“Dottore, avrei bisogno di vederla”.
Il tono della voce è tranquillo, ma avverto una nota di apprensione. Al telefono c’è monsignor Carlo Maria Viganò, l’ex nunzio negli Stati Uniti.
Non nascondo la mia sorpresa. Ci siamo visti qualche volta, in occasione di convegni pubblici, ma non possiamo dire di conoscerci.
Mi spiega che è un mio assiduo lettore, che apprezza il mio coraggio e la mia chiarezza, qualche volta unita all’ironia. Lo ringrazio e chiedo: ma perché vederci?
La risposta è che non può dirlo al telefono.
Va bene, allora vediamoci, ma dove?
Ingenuamente propongo la mia redazione, oppure il baretto a pochi metri, che è la mia redazione bis.
“No, no, per carità. Il più lontano possibile dal Vaticano, lontano da occhi indiscreti”.
Per carattere non sono un complottista, ma avverto che il monsignore è seriamente preoccupato.
“Allora a casa mia? A cena? La avverto che ci sarà mia moglie e ci saranno alcune delle figlie”.
“A casa sua va benissimo”.
“Devo venirla a prendere?”.
“No, no, verrò io, con la mia macchina”.
E così avviene.
Quando l’arcivescovo arriva, in una tiepida serata di quasi estate, vedo un uomo più anziano di come lo ricordavo. Sorride, ma si capisce subito che qualcosa lo opprime. Ha un peso nel cuore.
Dopo le presentazioni di moglie e figlie, e dopo che lui ha benedetto la tavola, per stemperare un po’ la tensione scherziamo sulle nostre comuni radici lombarde (lui è di Varese, noi di Rho). Il monsignore è arrivato all’ora stabilita, spaccando il minuto: a Roma è molto raro che avvenga.
Poi Viganò entra subito in argomento. È preoccupato per la Chiesa, teme che ai suoi vertici ci siano persone che non lavorano per portare il Vangelo di Gesù agli uomini e alle donne del nostro tempo, ma per portare confusione e cedere alle logiche del mondo. Poi incomincia a raccontare della sua lunga esperienza in Segreteria di Stato, a capo del Governatorato della Città del Vaticano e come nunzio, in Nigeria e negli Stati Uniti. Fa tanti nomi e cita tante circostanze. Per mia moglie e per le mie ragazze non è agevole seguirlo. Io stesso, pur facendo il vaticanista da più di vent’anni, a tratti faccio fatica a orientarmi. Ma non lo interrompiamo perché capiamo che ha bisogno di parlare. L’impressione è che sia un uomo solo e triste per ciò che vede attorno a sé, ma non inasprito. Nelle sue parole non c’è mai una parola cattiva nei confronti delle tante persone che cita. I fatti sono eloquenti. A volte sorride e mi guarda, come per dire: “Che cosa dobbiamo fare? C’è una via d’uscita?”.
Mi dice che mi ha chiamato perché, pur non conoscendomi di persona, mi stima, soprattutto per il coraggio e la libertà che dimostro. Aggiunge che il mio blog è letto e apprezzato anche nei “sacri palazzi”, sebbene non tutti lo possano dire apertamente.
Gli chiedo qualcosa a proposito della sua esperienza al Governatorato e ci racconta di come riuscì a far risparmiare alle casse del Vaticano un bel po’ di quattrini, facendo rispettare le regole e mettendo ordine nei conti.
Commento: “Beh, monsignore, dopo quel repulisti di certo non si sarà fatto degli amici!”. Sorride di nuovo e risponde: “Lo so bene! Ma se non l’avessi fatto non avrei rispetto di me stesso”.
È un uomo con un profondo senso del dovere. Almeno così ci sembra. In pochi minuti fra noi si stabilisce una sintonia.
