Che la nostra sia la società «liquida» è diventato uno slogan. Si dà ormai per scontato che, specialmente sotto il profilo morale, non ci possano essere punti di riferimento stabili e sicuri. I nostri figli crescono immersi in questo clima. Poiché, si dice, non esiste la verità, ma esistono solo porzioni di verità soggettive, l’idea stessa di autorità morale è messa in discussione. Nessuno – questo il ragionamento –può avere tale autorità. L’unica strada percorribile è garantire la convivenza dei diversi punti di vista. Una logica alla quale anche la Chiesa spesso sembra piegarsi cedendo al relativismo imperante.
Ne parliamo con un osservatore attento alle questioni che riguardano non solo la Chiesa, ma la qualità stessa dell’umanità del nostro tempo: Ettore Gotti Tedeschi, il cui ultimo libro, Colloqui minimi. L’arte maieutica della polemica, sarà presentato al Festival di Fede & Cultura a Verona domenica 25 novembre.
Economista e banchiere, già presidente dell’Istituto per le opere di religione dal 2009 al 2012, Gotti Tedeschi da tempo sostiene che le vere radici del disordine, in tutti i campi, sono morali e alla fine riguardano il rapporto dell’uomo con Dio. Un approccio decisamente sui generis rispetto al pensiero dominante, specie per chi si occupa di questioni economiche.
Ovviamente le vicende legate allo Ior lo hanno amareggiato non poco. Ma da quella esperienza, che lo ha tanto provato sotto il profilo spirituale oltre che professionale, Gotti Tedeschi ha tratto la forza per un impegno ancora più marcato a difesa del pensiero cattolico. Le sue riflessioni, anche se a volte venate di profondo dispiacere per la situazione attuale, non sono mai improntate alla rassegnazione o allo scoramento. Perché la Provvidenza agisce e, anche se i suoi disegni possono apparirci a volte misteriosi, tutto contribuisce al bene.
Dunque, torniamo alla questione dalla quale siamo partiti: la nostra società «liquida», che non ha, e nemmeno vuole avere, a quanto sembra, solidi punti di riferimento, neppure in campo morale. Una società nella quale, in maniera sorprendente, ormai anche chi possiede l’autorità morale preferisce lanciare inviti al «realismo» piuttosto che indicare che cosa è giusto e che cosa è sbagliato.
Domanda – Ma davvero si può fare a meno di un insegnamento chiaro e non equivoco, non da interpretare, da parte dell’autorità morale? E che cosa rispondere alla tendenza, assai marcata oggi, che enfatizza la prassi a discapito della dottrina?
Ettore Gotti Tedeschi – Se le idee non influenzano il comportamento, finisce che è il comportamento a influenzare le idee. Ma la famosa «realtà» in cui dovremmo riconoscerci è, per lo più, il frutto di confusi o corrotti ideali. Se vogliamo essere «sale della terra» non dobbiamo sospendere il giudizio circa la realtà. Dobbiamo comprenderne le cause e dobbiamo volerla influenzare. Tutto ciò vale anche sotto il profilo morale. Se ci limitassimo a considerare le sole conseguenze morali dei comportamenti, senza prendere in considerazione le cause, non faremmo la diagnosi dei problemi. Conseguentemente sbaglieremmo la prognosi e falliremmo nell’intento di risolverli. Hai mai pensato a quale significato avrebbe avuto l’invito a essere «realisti» a Sodoma e Gomorra?
E che succede se l’autorità morale diventa a sua volta confondente?
