Altri orrori “made in England”
Centinaia di pazienti morti dopo aver assunto combinazioni pericolose di farmaci. Questo il quadro emerso da un’inchiesta condotta in Inghilterra sul Gosport War Memorial Hospital, dove tra il 1989 e il 2000 almeno 456 persone sono decedute dopo aver ricevuto farmaci antidolorifici di cui non avevano bisogno.
Una dottoressa ora in pensione, Jane Barton, è stata individuata come la principale responsabile delle uccisioni nell’ospedale dell’Hampshire, ma più in generale è emersa una cultura dell’eutanasia che per anni ha coinvolto medici, dirigenti e infermieri.
Come spiega il sito Lifesitenews (https://www.lifesitenews.com/news/uk-government-funded-hospital-killed-456-patients-with-drug-overdoses-repor), la commissione d’indagine, Gosport Independent Panel, ha esaminato moltissimi elementi di prova, ha intervistato i familiari delle vittime e si è procurata la documentazione relativa a più di duemila pazienti.
Il quadro che ne esce è caratterizzato da un marcato disprezzo per la vita umana, con la tendenza ad accorciare la vita dei malati, soprattutto se anziani, attraverso la prescrizione e la somministrazione di “dosi pericolose” di una combinazione di farmaci clinicamente non giustificata, a carico di pazienti e parenti in condizioni di sudditanza rispetto al personale medico e infermieristico. Quando i parenti si lamentavano, non ottenevano risposte né spiegazioni.
Le prime richieste di indagini da parte dei parenti risalgono a vent’anni fa, e fin dall’inizio dell’inchiesta il gruppo indipendente che se n’è occupato ha riferito che i sospetti avevano un fondamento.
In seguito all’inchiesta, Norman Lamb, ex ministro della salute, ha chiesto una nuova indagine della polizia sulle morti avvenute nell’ospedale e l’attuale ministro della sanità, Jeremy Hunt, scusandosi a nome del governo e del servizio sanitario nazionale, ha dichiarato alla Camera dei Comuni che dalle indagini potrebbero scaturire accuse di rilevanza penale.
Dopo i casi dei bambini Charlie Gard e Alfie Evans, il National Health Service torna dunque nell’occhio del ciclone con accuse pesanti.
“Mia nonna era una delle seicentocinquanta persone che morirono a Gosport e non smetteremo di lottare per ottenere giustizia”, dice una dei testimoni, Bridget Reeves, nipote di Elsie Devine (https://www.independent.co.uk/voices/gosport-hospital-deaths-scandal-opiates-elderly-fighting-for-justice-a8413041.html)
“La nonna, ottantotto anni, è stata tenuta stesa a terra e le hanno iniettato cinquanta mg di un antipsicotico chiamato clorpromazina. Un’iniezione molto, molto dolorosa che normalmente parte da una dose di dieci 10 mg. Circa cinquanta minuti dopo, le hanno iniettato 40 mg di diamorfina e 40 mg di midazolam, quello che usano nel braccio della morte. La vita della nostra nonna è stata accorciata proprio dalle persone che avrebbero dovuto prendersi cura di lei”.
“Non vogliamo aspettare tanti anni per avere giustizia. Abbiamo bisogno di consulenza legale e stiamo raccogliendo fondi per assumere un avvocato che possa portare avanti la nostra causa. Abbreviare la vita significa uccidere, e le domande devono essere poste ai responsabili. Come possiamo vivere in un paese nel cui sistema sanitario può esserci questa brutalità e i responsabili se ne vanno in giro come se nulla fosse accaduto?”.
Nel rapporto si legge che sono passati più di ventisette anni da quando alcune infermiere dell’ospedale incominciarono a esprimere le loro preoccupazioni e vent’anni da quando le famiglie hanno incominciato a cercare risposte mediante un’indagine adeguata. Gli esperti hanno scoperto che ci furono coperture e che i motivi di preoccupazione espressi dai parenti furono ignorati a fatti oggetto di denigrazione. Oltre un milione le pagine dei documenti consultati per la prima volta nella loro interezza e in modo indipendente.
“Sì, le vostre preoccupazioni si sono dimostrate fondate”, hanno detto gli ispettori alle famiglie. “Il rapporto dimostra che la pratica di somministrare oppioidi in dosi elevate ha colpito molti pazienti. Gli oppioidi sono farmaci potenti, che apportano benefici significativi se usati in modo appropriato, ma comportano rischi proporzionati. L’analisi del gruppo d’indagine dimostra che le vite di moltissime persone sono state abbreviate come risultato diretto del modello di prescrizione e somministrazione di oppioidi, un modello diventato la norma nell’ospedale. In sintesi, il gruppo di esperti scientifici ha trovato evidenza di uso di oppiacei senza un’indicazione clinica appropriata in 456 pazienti, ma il gruppo conclude che, tenendo conto delle registrazioni mancanti, probabilmente ci sono stati almeno altri duecento casi simili”.
Dai documenti esaminati, si legge nel rapporto, risulta che spesso le dosi massicce di farmaci furono somministrate mentre il medico non era in reparto e non poteva prescriverle. Risulta poi che l’uso inappropriato di oppioidi non clinicamente giustificati divenne sempre più comune durante gli anni, creando una situazione in cui la disponibilità di farmaci potenti e potenzialmente letali per un gran numero di pazienti era diventata abituale.
I documenti mostrano inoltre che i pazienti erano considerati vicini alla morte al di là delle loro reali condizioni, senza giustificazioni cliniche e senza tener conto delle opinioni degli stessi pazienti e delle famiglie. I pazienti coinvolti non erano ricoverati per ricevere cure da fine vita, ma per riabilitazione e altre terapie.
Significativa è la parte del rapporto in cui si parla della “cultura” che vigeva nell’ospedale. Quella cultura, si legge, era anche l’eredità del concetto di libertà clinica, secondo il quale le decisioni mediche non possono essere messe in discussione da altri medici e dirigenti. Verso la fine degli anni Novanta, in virtù delle nuove normative introdotte in materia di qualità dell’assistenza clinica e sicurezza dei pazienti, era lecito aspettarsi un miglioramento della situazione, ma i documenti provano l’incapacità da parte dei responsabili dell’ospedale di rispondere efficacemente alle preoccupazioni relative alla prescrizione di oppiacei sollevata da un medico, consulente esterno, che fornì una relazione già nel 1999. Insomma, il concetto di “libertà clinica” è stato usato per legittimare la partica dell’eutanasia.
Il rapporto, che si conclude con precise accuse anche alla polizia, rea di non aver preso in considerazione le segnalazioni e non aver indagato, si conclude affermando che “nulla può restituire alle famiglie i loro cari, le cui vite sono state abbreviate”. Ora tuttavia gli esperti invitano sia il ministro per la sanità e l’assistenza sociale sia le autorità investigative competenti “a riconoscere il significato di quanto rivelato dalla documentazione e ad agire di conseguenza”.
Aldo Maria Valli