Pena di morte e nuovo Catechismo: forzatura o riforma nella continuità?

Continuano a essere numerosi i commenti al cambiamento introdotto da Francesco nel Catechismo della Chiesa cattolica a proposito di pena di morte.
Due i fronti: da un lato chi ritiene che la nuova versione, fondata su motivazioni che attengono alle scienze sociali e non alla dottrina morale, sia in contraddizione con l’insegnamento della Chiesa lungo duemila anni; dall’altro chi vede invece nel cambiamento una decisione legittima e necessaria, un esempio di riforma nella continuità animata dallo Spirito Santo.
Quanto al primo fronte, tra i commenti più recenti c’è quello di Edward Feser, autore con Joseph M. Bessette del libro By Man Shall his Blood Be Shed. A Catholic Defense of Capital Punishment (Ignatius Press), che in un articolo per il Catholic Herald (http://www.catholicherald.co.uk/commentandblogs/2018/08/08/the-new-wording-on-the-death-penalty/) scrive: “La nuova formulazione sembra logicamente implicare che la Scrittura, i precedenti Catechismi della Chiesa e precedenti papi, incluso san Giovanni Paolo II, abbiano tutti indotto i fedeli a un grave errore morale”.
L’elemento più problematico della revisione, osserva Feser (che è docente di filosofia al Pasadena City College), è l’affermazione che la pena di morte è inammissibile perché è un attacco all’inviolabilità e alla dignità della persona. Nelle Scritture infatti ci sono molti passaggi che non solo consentono, ma in alcuni casi comandano la pena capitale. Per fare solo due esempi, Esodo 21:12 afferma che “colui che colpisce un uomo causandone la morte sarà messo a morte” e in Levitico 24:17 troviamo che “chi percuote a morte un uomo dovrà essere messo a morte”. Qui dunque sembra che la Scrittura comandi un attacco all’inviolabilità e alla dignità della persona. Eppure la Chiesa insegna anche che la Scrittura è ispirata divinamente e non può insegnare l’errore morale. Dunque?
Poi c’è l’insegnamento dei papi precedenti. Ad esempio, Innocenzo III chiese agli eretici valdesi di affermare la legittimità della pena capitale come condizione della loro riconciliazione con la Chiesa. “In altre parole, il papa insegnò che la legittimità della pena capitale è una questione di ortodossia cattolica”. Ma, se così è, “la revisione di papa Francesco al Catechismo sembra implicare che gli eretici hanno sempre avuto ragione e che papa Innocenzo ha condotto i fedeli a un grave errore morale”.
Per fare un altro esempio, la versione del Catechismo del 1997, promulgata da Giovanni Paolo II, sebbene spieghi che i casi in cui la condanna è veramente necessaria sono molto rari e praticamente inesistenti, afferma che “l’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude il ricorso alla pena di morte”. Ma, se così è, il cambiamento introdotto da Francesco implica che san Giovanni Paolo II ha insegnato che la Chiesa non esclude ciò che equivale a un attacco all’inviolabilità e alla dignità della persona.
Poi c’è il Catechismo Romano promulgato da san Pio V, e a lungo usato dalla Chiesa, secondo il quale l’autorità civile, quando punisce il colpevole con la morte, protegge la conservazione e la sicurezza della vita umana. E quindi, di nuovo, si pone il problema: quel papa era in errore?
Il succo, dice Feser, sta nel fatto che la correzione introdotta da Francesco implica che la Chiesa (Scritture, papi, dottori della Chiesa) per due millenni ha insegnato ai fedeli l’errore morale, ma ciò è incompatibile con l’idea, che la Chiesa rivendica, secondo la quale il magistero della Chiesa è sempre affidabile.