Premesso che non sono teologo, direi che l’autorità morale diventa confondente quando disconosce di essere autorità morale. E ciò avviene quando evita di indicare la Verità, quando dice che non ci sono precetti assoluti, ma tutti sono discutibili. Ciò equivale ad ammettere che ogni dogma è interpretabile nel tempo secondo determinate circostanze. Equivale ad affermare che la verità è fatta dalla prassi e che la fede è esperienza esistenziale. Ma, se così fosse, l’autorità morale riconoscerebbe che, non essendoci più verità e principi da difendere a tutti i costi , «non negoziabili», la fede non deve più influire su nulla. Deve essere ridotta a fatto privato, sentimentale, senza conseguenze sulla vita delle persone, dei gruppi, delle comunità. Di qui l’idea che i pastori devono limitarsi ad ascoltare, che non devono insegnare, che il mondo va ascoltato senza giudicarlo e correggerlo, come se il peccato originale non fosse mai esistito. Indirettamente, è come se l’autorità morale ammettesse che il dubbio è positivo, il pluralismo teologico benefico, la fedeltà dottrinale contraria alla misericordia, la coerenza dottrinale soffocante per lo spirito di carità. In pratica, l’autorità morale non servirebbe più a nulla, perché ognuno opererebbe in coscienza avendo trasformato la coscienza in un assoluto. Dal punto di vista dei comportamenti diverremmo tutti «pseudo-protestanti» e rischieremmo di fare il bene o il male secondo ciò che più ci soddisfa e appaga. E naturalmente non ci porremmo il problema di essere salvati, perché ci sentiremmo liberi da questo «scrupolo».
E che succede quando da parte dell’autorità morale non c’è un chiarimento circa le confusioni più frequenti e i loro effetti?
Se l’autorità morale non si comporta come tale, indicando principi morali oggettivi, lascia che sia il singolo a decidere che cosa è corretto o no, ma in questo caso si cade nel soggettivismo che in pratica coincide con l’agire di tipo politico: non ci si comporta in base a precetti morali vincolanti, ma in base all’opportunità. Potrebbe sembrare un progresso, ma è un regresso. È una mortificazione della necessaria ricerca della verità e dunque una mortificazione dell’uso stesso dell’intelligenza. Pensiamo alla confusione circa il concetto di solidarietà o circa l’eguaglianza sociale. Quando si sostiene che l’origine dei mali sociali è l’inequità si commette un tragico errore, si cade nell’aspirazione rivoluzionaria e deresposabilizzante. Perché l’inequità non è la causa dei mali sociali, ma è la conseguenza dei vizi umani: l’avidità, l’egoismo, l’indifferenza nei confronti del prossimo. È conseguenza della mancanza di virtù praticate. Le quali non sono praticate anche perché non sono insegnate. Un’altra confusione risiede nell’idea che ci sia una «economia che uccide». Questa convinzione confonde fini e mezzi (l’economia è solo un mezzo) e non spiega che è l’uomo che rende l’economia buona o cattiva, in funzione del senso morale in base al quale egli interpreta la vita.
E questa confusione come si riflette sulla visione di che cosa è etico o no, e sul conseguente comportamento?
A causa di questa confusione, «etico» diventa il comportamento realistico, pragmaticamente lecito. Che in pratica oggi coincide con due dogmi della modernità: non creare conflitti con nessuno e non danneggiare l’ambiente. Ma tutto ciò non può bastare. Soprattutto non può bastare al credente, il quale non considerare etico il comportamento che non si fonda più su criteri di giudizio rispetto alla verità. Se la persona credente non giudica, se non applica la sua fede alla vita vissuta, se non trasforma la fede in vita, come può santificarsi?
Rispetto a fenomeni complessi quali la povertà, l’ineguaglianza, le migrazioni, il dissesto ambientale, quali sono le conseguenze di una mancata analisi delle cause morali?
Sono conseguenze disastrose, perché non solo, lungo questa via, non risolviamo i problemi, ma ne creiamo altri. La mancanza di chiari criteri morali determina un moralismo vuoto. I problemi della povertà e della diseguaglianza si risolvono forse maledicendo i ricchi? I problemi delle migrazioni si risolvono forse colpevolizzando i popoli verso i quali si dirigono i migranti? Quando il papa spiega che la Chiesa deve andare nelle periferie ed evitare i salotti (il che significa che deve occuparsi dei poveri e non dei ricchi), sembra ignorare che è il ricco che ha le risorse per aiutare i meno fortunati, e dunque la Chiesa dovrebbe essere particolarmente attenta all’apostolato verso i ricchi, per insegnare loro a santificarsi utilizzando i beni secondo precisi criteri morali. Non lo si dice mai, ma è evidente che, per fare opere di evangelizzazione, la Chiesa deve essere ricca, nel senso che deve disporre di risorse. Ma le risorse affluiscono alla Chiesa solo se essa insegna a fare il bene. I fedeli non fanno affluire risorse alla Chiesa quando si accorgono che essa non insegna a fare il bene. Così diventa povera. Ma così non serve, perché senza risorse non può fare nulla.
