Contro la retorica dell’ascolto
Già altre volte in questo nostro spazio di riflessione abbiamo notato come nel pensiero cattolico si sia diffuso un sentimentalismo che ha poco a che fare con il Vangelo.
La conferma di questa che è a tutti gli effetti una corruzione del cristianesimo viene dal documento finale dell’ultimo sinodo sui giovani.
L’uso della parola «empatia», che tanto piace al mondo, è rivelatore. Ecco una Chiesa che, anziché indicare la strada verso la santità, preferisce raccomandare lo sforzo di mettersi nei panni degli altri. Che è una buona attitudine, s’intende, ma trova significato solo se serve per condurre le anime alla salvezza.
Invece nel documento finale del sinodo abbiamo la retorica dell’accompagnamento, del camminare insieme e dell’ascolto, senza che il fine di tutto questo accompagnare, camminare e ascoltare sia mai esplicitato con chiarezza. Ne deriva una Chiesa che non insegna più il timor di Dio e non mette in guardia dal peccato, ma dispensa consigli in vista di un generico benessere.
Proprio a questo argomento Samuel Gregg dedica un’interessante analisi sul Catholic World Report (https://www.catholicworldreport.com/2018/10/29/a-church-drowning-in-sentimentalism/) notando che il sentimentalismo ormai dominante si manifesta soprattutto nel modo di presentare Gesù Cristo. Il Cristo che con la sua durezza contro il peccato spesso sconcerta i suoi seguaci viene trasformato in un simpatico maestro liberal, un Gesù innocuo, amico di tutti, che non sembra avere nessuna pretesa di trasformate le nostre vite, ma, appunto, si limita da accompagnare e a consolare e, soprattutto, evita accuratamente ogni riferimento alla Verità, perché, se ne parlasse, turberebbe le coscienze di noi post-moderni che abbiamo ormai rinunciato a interrogarci sui grandi assoluti e pensiamo che una risposta possa arrivare soltanto dalla convivenza tra risposte diverse.
Questo Gesù sentimentalista ti incoraggia a sentirti bene con te stesso, a essere fedele alla tua coscienza, ad abbracciare la tua storia. È un Gesù che non giudica e garantisce un generico paradiso a tutti, perché tutti accompagna e tutti ascolta.
Ma questo non è il Cristo di cui ci parlano le Scritture. E giustamente a tal proposito Gregg cita un celebre passo di Joseph Ratzinger: «Un Gesù che sia d’accordo con tutto e con tutti, un Gesù senza la sua santa ira, senza la durezza della verità e del vero amore, non è il vero Gesù come lo mostra la Scrittura, ma una sua miserabile caricatura. Una concezione del Vangelo dove non esista più la serietà dell’ira di Dio, non ha niente a che fare con il Vangelo biblico. Un vero perdono è qualcosa del tutto diverso da un debole “lasciar correre”. Il perdono è esigente e chiede ad entrambi – a chi lo riceve ed a chi lo dona – una presa di posizione che concerne l’intero loro essere. Un Gesù che approva tutto è un Gesù senza la croce, perché allora non c’è bisogno del dolore della croce per guarire l’uomo» (Joseph Ratzinger, Guardare a Cristo, pag. 76, Jaca Book , 1986).
Ed ecco perché, spiegava ancora Ratzinger, «la croce viene sempre più estromessa dalla teologia e falsamente interpretata come una brutta avventura o come un affare puramente politico. La croce come espiazione, come “forma” del perdono e della salvezza non si adatta ad un certo schema del pensiero moderno. Solo quando si vede bene il nesso fra verità ed amore, la croce diviene comprensibile nella sua vera profondità teologica. Il perdono ha a che fare con la verità e perciò esige la croce del Figlio ed esige la nostra conversione. Perdono è appunto restaurazione della verità, rinnovamento dell’essere e superamento della menzogna nascosta in ogni peccato. Il peccato è sempre, per sua essenza, un abbandono della verità del proprio essere e quindi della verità voluta dal Creatore, da Dio».