A giudizio di Feser, poi, la revisione si basa su “asserzioni empiriche che sono alquanto discutibili”. Davvero la pena di morte “è inutile” al fine di proteggere le persone innocenti, come si legge nella lettera della Congregazione per la dottrina della fede? E davvero “sistemi di detenzione più efficaci” sono in grado di garantire la difesa dei cittadini? E davvero la pena di morte non ha valore deterrente, come sembra pensare ora la Chiesa? Qui siamo nel campo delle scienze sociali e del totalmente opinabile, un terreno rispetto al quale, dice Feser, la Chiesa non ha, né deve avere, competenze specifiche. Pertanto non è su queste basi che la Chiesa deve formulare e giustificare le proprie affermazioni.
Su un fronte ben diverso da quello di Feser si pone il commento di Giovanni Marcotullio Pena di morte e Catechismo: la “riforma nella continuità” (https://it.aleteia.org/2018/08/03/ccc-2267-pena-morte-riforma/), che parte da una precisazione su ciò che si deve intendere per “dottrina”: non un blocco unico, ma un insieme di varie branche: “De fide (tutto ciò che riguarda il contenuto del depositum fidei), De fide revelata (ad esempio il Regno di Dio), De fide definita (ad esempio la consustanzialità del Figlio al Padre), De fide revelata et definita (ad esempio il dogma cristologico calcedonese)”. E “poi ci sono questioni di morale e di disciplina, che dipendono più o meno direttamente dalle questioni de fide, e che sono tanto più riformabili quanto più sono distanti dai contenuti veri e propri della fede cattolica”. Conseguenza? “Chiunque vede bene che la moralità della pena di morte è molto (ma molto) distante da qualsivoglia contenuto della fede cristiana”. Pertanto “desta stupore che si debba spiegare che è il diritto alla legittima difesa a doversi conciliare con il decalogo e col comandamento nuovo… e non il contrario”.
“A chi poi sappia anche leggere un poco i documenti sarà evidente che già Giovanni Paolo II fece tutto quanto poteva, dopo l’abolizione della pena capitale nello Stato pontificio (Paolo VI), scrivendo nel Catechismo che nelle attuali condizioni dello stato civile e sociale la pena di morte resta solo teoricamente ammissibile ma praticamente sempre da scartare. Dopo di questo Benedetto XVI si fece più audace nel chiedere addirittura alla comunità degli Stati di abolire in toto la pena di morte, e dunque il rescritto di Francesco, col quale si ritocca quel (nient’affatto irriformabile) articolo del CCC, è non solo lecito ma un esito naturale e prevedibile del recente trend magisteriale. Si potrebbe ravvisare in questo caso un esempio pratico dell’ermeneutica della riforma nella continuità di cui parlava Benedetto XVI nel celeberrimo discorso di Natale alla Curia romana del 2005”.
Ma un altro punto è sottolineato da Marcotullio. Quando in Gv 16,13 leggiamo che lo Spirito Santo «vi guiderà a tutta la verità», essendo Egli stesso «lo Spirito di Verità» (cf. Gv 14,17; 15,26; 16,13), vediamo che “ci sono dunque dei processi ineludibili di adesione alla Verità nello Spirito Santo che non sono terminati” e che da parte dei fedeli cattolici dovrebbero implicare “adesione allo stesso Spirito, discernimento nello Spirito Santo ed evitare la ‘bestemmia allo Spirito Santo’ che è anche quell’atteggiamento (talvolta habitus) che in nome della Dottrina impedisce alla Dottrina stessa di volgere alla Verità tutta intera nell’azione dello stesso Spirito”.
A giudizio di Marcotullio, molte reazioni negative, o addirittura indignate, alla revisione introdotta da Francesco sono, come si suol dire, emblematiche. Nascono cioè da una vita spirituale povera e priva di autentica esperienza di Chiesa. Così, anziché lasciar fare allo Spirito Santo, ci riduciamo facilmente “a cercare come volpi deformi ed in agguato la parola mal detta dal Santo Padre, dal Vescovo, dal sacerdote e dal fratello”, e “questo è un cancro”.
Come si vede, il dibattito è più che mai aperto.
Aldo Maria Valli

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