«Sembra che oggi gran parte della liturgia, almeno nella sua attuazione pratica, si sia ridotta ai soli due movimenti kerigmatico-catechistico ed epicletico-comunicativo con la scomparsa o la forte riduzione della posizione latreutico-contemplativa».
Scrive così don Enrico Finotti in una delle sue risposte dedicate alla liturgia. In un primo tempo sembra linguaggio per iniziati, ma don Finotti non lascia mai i suoi interlocutori senza spiegazione. Sempre attento alle osservazioni dei fedeli, l’autore resta colpito dal fatto che una di loro mostri stupore dopo aver visto un sacerdote in preghiera, e di conseguenza si interroga: se nella liturgia la dimensione della preghiera, agli occhi di un fedele comune, non appare più come centrale, vuol dire che c’è qualcosa che non funziona. Perché la liturgia è per sua natura preghiera pubblica. E allora ecco la spiegazione: oggi la liturgia privilegia i momenti in cui il sacerdote si rivolge al popolo per annunciare la parola di Dio (posizione kerigmatica) e quelli in cui si volge ai fedeli per agire su di loro con i medesimi gesti di Gesù (posizione epicletica), ma non favorisce i momenti in cui il sacerdote, rappresentando il Signore alla testa del popolo (posizione latreutica), dovrebbe rivolgersi a Dio come l’assemblea e guidare i fedeli nella lode e nell’adorazione.
Nella liturgia attuale c’è dunque come uno scompenso, un disequilibrio, ed è evidente che tutto ciò ha a che fare con la posizione del sacerdote. Una posizione che, nella liturgia riformata dal Concilio Vaticano II, è funzionale all’idea di Messa intesa come mensa, ma non come sacrificio.
Chi difende la riforma voluta dal Concilio accusa facilmente di «tradizionalismo» tutti coloro che si pongono il problema della posizione assunta dal sacerdote durante la Messa. Ma non si tratta di nostalgia e non è una fissazione. Si tratta invece di entrare nel significato profondo dell’azione liturgica. E, se si fa questo passo, la questione del conversi ad Dominum non può non apparire come decisiva. Come scrive bene don Finotti, «si deve riconoscere che celebrare la parte sacrificale della Messa (dall’offertorio alla comunione) rivolti nel medesimo senso verso il quale guarda l’intera assemblea, secondo la tradizione costante della Chiesa, suscita in modo immediato ed efficace quel comune (sacerdote e popolo) guardare ad Deum che è costitutivo della liturgia».
Le domande che i fedeli pongono al liturgista sulla rivista Liturgia: culmen et fons riguardano un po’ tutto: dalla veglia di Natale alla Via Crucis, dalle feste patronali alla settimana per l’unità dei cristiani. Inoltre molti desiderano entrare nel dettaglio delle questioni, interrogandosi in modo sempre più specifico. Per esempio: che cos’è precisamente un rito e quali sono le sue componenti? Chi gestisce le regole della liturgia rinnovata? Qual è l’importanza dell’abito sacerdotale? Che fine ha fatto la liturgia delle ore?
Il pregio di don Finotti sta nella capacità di unire rispetto del sacro e buon senso. La parola chiave è equilibrio. Che significa rispettare la gerarchia dei valori. Alla Messa si va non per mettere in scena una cena, ma per rinnovare il sacrificio eucaristico. Non si va per esibire la creatività umana, ma per rendere gloria a Dio. Non si va per gratificare il protagonismo del sacerdote o dell’assemblea, ma per pregare e adorare. Solo se i valori vengono messi nella giusta gerarchia l’azione liturgica che ne scaturisce risulta corretta.
Importanti sono le parole che don Finotti dedica all’equivoco circa l’autenticità della liturgia, come se autentico corrispondesse a spontaneo. Rispondendo a una domanda che parla del mito dell’«animazione» della Messa, mito modernista che è fonte di infiniti abusi, l’autore spiega: «Autentico non è ciò che è spontaneistico e irriflessivo, ma l’autenticità esige adesione alla verità e forza di volontà per realizzare nelle opere lo splendore del vero, del buono e del bello. L’oggettività è quindi una condizione imprescindibile dell’autenticità, che è invece inquinata da un soggettivismo sterile privo di ogni riferimento veritativo. La vera autenticità è il frutto maturo di un itinerario che implica la ricerca intellettuale, la formazione spirituale e l’esercizio della volontà. La disciplina e il sacrificio nella costante obbedienza alla Chiesa sono condizioni necessarie per raggiungere tale virtù, mantenerla e difenderla. L’errore in tale materia provoca una disaffezione per l’intero impianto liturgico oggettivo della Chiesa (Messa, sacramenti, sacramentali, anno liturgico, ecc.) e una sostituzione a tutto campo con creazioni soggettive private o comuni, una “liturgia” soggettivistica che non rappresenta il pensiero di Cristo, non contiene il suo mistero e perciò non salva. Essa è in fin dei conti un atto idolatrico e una pia illusione, il riflesso sempre cangiante dei propri sentimenti e delle sensibilità del “gruppo celebrante”. Ma così la dimensione soggettiva e privata del gruppo ha preso il posto di quella oggettiva e pubblica del popolo, quale referente primario della liturgia».
