Per varie ragioni in questi giorni ho ripreso in mano la seconda Lettera di Paolo a Timoteo e devo dire che mi ha sorpreso per l’attualità dei contenuti. Direi che è stata una folgorazione. A parte i problemi di attribuzione, nei quali non è il caso di entrare, la lettera colpisce per come riesce a delineare le sofferenze alle quali va incontro l’autentico seguace di Gesù e per la chiarezza con cui indica il dovere di lottare contro gli errori presenti e di prepararsi a combattere i futuri.
In genere i passi più citati della Lettera sono due: quello in cui Paolo sottolinea l’importanza della trasmissione della fede in famiglia, grazie soprattutto alle donne («Mi ricordo della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te»), e quello in cui l’autore, al tramonto della vita, fa un bilancio che ogni cristiano vorrebbe poter condividere: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede».
Basterebbero in effetti questi due passi per giustificarne la lettura e la rilettura. Ma ecco qui subito un altro brano che, con poche pennellate, dipinge un quadro nel quale possiamo riconoscere la situazione attuale: «Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole».
E che cosa si deve fare contro i falsi maestri e le favole? «Prendi come modello le sane parole che hai udito da me, con la fede e la carità che sono in Cristo Gesù. Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi».
Vedete? C’è uno scontro. Da una parte le parole false, spacciate per vere da chi in realtà racconta favole per compiacere gli uomini. Dall’altra quelle autentiche, che vanno prese a modello rifacendosi all’insegnamento dei maestri che parlano perché hanno incontrato la verità e ne hanno fatto esperienza.
In questo scontro occorre scendere in campo con coraggio, senza lasciarsi condizionare da questioni di opportunità e dalla paura. «Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza. Non vergognarti dunque della testimonianza da rendere al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma soffri anche tu insieme con me per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio».
Lo scontro procura sofferenza, è inevitabile. Ma non siamo soli.
E poi mi colpisce l’accostamento tra l’amore e la forza. Lo Spirito di forza e lo Spirito di amore sono un unico Spirito. Niente a che vedere con una certa idea di amore, sdolcinata e sentimentale, alla quale ci ha abituato una predicazione a base di solidarismo e fraternità all’ingrosso.
L’autore è in carcere, come succede spesso a chi difende la verità dagli assalti dei sofisticatori. È dunque «in catene», proprio «come un malfattore», perché chi è al servizio della menzogna ribalta la realtà. «Ma la parola di Dio non è incatenata!». La parola di Dio nessuno la può silenziare. E qual è questa parola «certa»? È che «Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti». Ecco il mistero centrale della nostra fede, mai sufficientemente creduto e annunciato. La parola certa è che «se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, anch’egli di rinnegherà; se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso!».
Qui c’è veramente tutto ciò che conta. Ed ecco pertanto il richiamo a ricordare «queste cose», evitando «le vane discussioni, che non giovano a nulla, se non alla perdizione di chi le ascolta».
È un invito all’essenzialità, a concentrarsi su ciò che è davvero fondamentale. E che cosa c’è di più importante del giudizio divino? «Sforzati di presentarti davanti a Dio come un uomo degno di approvazione, un lavorato che non ha di che vergognarsi, uno scrupoloso dispensatore della parola della verità». Di conseguenza «evita le chiacchiere profane, perché esse tendono a far crescere sempre più nell’empietà». Senza dimenticare che «la parola di costoro [i falsi dottori] si propagherà come una cancrena».
Il compito è chiaro, chiarissimo. Ma c’è anche una strategia da rispettare, ed è delineata altrettanto chiaramente: «Un servo del Signore non dev’essere litigioso, ma mite con tutti, atto a insegnare, paziente nelle offese subite, dolce nel riprendere gli oppositori, nella speranza che Dio voglia loro concedere di convertirsi, perché riconoscano la verità e ritornino in sé sfuggendo al laccio del diavolo, che li ha presi nella rete perché facessero la sua volontà».
Che dire? Ogni povero commento del sottoscritto rischierebbe soltanto di guastare tutto.
«Devi anche sapere che negli ultimi tempi verranno momenti difficili», dice a un certo punto l’autore della lettera. «Gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanitosi, orgogliosi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, senza religione, senza amore, sleali, maldicenti, intemperanti, intrattabili, nemici del bene, traditori, sfrontati, accecati dall’orgoglio, attaccati ai piaceri più che a Dio, con la parvenza della pietà, mentre ne hanno rinnegata la forza interiore. Guardati bene da costoro!».
Non sono un esegeta e chiedo perdono agli esperti di sacra scrittura. Ho voluto soltanto condividere alcune sensazioni.
Prima di chiudere, mi permetto di riportare un passaggio dell’omelia che Benedetto XVI pronunciò il 28 giugno 2008 durante la celebrazione dei primi vespri della solennità dei santi Pietro e Paolo in occasione dell’apertura dell’Anno paolino: «In un mondo in cui la menzogna è potente, la verità si paga con la sofferenza. Chi vuole schivare la sofferenza, tenerla lontana da sé, tiene lontana la vita stessa e la sua grandezza; non può essere servitore della verità e così servitore della fede. Non c’è amore senza sofferenza, senza la sofferenza della rinuncia a se stessi, della trasformazione e purificazione dell’io per la vera libertà».
Aldo Maria Valli