Mia moglie, catechista in parrocchia, e le ragazze restano letteralmente senza parole di fronte a certi racconti. Dico sempre, scherzando ma non troppo, che i buoni cattolici non dovrebbero sapere come funzionano le cose nelle alte gerarchie, e questa sera ne ho la conferma. Tuttavia non sono pentito di aver invitato l’arcivescovo a casa. Credo che la testimonianza dolente di quest’uomo, di questo anziano servitore della Chiesa, ci stia dicendo qualcosa di importante. Qualcosa che, pur nel dolore e nello sconcerto, può aiutare la nostra vita di fede.
Dice il monsignore: “Ho settantasette anni, sono alla fine della mia vita. Il giudizio degli uomini non mi interessa. L’unico giudizio che conta è quello del buon Dio. Lui mi chiederà che cosa ho fatto per la Chiesa di Cristo e io voglio potergli rispondere che l’ho difesa e servita fino all’ultimo”.
La serata trascorre così. Abbiamo la netta sensazione che sua eccellenza non si sia neppure reso conto di che cosa aveva nel piatto. Tra un boccone e l’altro non ha mai smesso di parlare.
Quando lo riaccompagno alla sua vettura mi chiedo: ma, alla fin fine, perché ha voluto vedermi? Per rispetto, e per mancanza di confidenza, non gli pongo la domanda, ma, prima di congedarci, lui mi dice: “Grazie, ci rivedremo. Non mi chiami. Mi farò vivo io”. E sale in macchina.
Sono un giornalista e dunque in questi casi il primo impulso è quello di mettermi al computer e scrivere tutto ciò che mi ha raccontato, ma mi trattengo. Il monsignore non mi ha vietato di scrivere. Anzi, in proposito non mi ha detto proprio nulla. Però è fuori discussione che mi ha fatto alcune rivelazioni. Capisco allora che l’incontro è stato una specie di prova. L’arcivescovo ha voluto vedere se di me si può fidare.
Passa più di un mese e mi chiama di nuovo. La richiesta è uguale all’altra volta: “Possiamo vederci?”.
“Certo che sì. Facciamo di nuovo a casa mia? L’avverto però che ci sarà una figlia in più, la maggiore, e ci saranno anche i suoi due figli, i nostri nipotini”.
“Non importa”, dice Viganò. “L’importante è che noi due a un certo punto ci ricaviamo uno spazio per parlare”.
E così sua eccellenza l’ex nunzio negli Usa torna a trovarci. E questa volta ci sembra un po’ meno teso. Si vede che gli fa piacere stare con questa grande famiglia un po’ chiassosa. A un certo punto il suo cellulare squilla. Una videochiamata dagli Stati Uniti. È la nipote: “Oh scusa zio, non volevo disturbare!”. Viganò sorride divertito e mostra con il cellulare tutta la combriccola a tavola, compresi i nipotini. “Che bella compagnia!”, dice la nipote. E poi, rivolta a me: “Approfitto dell’occasione per dirle che la stimo molto”.
La tensione si stempera. Il nostro nipotino di tre anni ronza attorno al monsignore e lo chiama Carlo Maria. Viganò è divertito e sembra che per qualche istante abbia dimenticato i suoi crucci.
Ma di nuovo, dopo la benedizione della tavola, l’arcivescovo è un fiume in piena. Tanti racconti, tante circostanze, tanti nomi. Ma questa volta si concentra di più sugli anni americani. Cita il caso McCarrick, l’ex cardinale riconosciuto colpevole di gravissimi abusi, e fa capire che tutti sapevano, negli Usa e in Vaticano, da molto tempo, da anni. Eppure hanno coperto.
Chiedo: proprio tutti tutti?
Con un cenno del capo l’arcivescovo risponde di sì: proprio tutti.
Vorrei fare altre domande, ma non è facile inserirsi nel flusso ininterrotto di date, notizie, incontri, nomi.
Il succo è che anche papa Francesco, secondo Viganò, sapeva. Eppure ha lasciato che McCarrick circolasse indisturbato, facendosi beffe dei divieti che gli erano stati imposti da Benedetto XVI. Francesco sapeva almeno dal marzo del 2013, quando lo stesso Viganò, rispondendo a una domanda del papa durante un incontro faccia a faccia, gli disse che su McCarrick in Vaticano c’è un corposo dossier e non c’è che da leggerlo.
