«Solo a margine vorrei annotare la mia sorpresa per il fatto che tra gli autori figuri anche il professor Hünermann, che durante il mio pontificato si è messo in luce per aver capeggiato iniziative anti-papali».
Scrive così Benedetto XVI nell’ultima parte della lettera inviata al prefetto della Segreteria vaticana per la comunicazione, facendogli sapere che, per ovvie ragioni, non scriverà la «breve e densa pagina» che gli era stata chiesta sugli undici libretti dedicati dalla Libreria editrice vaticana alla teologia di Francesco, visto che tra gli autori c’è proprio Hünermann.
Questa parte della lettera del papa emerito, com’è ormai noto, è stata resa pubblica dalla sala stampa della Santa Sede in ritardo, su pressione dei giornalisti, dopo che in un primo tempo era stata tenuta nascosta. Ma qui non vorrei tornare su come la lettera è stata gestita. Desidero invece capire un po’ meglio perché, per Joseph Ratzinger, evocare il nome di Hünermann e, in parte, anche quello di Jürgen Werbick, un altro degli autori scelti dalla Lev, significa riaprire una ferita.
Torniamo dunque alle parole di Benedetto XVI, il quale, a proposito di Hünermann, spiega nella lettera: «Egli partecipò in misura rilevante al rilascio della Kölner Erklärung che, in relazione all’enciclica Veritats splendor, attaccò in modo virulento l’autorità magisteriale del Papa, specialmente su questioni di teologia morale. Anche la Europäische Theologen Gesellschaft, che egli fondò, inizialmente da lui fu pensata come un’organizzazione in opposizione al magistero papale. In seguito, il sentire ecclesiale di molti teologi ha impedito quest’orientamento, rendendo quell’organizzazione un normale strumento di incontro fra teologi».
La Kölner Erklärung, ricordata da Benedetto XVI, è la Dichiarazione di Colonia, documento del 1989 sottoscritto da numerosi prelati e teologi, tra i quali appunto Hünermann e Werbick (c’erano anche Küng, Metz, Mieth, Häring) e che rappresentò un attacco senza precedenti nei confronti dell’autorità papale.
Il papa era all’epoca Giovanni Paolo II e a capo della Congregazione per la dottrina della fede c’era, dal 1981, il cardinale Joseph Ratzinger. Nel testo, pubblicato dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung, i firmatari, dichiarandosi «per una cattolicità aperta, contro una cattolicità messa sotto tutela», contestavano quello che definivano il «nuovo centralismo romano», specie a proposito della nomina dei vescovi e dell’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento per i teologi. E arrivavano ad accusare Karol Wojtyła di «far valere in modo inammissibile, e al di là dei limiti dovuti, la competenza magisteriale, oltre che giurisdizionale, del papa».
Come si vede, un attacco frontale, portato non solo al papa polacco, ma anche al suo fido scudiero tedesco.
«Siamo convinti che non ci sia più consentito tacere», scrivevano i firmatari in preda all’indignazione. E denunciavano: «In questi ultimi tempi l’obbedienza al papa, dichiarata e richiesta da parte dei vescovi e dei cardinali, acquista sempre più sovente l’aspetto di un’obbedienza cieca». Di qui la richiesta di maggiore libertà in tutti i campi, compresa la ricerca teologica (attacco diretto ovviamente al prefetto Ratzinger), ma soprattutto una forte contestazione del primato del magistero papale in campo morale.
A questo proposito i firmatari della dichiarazione, accusando il papa di far valere «in modo indebito la competenza del magistero pontifico», attaccavano Wojtyła frontalmente sulla questione della regolazione delle nascite (nervo ancora oggi scoperto) affermando che Giovanni Paolo II sbagliava quando metteva il no alla contraccezione sullo stesso piano delle verità fondamentali e della rivelazione divina. Scrivevano infatti: «I concetti di verità fondamentale e di rivelazione divina vengono usati dal papa per sostenere una dottrina estremamente specifica che non può essere fondata né ricorrendo alla sacra Scrittura né rifacendosi alla tradizioni della chiesa».
Le verità, dicevano insomma i firmatari, non sono tutte uguali. Fra loro c’è una gerarchia. Ci sono «diversi gradi di certezza», e quanto più debole è il grado di certezza tanto più assume importanza la coscienza individuale, libera di compiere scelte rispetto alle quali il magistero pontificio non può pretendere di avere l’ultima parola. E alla fine il documento usciva allo scoperto quando, riferendosi apertamente all’Humanae vitae di Paolo VI, e difesa da Giovanni Paolo II, affermava: «A parere di molte persone appartenenti alla chiesa, la norma sancita dall’enciclica Humane vitae del 1968 in materia di regolazione delle nascite rappresenta semplicemente un orientamento che non sostituisce la responsabilità della coscienza dei fedeli».
Dalla Kölner Erklärung sono passati ormai quasi trent’anni, ma, come si vede, i problemi non sono affatto superati. Anzi, se pensiamo a recenti prese di posizione (mi riferisco in particolare alle tesi sostenute dal padre Maurizio Chiodi) tese di fatto a liquidare Humane vitae in nome di Amoris laetitia, si vede come le richieste della Dichiarazione di Colonia siano riapparse.
Se poi si considera che, successivamente, sia Hünermann sia Werbick hanno contestato apertamente Benedetto XVI chiedendo, insieme ad Hans Küng, l’ordinazione sacerdotale delle donne e di uomini sposati, la partecipazione di laici e parroci alla scelta dei vescovi, l’ammissione alla comunione per i divorziati risposati e il riconoscimento delle unioni fra persone dello stesso sesso, si può capire ancora meglio la reazione del papa emerito di fronte alla richiesta di scrivere qualcosa sull’omaggio di quei due teologi alla teologia di Francesco. E non si può non ammirare la sua signorilità. Perché, pur avendo tutto il diritto di manifestare un certo disappunto, con stile inconfondibile si limita a dire: «Solo a margine vorrei annotare la mia sorpresa…».
Aldo Maria Valli
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