Confesso che sto seguendo il sinodo dei vescovi sui giovani con l’occhio sinistro, quello che vede ancora meno dell’altro e che impiego per le cose che non mi entusiasmano. Lo so, non dovrei, ma è più forte di me. Già di per sé, ogni ragionamento che fa dei giovani una categoria mi convince poco. Come se i giovani fossero una specie animale particolare. In realtà i giovani, esattamente come gli adulti e i vecchi, dalla Chiesa hanno bisogno di ricevere retta dottrina, liturgia rispettosa e riaffermazione delle verità eterne. Per il settore “accoglienza & divertimento” possono benissimo rivolgersi altrove.
Ma ciò che mi fa venire l’orticaria è il diluvio di affermazioni ecclesialmente corrette dispensate quasi ogni giorno. E qui vorrei citare la gentile signora Silvia Teresa Retamales Morales, del Cile, che sta partecipando al sinodo in quanto delegata laica.
Secondo Silvia, intervenuta a uno degli incontri organizzati nella sala stampa vaticana, anche i non cattolici e i non cristiani, vogliono “una Chiesa più aperta, una Chiesa multiculturale aperta a tutti, che non dovrebbe giudicare, una comunità che fa sentire tutti a casa propria, riflettendo il messaggio di Cristo”.
Ora, premesso che non riesco a capire a quale titolo un giovane non cattolico e non cristiano possa fare richieste alla Chiesa cattolica, tutta questa domanda di “apertura”, di “multiculturalismo” e di una Chiesa “non giudicante” mi sembra proprio ideologica. Uno slogan, ripetuto ormai stancamente. E per il quale il mio malandato occhio sinistro può bastare.
Ma alla fin fine dov’è che si vuole arrivare? Sempre lì, alla questione Lgbt.
“La Chiesa – dice infatti Silvia – non dovrebbe discriminare le minoranze o le persone con differenti orientamenti sessuali o che sono più povere”. Eccoci. I giovani vogliono “una Chiesa più accogliente verso le persone fragili” e naturalmente “un ruolo più rappresentativo per le donne”. Gli omosessuali, dice Silvia, sono persone che “hanno gli stessi diritti che abbiamo tutti”, che “vivono la loro fede all’interno della Chiesa” e che dovrebbero “sentirsi figli di Dio, non come problemi”. Quindi no alla “discriminazione” attuata da persone che “non aprono le braccia per accogliere e accettare gli omosessuali”.
Forse la gentile Silvia non ha letto il Catechismo della Chiesa cattolica, dove non c’è una sola parola contro le persone con orientamento omosessuale, e dove anzi si chiede che queste persone siano trattate con rispetto. Rileggo, a beneficio dei distratti, il testo del Catechismo: “Un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta tendenze omosessuali profondamente radicate. Questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro una prova. Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione” (n. 2358).
Si vuole che la Chiesa tolga dal Catechismo l’affermazione secondo la quale l’omosessualità è un’inclinazione oggettivamente disordinata? E allora lo si dica apertamente, senza tanti giri di parole. Almeno sarà possibile intavolare un confronto.
Invece no. Invece l’ecclesialmente corretto segue altre strade. Dice infatti Silvia: “La Chiesa, il cui primo mandato è l’amore, deve riconoscere pienamente questi fratelli e sorelle come persone che hanno bisogno di essere accompagnate da noi. La Chiesa deve essere più inclusiva. E dobbiamo aiutare i nostri fratelli e sorelle che hanno un diverso orientamento sessuale, ma che vogliono far parte della Chiesa”.
Con il che Silvia non si accorge che sta discriminando. Perché le persone omosessuali credenti che io conosco non vogliono nulla di simile a un accompagnamento speciale. Infatti, è proprio nel momento in cui le consideri come “fragili” (parola che va di moda oggi) che le discrimini.
Ascoltando gli interventi di Silvia e di altri sembra di essere all’assemblea dell’Onu, non a un incontro cattolico.
La Chiesa cattolica, proprio perché cattolica, ovvero universale, è “multiculturale”, “multirazziale” e “globale” di per sé, e lo è da sempre. È quindi “aperta a tutti” fin dalla sua fondazione da parte di Gesù. Sulla faccia della terra non c’è nulla di più multiculturale della Chiesa cattolica. La puoi trovare ovunque perché è ovunque. Ma è ovunque in quanto Chiesa cattolica, ovviamente, cioè con i suoi tratti distintivi ben chiari, evidenti e riconoscibili.
In qualsiasi parrocchia puoi trovare persone di ogni cultura e provenienza, e anche preti ormai arrivano da ogni parte del mondo. Tutti, da sempre, sono i benvenuti, e da ben prima che qualcuno si facesse prendere da questa ossessione per la Chiesa “inclusiva”.
La realtà è che si può essere “inclusivi” e accoglienti solo se si ha qualcosa da proporre, e qualcosa di chiaro. Ecco qual è la vera accoglienza. Se ciò che si propone è una melassa di sentimentalismo a buon mercato, che si può trovare ovunque, non c’è “inclusività” che tenga. La melassa resta melassa.
La vera domanda dunque non è come essere più “inclusivi”, ma che cosa proponiamo a tutti coloro ai quali diamo il benvenuto nella Chiesa cattolica?
Proponiamo un generico messaggio consolatorio o il Vangelo di Gesù? Indichiamo la strada per “star bene con se stessi” o la strada per la salvezza dell’anima nella vita eterna?
Chi continua a chiedere “inclusività” forse dovrebbe riflettere sul fatto che le chiese piene sono quelle in cui non si fanno discorsi sociologici sull’inclusività, ma si predica il Vangelo di Gesù e si attua una liturgia bella e dignitosa. Allo stesso modo, i conventi e i monasteri verso i quali si sentono attratti i giovani non sono quelli ridotti a brutte copie di centri sociali, ma quelli dove si prega e si adora il Signore.
Ora mi fermo, perché l’occhio sinistro è stanco. E col destro ho altro da seguire!
Aldo Maria Valli