Rispetto al nostro precedente incontro c’è la novità delle risultanze emerse dall’indagine del gran giurì della Pennsylvania, e Viganò conferma che il quadro tracciato è corretto. Gli abusi sessuali costituiscono un fenomeno più esteso di quanto si possa immaginare, e non è corretto parlare di pedofilia, perché nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di chierici omosessuali che vanno a caccia di maschi adolescenti. Più corretto, dice il monsignore, è parlare semmai di efebofilia. Ma il punto è che la rete di complicità, omertà, coperture e reciproci favori è estesa al di là di ogni dire, e coinvolge tutti i vertici, sia in America sia a Roma.
Noi restiamo, ancora una volta, allibiti. A causa del mio lavoro qualcosa avevamo intuito, ma per dei cattolici come noi, nati e cresciuti nel seno della Madre Chiesa, è davvero difficile mandar giù un simile boccone.
La mia domanda è quindi la più ingenua possibile: perché?
E la risposta del monsignore ci gela il sangue: “Perché quelle fessure di cui parlava Paolo VI, dalle quali il fumo di Satana si sarebbe infilato nella casa di Dio, sono diventate voragini. Il diavolo sta lavorando alla grande. E non ammetterlo, o girare la faccia dall’altra parte, sarebbe il nostro più grande peccato”.
Mi accorgo che quel momento a tu per tu, al quale il monsignore teneva tanto, non c’è stato. Ha parlato davanti a tutti. Gli chiedo se vuole che io e lui ci trasferiamo in un’altra stanza, senza moglie, figlie e nipotini, ma lui dice di no, va bene così. Si capisce che si trova bene. Per noi è un po’ come ascoltare un nonno che ci fa dei racconti su mondi lontani, e vorremmo tanto che a un certo punto dicesse che è solo fiction. Invece il mondo del quale sta parlando è il nostro. È la nostra Chiesa. Sono i nostri supremi pastori.
Resta la domanda di fondo: perché il monsignore ci sta raccontando tutto questo? Che cosa vuole da me?
Questa volta glielo chiedo e la risposta è che lui ha scritto un memoriale nel quale ci sono tutte le circostanze di cui ci ha parlato. Compreso l’incontro del 23 giugno 2013 con il papa, quando lui, Viganò, informò Francesco del dossier su McCarrick.
Dunque?
“Dunque – mi dice – se lei me lo consente io le farò avere il mio memoriale, che dimostra che il papa sapeva e non ha agito. E poi lei, dopo averlo valutato, deciderà se pubblicarlo o meno nel suo blog, che è tanto seguito. Voglio che si sappia. Non lo faccio a cuor leggero, ma penso che sia l’unica strada rimasta per tentare una svolta, una conversione autentica”
“Capisco. Lo darà solo a me?”
“No. Lo darò a un altro blogger italiano, a un inglese, a un americano e un canadese. Verranno fatte traduzioni in inglese e spagnolo”.
Anche questa volta il monsignore non mi chiede la riservatezza. Capisco che si fida. Restiamo dunque d’accordo che, su sua richiesta, ci incontreremo di nuovo e mi passerà il memoriale.
Dopo qualche giorno infatti mi richiama e prendiamo accordi. Non posso dire dove ci siamo visti, perché ho dato la mia parola.
Il monsignore si presenta con occhiali da sole e un berretto da baseball. Chiede che la mia prima lettura del documento avvenga davanti a lui, così, dice, “se qualcosa non la convince possiamo discuterne subito”.
Leggo tutto. Sono undici pagine. Lui si stupisce per la mia velocità e mi guarda: “Allora?”
Dico: “È forte. Circostanziato. Scritto bene. Un quadro drammatico”.
Chiede: “Lo pubblicherà?”.
