Ho letto il documento che i giovani hanno consegnato al papa in vista del sinodo dei vescovi su “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. Ne ho ricavato l’impressione di un testo vecchio nel linguaggio e nei contenuti, come se fosse stato prodotto non da giovani d’oggi, ma da qualcuno che è stato giovane mezzo secolo fa e non è ancora uscito da certi schemi e da certi complessi.
In apertura si dice che il documento “rispecchia le specifiche realtà, personalità, credenze ed esperienze dei giovani del mondo” ed è “volto a fornire ai vescovi una bussola che miri ad una maggiore comprensione dei giovani”. Ma pagina dopo pagina si nota che le riflessioni, “scaturite dall’incontro di più di trecento giovani rappresentanti da tutto il mondo” e con “la partecipazione di 15 mila giovani collegati online attraverso gruppi Facebook”, trasmettono l’idea di una Chiesa ridotta a organizzazione sociale, preoccupata più che altro di scusarsi per non essere sufficientemente al passo con i tempi. E dal punto di vista linguistico certe espressioni sembrano prese di peso dal repertorio di papa Francesco.
Andiamo con ordine. Dopo aver sostenuto che “i giovani cercano il senso di se stessi in comunità che siano di sostegno, edificanti, autentiche e accessibili, cioè comunità in grado di valorizzarli”, il documento afferma: “A volte sentiamo che il sacro sembra qualcosa di separato della vita quotidiana. Molte volte la Chiesa appare come troppo severa ed è spesso associata ad un eccessivo moralismo. A volte, nella Chiesa, è difficile superare la logica del “si è sempre fatto così”. Abbiamo bisogno di una Chiesa accogliente e misericordiosa”.
Non è difficile notare qui la totale coincidenza con quanto spesso sostiene Francesco. A parte il fatto che il sacro, a mio modesto giudizio, deve essere qualcosa di separato dalla vita quotidiana (lo spazio e il tempo sacri sono tali proprio perché diversi da quelli profani), troviamo subito la denuncia della Chiesa troppo severa e moralista (quando invece, in generale, il problema odierno sembra l’opposto, cioè una Chiesa incerta e lassista) e la parallela critica della logica del “si è sempre fatto così”, un cavallo di battaglia dell’attuale pontificato.
E che dire di quel richiamo a una “Chiesa accogliente e misericordiosa”? Anche qui il copyright non è forse di Francesco?
Più avanti, anziché la bellezza e l’originalità della proposta cristiana (i fattori che, oggi come sempre, appassionano veramente i giovani), troviamo un’analisi sociologica che mescola questioni diverse e tutte in senso orizzontale: “I giovani sono profondamente coinvolti e interessati in argomenti come la sessualità, le dipendenze, i matrimoni falliti, le famiglie disgregate, così come i grandi problemi sociali, come la criminalità organizzata e la tratta di esseri umani, la violenza, la corruzione, lo sfruttamento, il femminicidio, ogni forma di persecuzione e il degrado del nostro ambiente naturale”.
Ora, che molti giovani siano interessati a questi argomenti è facilmente intuibile. Ma che cos’ha da dire la Chiesa, in proposito, alla luce dell’eterna Verità divina? In tutto ciò dov’è Dio? Dov’è la ricerca della verità?
Sotto questo profilo il documento non dice nulla. In compenso ecco il solito, trito richiamo alle “sfide” sociali, di fronte alle quali (e qui torna, alla lettera, il vocabolario di papa Francesco) “abbiamo bisogno di inclusione, accoglienza, misericordia e tenerezza da parte della Chiesa”. E poi, altrettanto immancabile, ecco il richiamo al “multiculturalismo”, che ha “il potenziale di facilitare un ambiente per il dialogo e la tolleranza”, con un obiettivo indicato così: “Valorizziamo la diversità di idee nel nostro mondo globalizzato, il rispetto per il pensiero dell’altro e la libertà di espressione”. Il che, francamente, non sembra costituire questa gran conclusione. Ma, soprattutto, l’impressione è che il documento ricalchi uno schema precostituito.
A conferma, come primaria viene indicata la preoccupazione per il fatto che “non c’è ancora un consenso vincolante sulla questione dell’accoglienza dei migranti e dei rifugiati e nemmeno sulle problematiche che causano questo fenomeno” e “tutto questo nonostante il riconoscimento del dovere universale alla cura per la dignità di ogni persona umana”. Di qui l’avvertimento: “In un mondo globalizzato e inter-religioso, la Chiesa ha bisogno non solo di un modello ma anche di un’ulteriore elaborazione sulle linee teologiche già esistenti per un pacifico e costruttivo dialogo con persone di altre fedi e tradizioni”.
Andiamo avanti. Una larga parte del documento è dedicata alle paure dei giovani e anche in questo caso le espressioni usate appartengono quasi alla lettera al repertorio di Francesco. Come qui: “A volte, finiamo per rinunciare ai nostri sogni. Abbiamo troppa paura, e alcuni di noi hanno smesso di sognare”. E qui: “Vogliamo un mondo di pace, che tenga insieme un’ecologia integrale con una economia globale sostenibile”, senza dimenticare i “conflitti”, la “corruzione”, le “disuguaglianze sociali” e i “cambiamenti climatici”.