Come si diceva, si assiste a una crescente influenza del pensiero protestante, tale da contagiare il cattolicesimo. Perché questo pensiero esercita tanto fascino? E che dire della coscienza in senso luterano?
Affascina perché libera il comportamento umano dagli scrupoli imposti da un’autorità morale e dal controllo che essa esercita. Perché separa fede e opere e ci lascia liberi di compiere ogni azione in funzione di una coscienza spesso malformata. E infine perché giustifica ogni comportamento. Sembra la religione perfetta, laicizzata, per un mondo globale. Una religione i cui sacerdoti stanno nel mondo, non in chiesa. Circa l’uso della coscienza in senso luterano, credo che siamo di fronte a un abuso di incoscienza, non di coscienza. Se in coscienza (nella certezza di essere giustificato) intendo che fare il male mi dà più vantaggi che fare il bene, perché dovrei fare il bene? Anche le SS naziste agivano in coscienza. La coscienza sceglie il bene non quando si autogiustifica, ma quando si orienta a Dio e si lascia illuminare dalla Redenzione di Cristo. Sostituire la Redenzione con il «reale» è un azzardo tipico della gnosi modernista che promette di valorizzare la dignità dell’uomo nel mondo moderno prescindendo dalla Verità evangelica.
Sembra a volte che nel pensiero cattolico ci sia il germe dell’autodissoluzione. L’abbraccio col mondo (in base a una misericordia generica) è giudicato più importante della salvaguardia e della testimonianza della Verità. Perché?
Si direbbe che si sia deciso di sostituire evangelizzazione e apostolato con un generico dialogo verso i «diversi», che esprima misericordia invece di correzione amorosa. Ma questo atteggiamento è il contrario della misericordia, e lo è anche verso chi è considerato «diverso». Misericordia vera è condannare l’errore correggendo l’errante e avvicinandolo ai sacramenti. Quando mi contestano sostenendo che con l’ateo è troppo difficile farlo, rispondo che è difficile farlo per chi non ha fede. Per riuscirci dobbiamo diventare anche noi «atei», atei rispetto a tutti gli dei che non sono il nostro unico Dio trinitario, il quale vuole che portiamo a Lui tutti.
Perché i cattolici appaiono così timidi quando si tratta di parlare delle virtù morali e non le insegnano più?
Le ragioni sono tante. Tra le principali penso ci sia la volontà di riconciliarsi con il mondo moderno, di non scontrarsi più con esso, magari per paura di poter essere emarginati. Di qui la tendenza al compromesso, in base a una morale più laica, non più evangelizzatrice, non più desiderosa di incidere sulla vita, anche sulle leggi, in materia etica. Di qui anche tante scuse che vengono inventate, come quella (davvero umiliante per la nostra intelligenza di credenti) che parla dell’evoluzione dei dogmi e della mancanza di certezza circa ciò che Gesù ha effettivamente affermato, perché «allora non c’era il registratore». Perbacco! Ma se il criterio fosse quello del registratore, potremmo parlare di storia solo a partire dal 1900, quando Edison lo inventò! Quanto ai dogmi che dovrebbero evolvere, siamo in pieno materialismo. È vero, la natura evolve, ma l’uomo è fatto di materia e di spirito, e lo spirito non evolve. Però può regredire! Anche l’idea che non ci siano principi non negoziabili è figlia del materialismo. Negare l’intangibilità della vita umana, che è tale in quanto dono di Dio, significa equiparare l’uomo a una qualsiasi forma di vita lasciandolo così in balia di qualunque potere.
A cura di Aldo Maria Valli