L’11 agosto è stato l’anniversario della morte del beato John Henry Newman, il grande convertito dall’anglicanesimo. Avrei desiderato ricordarlo il giorno stesso, ma non ce l’ho fatta.
Non è certamente questa la sede per ripercorrere la vicenda umana e spirituale di Newman, né di tornare sul primato della coscienza, e dunque della verità, pensiero così centrale, e così attuale, nella sua riflessione. Vorrei puntare invece l’attenzione, sia pure in breve, su due aspetti del suo insegnamento, che si riassumono in altrettante parole assai desuete: la prima parola è battaglia e la seconda è dogma.
Opporsi al mondo
Un’affermazione di Newman, contenuta dei Sermoni, mi ha sempre colpito: «È compito specifico del cristiano opporsi al mondo».
Un’asserzione alquanto netta, non c’è che dire. E forse avventata, almeno per la nostra sensibilità odierna. Noi infatti, e intendo anche noi cattolici, siamo ormai abituati a ragionare in termini di dialogo con il mondo, al più di «confronto», ma mai di opposizione.
Newman invece ci riporta a una realtà dimenticata. La vita del cristiano è una battaglia. Come in tutte le battaglie, c’è un nemico al quale opporsi e poiché nel mondo l’azione del nemico è così penetrante e incisiva, opporsi al mondo è doveroso e necessario. Sempre che si voglia essere cristiani sul serio.
Numerose sono le pagine dedicate dal cardinale Newman all’identikit del cristiano, ma ecco qui un pensiero che fa al caso nostro: «La battaglia è il vero contrassegno del cristiano». Sì, avete letto bene: battaglia. Non ci sono scorciatoie, non c’è spazio per compromessi. Il cristiano «è un soldato di Cristo».
«Ma queste – direte – sono cose d’altri tempi: la Chiesa non parla più così» È vero. Ma mi permetterei di aggiungere: purtroppo.
La battaglia è la condizione abituale del cristiano. Ovviamente anche nei confronti di se stesso. Sentite ancora Newman: «Se avete domato interamente il peccato mortale, non vi resta che aggredire i peccati veniali in voi; non c’è scampo, altro non rimane da fare, posto che siate soldati di Gesù Cristo».
Non a caso, alla fine della vita, l’apostolo Paolo dice: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» (2 Tm 4,7).
Forse il dono più velenoso che si può fare al cristiano consiste nel fargli perdere questa dimensione, che è letteralmente agonistica, per trasformarlo in un’anima perennemente accogliente e dialogante, ovviamente sulla base di un acconcio discernimento.
Necessità del dogma
E ora la seconda parola: dogma.
Una volta, parlando di Newman, l’allora cardinale Joseph Ratzinger (se lo si vuole leggere interamente si può andare nel sito www.oratoriosanfilippo.org, dove c’è la traduzione della relazione tenuta da Ratzinger nel centenario della morte di Newman durante un simposio organizzato dal Centro degli Amici di Newman il 28 aprile 1990) spiegò che nel cammino di conversione di Newman un passo decisivo fu il superamento del soggettivismo a favore di una concezione del cristianesimo fondata sul dogma.
Dogma? Ecco qua un’altra parola oggi quasi impronunciabile.
Ma sentiamo Ratzinger: «A questo proposito trovo sempre grandemente significativa, ma particolarmente oggi, una formulazione tratta da una delle sue prediche dell’epoca anglicana. Il vero cristianesimo si dimostra nell’obbedienza, e non in uno stato di coscienza. “Così tutto il compito e il lavoro di un cristiano si organizza attorno a questi due elementi: la fede e l’obbedienza; egli guarda a Gesù (Eb 2, 9) e agisce secondo la sua volontà. Mi sembra che oggi corriamo il pericolo di non dare il peso che dovremmo a nessuno dei due. Consideriamo qualsiasi vera e accurata riflessione sul contenuto della fede come sterile ortodossia, come astruseria tecnica. Di conseguenza facciamo consistere il criterio della nostra pietà nel possesso di una cosiddetta disposizione d’animo spirituale” (J.H. Newman, Parochial and Plain Sermons, II)».
Priorità dello zelo sulla benevolenza
E aggiungeva il futuro papa Benedetto XVI: «A questo riguardo sono diventate per me importanti alcune frasi prese dal libro Gli Ariani del IV secolo, che invece a prima vista mi erano sembrate piuttosto sorprendenti: il principio posto dalla Scrittura a fondamento della pace è “riconoscere che la verità in quanto tale deve guidare tanto la condotta politica che quella privata e che lo zelo, nella scala delle grazie cristiane, aveva la priorità sulla benevolenza”. È per me sempre di nuovo affascinante accorgermi e riflettere come proprio così e solo così, attraverso il legame alla verità, a Dio, la coscienza riceve valore, dignità e forza».
Mi fermo qui. Mi sembra ce ne sia a sufficienza per una salutare riflessione in questi nostri tempi nei quali la Chiesa appare tanto affascinata dalla benevolenza data e ricevuta.
Permettetemi soltanto di ricordare che domani, 21 agosto, la Chiesa ricorderà san Pio X, Giuseppe Sarto, papa dal 1903 al 1914, il pontefice della Pascendi (l’enciclica sugli errori del modernismo, «sintesi di tutte le eresie»), del Catechismo maggiore e di quel Catechismo della dottrina cristiana nel quale a un certo punto (n. 266), con la tipica (e utilissima) formula della domanda e della risposta, troviamo scritto: «Possono essere veramente felici quelli che seguono le massime del mondo? Quelli che seguono le massime del mondo non possono essere veramente felici, perché non cercano Dio, loro Signore e loro vera felicità; e così non hanno la pace della coscienza, e camminano verso la perdizione».
Aldo Maria Valli