“Monsignore, lei si rende conto che è una bomba? Che cosa dobbiamo fare?”.
“Lo affido a lei. Ci pensi”.
“Monsignore, lo sa che diranno? Che lei si vuole vendicare. Che è roso dal rancore per essere stato allontanato dal Governatorato e per altre vicende. Che è lei il corvo che fece uscire le carte di Vatileaks. Diranno che lei è un instabile, oltre che un conservatore della peggior specie”.
“Lo so, lo so. Ma non me ne importa nulla. L’unica cosa che mi importa è portare a galla la verità, perché possa incominciare una purificazione. Al punto in cui siamo non c’è altra via”.
Io non sono angosciato. Dentro di me, in fondo, ho già preso la decisione di pubblicare, perché sento che di quest’uomo mi posso fidare. Ma mi chiedo: “Che effetto farà sulle anime più semplici? Sui buoni cattolici? Non rischiamo di fare più male che bene?”.
Mi accorgo che ho formulato la domanda a voce alta e il monsignore risponde: “Ci pensi. Valuti con calma”. Ci stringiamo la mano. Lui si toglie gli occhiali scuri e ci guardiamo dritto negli occhi.
Il fatto che non mi forzi, che non appaia ansioso di vedermi pubblicare tutto quanto, fa sì che io mi fidi ancora di più di lui. Una sua manovra? Mi sta manipolando?
A casa ne parlo con Serena e con le ragazze. Per me il loro consiglio è sempre molto importante. Che fare?
Sono giorni di domande. Rileggo il memoriale. È circostanziato, ma ovviamente si tratta della versione di Viganò. Penso che i lettori lo capiranno. Io proporrò la versione dell’arcivescovo dopo di che, se qualcuno avrà argomenti in senso contrario, proporrà altre versioni.
Mia moglie mi fa presente: “Ma se lo pubblicherai penseranno che, per il fatto stesso di pubblicarlo, tu stai dalla sua parte. Ti va?”.
Sì, mi va. Mi giudicheranno di parte? Pazienza. Del resto io sono di parte. Quando faccio il cronista faccio il cronista e basta, cercando di essere il più asettico possibile, ma nel mio blog mi sono già ampiamente schierato e i lettori sanno bene come la penso rispetto a una certa piega che la Chiesa ha preso negli ultimi anni. Se poi qualcuno mi proporrà documenti che provano che Viganò mente, o che la sua versione dei fatti è incompleta o scorretta, sarò ben lieto di pubblicare anche quelli.
Sento il monsignore al telefono. Gli comunico la mia decisione. Concordiamo il giorno e l’ora della pubblicazione. Dice che nello stesso giorno e alla stessa ora pubblicheranno anche gli altri. Ha deciso per domenica 26 agosto perché il papa, di ritorno da Dublino, avrà modo di replicare rispondendo alle domande dei giornalisti in aereo. Mi avverte che tra coloro che pubblicheranno si è aggiunto il quotidiano “La Verità”. Mi dice che ha già acquistato un biglietto aereo. Andrà all’estero. Non mi può dire dove. Non lo dovrò cercare. Il vecchio numero di cellulare non sarà più in funzione. Ci salutiamo per l’ultima volta.
Così è andata. Non che i dubbi dentro di me siano finiti. Ho fatto bene? Ho fatto male? Continuo a chiedermelo. Ma sono sereno. E rileggo le parole che monsignor Vigano ha scritto a conclusione del suo memoriale: “Preghiamo tutti per la Chiesa e per il papa, ricordiamoci di quante volte ci ha chiesto di pregare per lui! Rinnoviamo tuti la fede nella Chiesa nostra madre: Credo la Chiesa, una, santa, cattolica, apostolica! Cristo non abbandonerà mai la sua Chiesa! L’ha generata nel suo sangue e la rianima continuamente con il suo Spirito! Maria, Madre della Chiesa, prega per noi! Maria Vergine Regina, Madre del Re della gloria, prega per noi!”.
Aldo Maria Valli