E quando, finalmente, si esce un po’ dalla sociologia spicciola per entrare, per lo meno, nell’ambito della sociologia della religione, ecco un’affermazione piuttosto scontata (“oggi la religione non è più vista come il mezzo principale attraverso il quale un giovane si incammina verso la ricerca di senso, in quanto spesso ci si rivolge a tendenze e ideologie moderne”), seguita subito da una critica alla Chiesa (“gli scandali attribuiti alla Chiesa – sia quelli reali, che quelli solo percepiti come tali – condizionano la fiducia dei giovani nella Chiesa e nelle istituzioni tradizionali che essa rappresenta”) e dalla richiesta che la Chiesa stessa sia “inclusiva” verso le donne, perché “oggi un problema diffuso nella società è la mancanza di parità fra uomo e donna” e “ciò è vero anche nella Chiesa”.
E vogliamo parlare dei grandi temi riguardanti la vita, la morte, la famiglia, la sessualità?
Ecco qua: “C’è spesso grande disaccordo tra i giovani, sia nella Chiesa che nel mondo, riguardo a quegli insegnamenti che oggi sono particolarmente dibattuti. Tra questi troviamo: contraccezione, aborto, omosessualità, convivenza, matrimonio e anche come viene percepito il sacerdozio nelle diverse realtà della Chiesa. Ciò che è importante notare è che, indipendentemente dal loro livello di comprensione degli insegnamenti della Chiesa, troviamo ancora disaccordo e un dibattito aperto tra i giovani su queste questioni problematiche”. “Di conseguenza (i giovani) vorrebbero che la Chiesa cambiasse i suoi insegnamenti o, perlomeno, che fornisca una migliore esplicazione e formazione su queste questioni”.
Poco dopo, forse consapevole dello sbilanciamento, il documento si corregge e dice che, “d’altra parte, molti giovani cattolici accettano questi insegnamenti e trovano in essi una fonte di gioia”. Ma allora come stanno le cose? L’impressione è di un’analisi insieme superficiale e ambigua.
Ciò che conta, comunque, sembra soddisfare le aspettative del mondo, che vuole la Chiesa sul banco degli imputati e in posizione perdente.
Bisogna aspettare molte pagine prima che compaia un accenno a Gesù. Che suona così: “In ultima istanza, molti di noi desiderano fortemente conoscere Gesù, ma spesso faticano a comprendere che Lui solo è la fonte di una vera scoperta di sé, poiché è nella relazione con Lui che la persona giunge, in ultima istanza, a scoprire se stessa. Di conseguenza, sembra che i giovani chiedano testimoni autentici: uomini e donne in grado di esprimere con passione la loro fede e la loro relazione con Gesù, e nello stesso tempo di incoraggiare altri ad avvicinarsi, incontrare e innamorarsi a loro volta di Gesù”.
Domanda: ma per arrivare a questa conclusione c’era bisogno di convocare giovani da tutto il mondo, spedire migliaia di questionari e organizzare questo gran lavoro del pre-sinodo?
Ma il punto è, ripeto, che la bellezza della proposta cristiana non emerge. Costante è invece la preoccupazione dell’autocritica (“Ideali erronei di cristiani modello appaiono fuori portata, così come i precetti dati dalla Chiesa. A causa di questo, il Cristianesimo è percepito da alcuni come uno standard irraggiungibile”), e anche a proposito della vita consacrata l’accento è posto più che altro sui limiti e sulla “vulnerabilità”, con la solita sottolineatura circa “la mancanza di chiarezza sul ruolo delle donne nella Chiesa”.
Circa la guida che i consacrati devono garantire, si insiste sul coinvolgimento e sul “cammino” (“Le guide non dovrebbero condurre i giovani ad essere dei seguaci passivi, ma a camminare insieme con loro, lasciandoli essere partecipanti attivi di questo viaggio”), ma senza mai dire a che cosa deve portare tutto questo camminare. In compenso, ecco di nuovo la “vulnerabilità”: “Una Chiesa credibile è proprio quella che non ha paura di mostrarsi vulnerabile. Per questo, la Chiesa dovrebbe esser solerte e sincera nell’ammettere i propri errori passati e presenti, presentandosi come formata da persone capaci di sbagli e incomprensioni. Tra questi errori, occorre menzionare i vari casi di abusi sessuali e una cattiva amministrazione delle ricchezze e del potere”.
Siamo agli sgoccioli. Ancora due enunciazioni prelevate dal repertorio bergogliano (“I giovani dalla Chiesa vogliono avere uno sguardo in uscita”; “La Chiesa dovrebbe rafforzare iniziative volte a combattere la tratta degli esseri umani e la migrazione forzata, così come il narcotraffico”) e il documento è finito.
Torna la domanda: ma chi l’ha scritto, veramente?
Aldo Maria Valli