Dalla misericordia al misericordismo, dal perdono al perdonismo, il passo può essere breve. Basta togliere di mezzo le legge divina e mettere al suo posto la coscienza individuale, trasformata in un assoluto.
Secondo Gregg – e sono d’accordo con lui – il sentimentalismo dilagante nella Chiesa sta riducendo la gravità e la chiarezza della fede cristiana. Non si parla più, o si parla raramente, o per vie traverse, di salvezza delle anime. Tuto diventa più leggero e impalpabile. Mentre il Dio rivelato in Cristo è sì misericordioso, ma è anche giusto e chiaro nelle sue aspettative su di noi, perché ci prende sul serio, il sentimentalismo lo riduce a un simpatico amico, a un compagno di strada che ci fa genericamente compagnia.
Gregg ricorda che il cattolicesimo ha sempre attribuito grande importanza alla ragione e, di conseguenza, all’oggettività del bene e del male. È la ragione illuminata dalla fede che ci permette di orientarci e di scegliere il bene anziché il male. Invece con l’avvento del sentimentalismo tutto si perde in una nebbia indistinta, dove trionfa il soggettivismo. Non esistono più un bene e un male oggettivi. Esiste solo la condizione soggettiva in base alla quale una situazione è interpretata. Di qui la tendenza a relativizzare e giustificare. Quella che ne risulta gravemente diminuita è la nostra capacità di conoscere la verità morale.
All’interno di questo processo si assiste parallelamente a una infantilizzazione della fede. Nella convinzione che la persona non sia in grado di sopportare il peso di una proposta radicale, che oppone nettamente la via della santità a quella del peccato, si cerca di indorare la pillola, di edulcorare il messaggio, per renderlo meno duro, più accessibile. Ecco così che la parola «peccato», che mette di fronte alla propria responsabilità, svanisce per lasciar posto a qualcosa di meno netto, e più autoconsolatorio, come «errore» o «ferita» o «dolore».
Il grande problema è la verità. Eppure Gesù, pur mostrandosi misericordioso, all’adultera dice: «Va’ e non peccare più».
Secondo Samuel Gregg è l’intero mondo occidentale che sta affogando nel sentimentalismo. La cultura popolare, i mass media, la politica, tutto è pervaso da un emotivismo che esclude la razionalità. Ciò che più conta è la «passione», la quale è certamente importante, ma può condurre a scelte devastanti se non è guidata dalla conoscenza oggettiva del bene e del male.
Ecco così che anche la fede non è più vissuta come adesione a un messaggio preciso, da accogliere razionalmente, ma per lo più come «cammino» personale, all’interno del quale io sono chiamato a «sentire» ciò che fa per me e mi permette di star bene.
Ora, provate a leggere la prima parte del documento finale sul sinodo dei giovani, dove si parla continuamente di Gesù che ascolta e cammina insieme. Vedrete che nel fare riferimento alla pagina evangelica dei discepoli di Emmaus, che in effetti racconta di come Gesù «camminava con loro», non viene detto che Gesù in realtà non si limita a questo. Gesù infatti, mentre cammina al loro fianco, interroga i discepoli per verificare che cosa hanno inteso di tutta la vicenda della sua morte in croce, e alla fine, senza fare troppi complimenti, li apostrofa così: «”Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui».
«Stolti e tardi di cuore!» dice Gesù. Ma che cosa resta di tutto ciò nel documento del sinodo? Nulla. L’impressione è che la pagina evangelica dei discepoli di Emmaus sia piegata all’esigenza di trasformare l’ascolto da mezzo a fine della pastorale per i giovani.
Ascoltarci reciprocamente può essere importante, ma non conduce da nessuna parte se non ci mettiamo seriamente in ascolto, tutti insieme, di Colui che, solo, ha parole di vita eterna.
Aldo Maria Valli