E così dopo un arcivescovo (Marcelo Sánchez Sorondo) secondo il quale la Cina è il paese nel quale viene meglio applicata la dottrina sociale della Chiesa, adesso abbiamo anche il cardinale (Reinhard Marx) che non si fa troppi problemi nell’affermare (intervista alla Frankfurter Allgemeinen Sonntagszeitung) che senza Karl Marx non ci sarebbe dottrina sociale della Chiesa.
La Chiesa, lo abbiamo sempre saputo, è bella perché è varia e da un po’ di tempo la varietà ha superato ogni limite, ma la storia, almeno quella, andrebbe rispettata. E invece no. Invece ecco che il cardinale Marx, forse soggiogato psicologicamente dal suo più illustre omonimo compatriota, dopo aver sentenziato che «il mercato non ci porta automaticamente a una società giusta», dice di vedere nel marxismo un opportuno «correttivo» del capitalismo, dato che «prosperità e profitto non sono l’unica cosa a cui una società debba tendere».
Intervistato in occasione dei duecento anni dalla nascita di Marx (qui una sintesi tratta dal sito della Conferenza episcopale tedesca: http://www.katholisch.de/aktuelles/aktuelle-artikel/marx-ohne-karl-marx-keine-katholische-soziallehre), l’omonimo porporato ha detto che l’anniversario va ricordato per due ragioni: perché «le sue analisi [di Karl Marx] hanno contribuito alla nascita della dottrina sociale della Chiesa e perché il marxismo ha avuto il merito di ridurre i danni umani e ambientali provocati dal capitalismo. Come aveva già detto altrove, Reinhard Marx ha poi sostenuto che non si può attribuire a Marx (Karl) lo stalinismo e i gulag. Quelle sono state degenerazioni successive.
Commenta opportunamente Stefano Fontana (http://www.lanuovabq.it/it/ma-che-ignoranza-il-cardinale-marx): «Nelle affermazioni dell’arcivescovo Sorondo e ora in quelle del cardinale Marx non si riesce a capire se sia più profonda l’ignoranza sulla Cina per l’uno e sul marxismo per l’altro o se sia più profonda l’ignoranza della Dottrina sociale della Chiesa. Quest’ultima ipotesi è, naturalmente, più allarmante, trattandosi di due eminenti uomini di Chiesa. Ma è più probabile che le varie ignoranze procedano insieme».
Fontana va dritto al problema: «La riduzione del marxismo a incolore socialdemocrazia che vuole correggere le disfunzioni del mercato abbandonato al capitalismo, magari mediante l’intervento dello Stato, è ridicola, perché proprio contro queste posizioni “lassalliane” aveva lanciato i suoi strali Karl Marx. Ridurre il marxismo ad un fervorino moralista circa il profitto che non deve essere il fine ultimo della società [ma quando mai Marx avrebbe scritto queste cose?], vorrebbe dire trasformare quella ideologia in un’etica da Onlus. Intendere poi il “materialismo” marxista come una forma di “realismo” significa non aver letto nemmeno Maritain, il quale affermava che quando Marx dice “realismo” intende “materialismo”. Come poi un cardinale possa sostenere che sul materialismo possa fondarsi “uno dei primi scienziati sociali seri” è cosa che stupisce non poco».
E che dire della tesi secondo cui il marxismo del Manifesto avrebbe determinato la nascita della dottrina sociale della Chiesa? Semplicemente incomprensibile. «Ci fu un tempo in cui molti sostenevano che la Dottrina sociale della Chiesa sarebbe nata in ritardo, quindi dopo il marxismo e su sua influenza. Ma oggi nessuno sostiene più questa tesi. Innanzitutto perché la Chiesa si era mossa ben prima della Rerum novarum, specialmente in Germania con Von Ketteler, secondariamente perché quando esce il Manifesto del 1848 il marxismo come movimento non esisteva ancora. Ma anche esaminando la cosa dal punto di vista teorico e dottrinale e non solo da quello storico, la Dottrina sociale della Chiesa nasce per ridare il giusto posto a Dio nel mondo che le ideologie ottocentesche volevano usurpare per sé. La Dottrina sociale della Chiesa, dal punto di vista teoretico, nasce da Vangelo e dal diritto naturale e non dalla critica marxiana al capitalismo, e intende ripristinare i diritti di Dio nella società degli uomini. Di tutto il resto essa si occupa di conseguenza e solo in questa luce».
