Il sinodo, la comunicazione e quella voglia di controllo
Il documento finale del sinodo sui giovani, un mattone indigeribile, scritto da qualcuno che aspira all’onniscienza, tocca anche il tema dell’uso delle tecnologie della comunicazione. Lo fa nella sezione intitolata La missione nell’ambiente digitale, dove, dopo aver sostenuto che «l’ambiente digitale rappresenta per la Chiesa una sfida su molteplici livelli», si afferma che sono «gli stessi giovani a chiedere di essere accompagnati in un discernimento sulle modalità mature di vita in un ambiente oggi fortemente digitalizzato che permetta di cogliere le opportunità scongiurando i rischi» (n. 145).
Mi piacerebbe proprio sapere chi partorisce simili concetti. I giovani chiedono di essere «accompagnati in un discernimento»? Ma quali? Ma dove? Ma quando? Se mi guardo attorno, non vedo niente di tutto ciò. Vedo invece parecchi adulti e anziani, come il sottoscritto, che vorrebbero tanto essere «accompagnati» dai giovani a capire un po’ meglio e ad usare un po’ di più le diavolerie digitali. Ma quando lo chiedo alle mie figlie, loro prima sbuffano, poi dicono che hanno altro da fare e infine bofonchiano qualcosa di incomprensibile. E se poi, dietro mia insistenza, finalmente si degnano di spiegarmi qualcosa, parlano e smanettano così in fretta che non capisco niente! Io vorrei tanto «cogliere le opportunità» offerte da questi mezzi, ma non trovo nessuno che mi «accompagni»!
L’altro passaggio che nel documento finale è dedicato alla comunicazione è il seguente: «Il Sinodo auspica che nella Chiesa si istituiscano ai livelli adeguati appositi Uffici o organismi per la cultura e l’evangelizzazione digitale, che, con l’imprescindibile contributo di giovani, promuovano l’azione e la riflessione ecclesiale in questo ambiente. Tra le loro funzioni, oltre a favorire lo scambio e la diffusione di buone pratiche a livello personale e comunitario, e a sviluppare strumenti adeguati di educazione digitale e di evangelizzazione, potrebbero anche gestire sistemi di certificazione dei siti cattolici, per contrastare la diffusione di fake news riguardanti la Chiesa, o cercare le strade per persuadere le autorità pubbliche a promuovere politiche e strumenti sempre più stringenti per la protezione dei minori sul web» (n. 146).
Ora, a parte che trovo paradossale che dal Vaticano arrivi una lezione sulle fake news dopo che proprio il Vaticano, alcuni mesi fa, si rese protagonista di una mega fake new (ricorderete la presentazione alla stampa di un messaggio di Benedetto XVI spacciato come a favore di Francesco, quando invece il papa emerito declinava l’invito a scrivere un saggio di teologia a corredo di alcuni saggi prodotti da undici teologi per celebrare Bergoglio), quella proposta di «gestire sistemi di certificazione dei siti cattolici» ha un che di inquietante. Come vogliamo tradurre questo linguaggio burocratese in una sola parola? «Censura»? O forse «mordacchia»?
Chissà perché, di fronte a un’idea del genere mi viene alla mente il buon vecchio Partito comunista dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, con i suoi efficienti «uffici» nei quali solerti apparatčik valutavano, vagliavano, controllavano ed eventualmente manipolavano, censuravano e sanzionavano.
La proposta fa intuire che nei sacri palazzi quello della comunicazione, specie attraverso siti e blog, è evidentemente un nervo scoperto.
Ma, mi chiedo, come si potrebbe mettere in moto una simile macchina? Chi e come potrebbe tenere sotto osservazione una massa enorme di dati, notizie e commenti? Ci vorrebbe una sorta di Grande Fratello occhiuto e implacabile, un apparato poliziesco degno dei più vasti e sofisticati sistemi di controllo dei regimi totalitari. Ebbene, il Vaticano si sente attrezzato in proposito? E pensa di utilizzare a questo scopo la Segreteria per la comunicazione o di istituire un organismo apposito?
Circa il nome di un eventuale nuovo organismo, potrei suggerirne uno: che ne dite di qualcosa come Comitato per la sicurezza dello Stato? Non vi convince? Ma sentite come suona bene in russo: Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti. E in sigla è meglio ancora: KGB.
D’altra parte, alcuni esponenti della «Chiesa della misericordia» (vedi il caso del gesuita James Martin) hanno già fatto sapere come, secondo loro, bisognerebbe regolarsi nei confronti di certi siti, giudicati insopportabilmente tradizionalisti e conservatori: chiudendoli.
Tuttavia mi sa che i vari misericordiosi alla James Martin devono rassegnarsi. Per il momento la maggioranza di noi produttori di siti e blog non allineati vive ancora in paesi nei quali, bene o male, la libertà di pensiero e di espressione è tutelata. Dunque un grande sistema di «certificazione» sembra irrealizzabile.
Certo, capisco che questa cosa chiamata «libertà» sia intollerabile per chi ragiona in base a «certificati» e «certificazioni». Ma non saprei che farci. Bisognerà che i misericordiosi si rassegnino.
A tal proposito mi viene una domanda: chissà se Gesù, quando disse «il vostro parlare sia sì sì, no no; il di più viene dal Maligno» immaginò qualche sistema di certificazione. Ah, saperlo! D’altra parte, come ha autorevolmente osservato il generale dei gesuiti, padre Sosa, all’epoca di Gesù non c’era il registratore, e quindi ci resterà sempre il dubbio.
Mi sembra invece di ricordare una frase che suona così: «In tempi di menzogna universale, dire la verità è un atto rivoluzionario». L’autore? Un certo George Orwell. Uno che di Grandi Fratelli, sistemi di controllo e regimi dittatoriali, tutto sommato, si intendeva abbastanza.
Aldo Maria Valli