio umano, ma in definitiva è un Dio al di fuori del mondo, un Dio che è soltanto Maestà, mai Emmanuele, Dio-con-noi. L’islamismo non è una religione di redenzione. Non vi è spazio in esso per la Croce e la Risurrezione. […] È completamente assente il dramma della redenzione. Non soltanto la teologia ma anche l’antropologia dell’Islam è molto distante da quella cristiana. […] Il Concilio ha chiamato la Chiesa al dialogo anche con i seguaci del “Profeta” e la Chiesa procede lungo questo cammino. […] Non mancano, tuttavia, delle difficoltà molto concrete. Nei paesi dove le correnti fondamentaliste arrivano al potere, i diritti dell´uomo e la libertà religiosa vengono interpretati, purtroppo, molto unilateralmente: la libertà religiosa viene intesa come libertà di imporre a tutti i cittadini la “vera religione”. La situazione dei cristiani in questi paesi a volte è addirittura drammatica».
Queste valutazioni furono anche il frutto di visioni di carattere mistico? Monsignor Longhi dice che è così. In ogni caso, qualunque ne sia l’origine, si tratta di analisi da non dimenticare, specie in una stagione come quella che stiamo vivendo.
Aldo Maria Valli