Credo che queste parole andrebbero stampate e distribuite in tutte le chiese, a beneficio dei fedeli ma anche dei sacerdoti. In nome del mito dell’animazione liturgica (del tutto arbitrario e fondato unicamente sul protagonismo umano) c’è stata un’imposizione dello spontaneismo. Sembra un controsenso, eppure è ciò che è avvenuto. E i risultati sono sotto gli occhi, e le orecchie, di tutti.
Ovviamente la liturgia spontaneista va di pari passo con l’immagine di un Dio buonista, come nota giustamente un lettore che scrive: «Siamo ormai impregnati di una concezione riduttiva del concetto di Dio: un Dio buonista che ha deposto ogni sua maestà e che sollecita una confidenza quasi banale». E a questo Dio buonista ci si accosta, di conseguenza, «col linguaggio feriale e immediato, non più attento al senso dell’adorazione che fu richiamato a Mosè presso il roveto ardente».
È drammaticamente vero. E di questa incapacità di distinguere il sacro dal profano fa le spese la liturgia. Il che non è problema formale, perché quando si parla di liturgia la forma è sostanza.
E qui don Finotti va dritto al nocciolo della questione: «È un dato constatabile che è ormai molto diffusa una mentalità buonista su Dio per cui Egli è ritenuto così disponibile a noi e così facilmente accessibile da negare ogni sforzo di purificazione e di ricerca nel conoscere la sua volontà, discernere la sua parola e seguire le sue leggi. Un Dio buonista, facile nel rapporto e privo di ogni oscurità, diventa il riflesso della nostra psicologia, illudendoci davanti ad un idolo frutto della nostra fantasia. Un’idea a buon mercato di un Dio del tutto asservito ad ogni nostra inclinazione talvolta viene giustificata con il ricorso al termine evangelico Abbà, quasi che questa confidenza eliminasse ormai ogni residuo di maestà, di grandezza e di mistero. Un Dio così prossimo a noi da essere del tutto fungibile ad ogni nostra estrosità diventa un “dio fai da te”, che in definitiva ammette ogni capriccio della nostra fragile e contorta psicologia. Con una simile visione di Dio ogni forma liturgica è compromessa fin dalle sue radici più profonde in quanto il soggettivismo estremo intacca le basi stesse della spiritualità e del concetto di Dio e del rapporto intimo con lui nella vita spirituale».
Occorre riconoscere che, oggi, ci vuole del coraggio per parlare così. Ma il nodo sta tutto qua. Il degrado nell’azione liturgica è frutto di una teologia distorta, che ha messo l’uomo, e non Dio, sull’altare. Una teologia che chiede di celebrare l’uomo, non Dio.
Scrive ancora don Finotti: «Se si perde il senso interiore dell’adorazione e della soggezione alla maestà di Colui che rimane sempre ineffabile e al di là della nostra portata, non ci si può aspettare una forma liturgica conforme a precise regole oggettive e ispirata al gusto della grandezza e del mistero, connaturale alla forma classica della liturgia della Chiesa nell’intero arco della tradizione. È allora evidente che tutti coloro che sono vittime di una simile visione preferiscano lo spontaneismo, fuggano ogni sottomissione a norme rituali, e ritengano autentica una celebrazione il più possibile libera come la Messa celebrata in un prato o in un contesto ricreativo. La libertà estrosa del rapporto interiore con Dio privo di ogni orientamento oggettivo, di ogni verifica dottrinale conforme ad una sana ortodossia e di una consonanza con la tradizione disciplinare maturata nei secoli, si riflette in una liturgia in accordo con questo fragile stato interiore, che si declina nelle espressioni più disparate e contraddittorie che scaturiscono da una spiritualità già malata e selvaggia fin nei reconditi sentimenti dell’anima. La infinita bontà e misericordia di Dio non possono mai essere disgiunte dalla sua giustizia, la sua vicinanza e accondiscendenza non possono mai spogliarsi dalla sua maestà e il rispetto dei diritti divini non può mai essere disatteso impunemente dalla creatura, che “senza il creatore svanisce” (GS 36). Quindi la celebrazione retta della liturgia non può mai prescindere dal retto concetto di Dio e dalla recezione completa e sinfonica dei suoi attributi divini. La sana teologia sta quindi sempre alla base di una retta liturgia».
Che cosa aggiungere? Soltanto un sentito ringraziamento a don Enrico Finotti per questo suo servizio alla verità.
Aldo Maria Valli
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