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Dopo il Myanmar e il Bangladesh

Tra poche ore salirò sul volo papale che, a Dio piacendo, farà ritorno a Roma, dopo il viaggio apostolico nel Myanmar e nel Bangladesh. Butto giù qualche impressione rapida e chiedo scusa anticipatamente per la superficialità, ma non voglio lasciarvi senza due parole.

In generale, anche con il contributo determinante di noi della stampa, l’impressione è che il contenuto principale del viaggio sia diventato il popolo Rohingya e che tutta la narrazione si sia trasformata in una sorta di crescendo verso l’incontro di Francesco, avvenuto ieri qui a Dacca, con il gruppo di profughi provenienti dal campo di Cox Bazar.

Ora, nessuno mette in discussione che la situazione dei Rohingya sia sotto molti aspetti drammatica. Sono poco più di un milione, e in più di seicentomila sono ammassati in campi profughi, dopo essere fuggiti da un Myanmar che non riconosce loro i diritti di cittadinanza perché non li vuole considerare un’etnia nazionale.

Il papa si è preso a cuore la loro causa, riproponendosi di incontrarli qui a Dacca, nel Bangladesh che li accoglie, e ci è riuscito. Il governo di Yangon contro i Rohngya si è reso responsabile di una repressione brutale, e queste violenze vanno sempre stigmatizzate. Tuttavia anche i Rohngya, attraverso un loro braccio armato, hanno compiuto violenze. Tutto ciò va detto non per stilare impossibili e inutili classifiche, ma per sottolineare che la situazione è più complessa di come spesso la si vede in Occidente. Bisogna anche considerare che il Myanmar, nel Sud Est asiatico, teme la contaminazione islamista e cerca di mettersi al riparo da infiltrazioni pericolose.

La vicenda dei Rohngya (con il papa impossibilitato per due terzi del viaggio a pronunciare il loro nome, per non urtare il governo birmano) ha catalizzato l’attenzione a discapito di altri aspetti, primo fra tutti la realtà delle due piccole chiese cattoliche del Myanmar e del Bangladesh, Chiese di minoranza in un paese buddista (il Myanmar) e in uno musulmano (il Bangladesh).  Commoventi sono state le celebrazioni eucaristiche a Yangon e a Dacca, davanti a centinaia di migliaia di persone arrivate anche dai paesi limitrofi.

Non bisogna mai dimenticare che cos’è una visita papale per questi nostri fratelli cattolici che vivono in contesti tanti complessi. La loro gioia e la loro commozione dovrebbero spingerci a non dare mai per scontata la fede.

L’ordinazione di sedici nuovi preti, durante la messa celebrata a Dacca, è l’immagine di una Chiesa che ormai non è più tenuta in vita dai missionari arrivati dall’Europa: è una Chiesa in gran parte autoctona, che si spende dalla parte dei più poveri, in silenzio, nel servizio.

Quanto ai contenuti dei messaggi papali, con una battuta verrebbe da dire “tanto uomo, poco Dio”. Voglio dire che Francesco ha parlato molto delle condizioni dei popoli, delle loro situazioni, del rispetto dei diritti e della giustizia, della necessità di costruire la pace nella convivenza; ha parlato meno della fede e dei suoi contenuti, dell’esempio di Gesù e del primato di Dio. Non dico che non ne ha parlato. Dico che ne ha parlato un po’ a margine. Lo si è visto soprattutto nell’incontro con la signora Aung San Suu Kyi e nell’inedito incontro con i monaci buddisti, dove si è limitato a un cenno alla trascendenza, in modo generico, e dove il passaggio sul Buddha e san Francesco ha preso un sapore sincretista.

In un paio di occasioni per parlare di Dio Francesco ha usato metafore tecnologiche. Ha fatto riferimento a un GPS spirituale e ha detto che è come se Dio avesse inserito nell’uomo un software che ci aiuta a trovare la strada giusta. Ha cercato così di parlare a popoli che, anche se segnati da ampie sacche di povertà, sono molto avanti nell’uso dell’informatica.

Se mi è concessa qualche altra impressione fugace, direi che trasferendomi dal Myanmar al Bangladesh mi è sembrato di passare dal popolo del sorriso al popolo dello sguardo. Se nell’ex Birmania ciò che colpisce è la serenità emanata dai visi e la disponibilità a sorridere, in questa parte dell’ex Bengala è difficile non notare lo sguardo penetrante delle persone: occhi neri che puntano dritto ai tuoi, con un misto di orgoglio, fierezza, forse anche rimprovero.

Le due metropoli, Yangon e Dacca, sotto alcuni aspetti si assomigliano. In entrambe c’è molta acqua e molto traffico. Yangon è alla convergenza di due fiumi, Dacca si è sviluppata attorno al fiume Buriganga, un canale del fiume Dhaleshwari. Ma è il traffico l’elemento dominante. Sia a Yangon (cinque milioni di abitanti), sia a Dacca (sedici milioni), mettersi in auto vuol dire essenzialmente mettersi in coda, almeno nelle arterie principali. Non è che manchino i trasporti pubblici (a Yangon ho visto numerosi autobus e qui a Dacca ci sono bus di tutti i tipi, alcuni a due piani come a Londra, e tutti molto ammaccati perché affrontare il traffico è un po’ come andare alla guerra), ma la congestione del traffico è impressionante. Mi dicono che a Yangon i giapponesi hanno studiato la possibilità di costruire una metropolitana, ma hanno rinunciato perché il sottosuolo è troppo impregnato d’acqua . Non so se a Dacca ci sia un analogo problema, sta di fatto che l’ingorgo (anche di risciò) è la normalità e che per percorrere pochi chilometri occorre calcolare tempi biblici.

Se devo poi aggiungere un altro elemento che mi ha colpito, rispetto alla situazione occidentale, è la tanta gioventù che si vede in giro. E poi l’assenza di persone sovrappeso. Questioni di genetica, certo. Ma per moltissime persone qui l’espressione “accontentarsi di un pugno di riso” non è una metafora, bensì realtà quotidiana. Ci farà bene non dimenticarlo.

Aldo Maria Valli

 

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