«La riduzione del marxismo operata dal cardinale Marx – prosegue Fontana – va quindi di pari passo con la riduzione della Dottrina sociale della Chiesa, presentata come un discorsetto sul profitto che non deve essere tutto o sui limiti del mercato. Per dire sciocchezze simili non c’era bisogno né del marxismo né della Dottrina sociale della Chiesa. Al marxismo non interessa niente della giustizia sociale, considerata un pregiudizio borghese, né dei diritti individuali, dato che l’uomo deve riscoprirsi come “essere generico”, e la critica al capitalismo non viene fatta in nome della persona umana e della sua dignità ma delle leggi materiali della storia che condurranno volenti o nolenti ad una società senza Dio, senza Stato e senza classi. Stabilire relazioni nominalistiche tra il Manifesto e la Rerum novarum è operazione infantile, un gioco di balocchi. Il marxismo è la negazione dell’uomo perché è la negazione di Dio. Tra di esso e la Dottrina sociale della Chiesa non può esserci nessun rapporto se non di contrapposizione».
Su ciò che separa nettamente socialismo e pensiero sociale della Chiesa può essere utile rileggere la Centesimus annus di san Giovanni Paolo II, l’enciclica scritta per i cent’anni dalla Rerum novarum di Leone XIII: «Approfondendo ora la riflessione e facendo anche riferimento a quanto è stato detto nelle encicliche Laborem exercens e Sollicitudo rei socialis, bisogna aggiungere che l’errore fondamentale del socialismo è di carattere antropologico. Esso, infatti, considera il singolo uomo come un semplice elemento ed una molecola dell’organismo sociale, di modo che il bene dell’individuo viene del tutto subordinato al funzionamento del meccanismo economico-sociale, mentre ritiene, d’altro canto, che quel medesimo bene possa essere realizzato prescindendo dalla sua autonoma scelta, dalla sua unica ed esclusiva assunzione di responsabilità davanti al bene o al male. L’uomo così è ridotto ad una serie di relazioni sociali, e scompare il concetto di persona come soggetto autonomo di decisione morale, il quale costruisce mediante tale decisione l’ordine sociale. Da questa errata concezione della persona discendono la distorsione del diritto che definisce la sfera di esercizio della libertà, nonché l’opposizione alla proprietà privata. L’uomo, infatti, privo di qualcosa che possa “dir suo” e della possibilità di guadagnarsi da vivere con la sua iniziativa, viene a dipendere dalla macchina sociale e da coloro che la controllano: il che gli rende molto più difficile riconoscere la sua dignità di persona ed inceppa il cammino per la costituzione di un’autentica comunità umana».
«Al contrario, dalla concezione cristiana della persona segue necessariamente una visione giusta della società. Secondo la Rerum novarum e tutta la dottrina sociale della Chiesa, la socialità dell’uomo non si esaurisce nello Stato, ma si realizza in diversi gruppi intermedi, cominciando dalla famiglia fino ai gruppi economici, sociali, politici e culturali che, provenienti dalla stessa natura umana, hanno — sempre dentro il bene comune — la loro propria autonomia. È quello che ho chiamato la “soggettività” della società che, insieme alla soggettività dell’individuo, è stata annullata dal “socialismo reale”».
«Se ci si domanda poi donde nasca quell’errata concezione della natura della persona e della “soggettività” della società, bisogna rispondere che la prima causa è l’ateismo. È nella risposta all’appello di Dio, contenuto nell’essere delle cose, che l’uomo diventa consapevole della sua trascendente dignità. Ogni uomo deve dare questa risposta, nella quale consiste il culmine della sua umanità, e nessun meccanismo sociale o soggetto collettivo può sostituirlo. La negazione di Dio priva la persona del suo fondamento e, di conseguenza, induce a riorganizzare l’ordine sociale prescindendo dalla dignità e responsabilità della persona. L’ateismo di cui si parla, del resto, è strettamente connesso col razionalismo illuministico, che concepisce la realtà umana e sociale in modo meccanicistico. Si negano in tal modo l’intuizione ultima circa la vera grandezza dell’uomo, la sua trascendenza rispetto al mondo delle cose, la contraddizione ch’egli avverte nel suo cuore tra il desiderio di una pienezza di bene e la propria inadeguatezza a conseguirlo e, soprattutto, il bisogno di salvezza che ne deriva».
Netta, nella Rerum novarum, fu la condanna della lotta di classe. Una condanna che san Giovanni Paolo II ribadisce: «Lotta di classe in senso marxista e militarismo, dunque, hanno le stesse radici: l’ateismo e il disprezzo della persona umana, che fan prevalere il principio della forza su quello della ragione e del diritto».
Come compito a casa per il cardinale Marx, ci permettiamo di suggerire un lavoretto proprio sulla Centesimus annus. In particolare, scrivere cento volte queste due frasi di san Giovanni Paolo II: «Non è possibile comprendere l’uomo partendo unilateralmente dal settore dell’economia, né è possibile definirlo semplicemente in base all’appartenenza di classe»; «Il marxismo aveva promesso di sradicare il bisogno di Dio dal cuore dell’uomo, ma i risultati hanno dimostrato che non è possibile riuscirci senza sconvolgere il cuore».
Aldo Maria Valli
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