Padre nostro vecchio e nuovo. «Quel “non abbandonarci alla tentazione” è un cedimento al buonismo dilagante nella Chiesa. La vecchia traduzione resta la migliore». Parla monsignor Nicola Bux
«E non ci indurre in tentazione» oppure «e non ci abbandonare alla tentazione»?
Fra tanti motivi di divisione già esistenti, ora i cattolici italiani ne hanno un altro, che riguarda addirittura la preghiera insegnata da Gesù. Ma perché si è voluto cambiare? Che cosa ha spinto i vescovi a questa decisione? E ora che succederà?
Ne parliamo con monsignor Nicola Bux, liturgista, già consultore dell’Ufficio delle celebrazioni liturgiche di Benedetto XVI, consultore della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti e docente di Liturgia orientale e Teologia sacramentaria nella Facoltà teologica pugliese.
Monsignore, come giudica il cambio introdotto dalla Cei?
Mons. Bux – È noto che san Francesco era desideroso di far conoscere Gesù a quanti più possibile; così diceva a frate Leone che la letizia perfetta non è nella carità, nella povertà e in tante altre cose che pure il frate gli andava elencando. No, la letizia perfetta era lì dove, bussando alla porta per comunicare il Vangelo, non avessero ricevuto risposta, e ancor di più se, aprendosi la porta, avessero ricevuto rifiuto e bastonate. Il Santo intendeva insegnare proprio la possibilità di passare attraverso la prova, perché è il Signore che lo permette per suo amore. Tutto questo a causa del nome di Gesù e del Vangelo. Evitare la prova significa vanificare la Croce; già Pietro voleva evitare a Cristo la Croce, ma sappiamo che Gesù gli disse che era una tentazione satanica.
Sebbene il cambiamento fosse stato introdotto nel lezionario, in questi giorni di discussione sul Padre nostro molti si domandano se la Chiesa, per duemila anni, non si sia sbagliata nell’«obbedire al comando del Salvatore» e se sia stata «conforme al suo divino insegnamento». Se proprio si riteneva incomprensibile la frase in questione, non bastava spiegarla nella catechesi? L’altro interrogativo che ci si pone è se questo cambiamento non sia la premessa di altri, miranti a cambiare la Preghiera Eucaristica, in specie la formula consacratoria. Ciò premesso, l’osservazione che fa il cristiano orientale e chi sta all’esterno della Chiesa è: perché cambiare proprio la Preghiera che ha insegnato il Signore, e che costituisce la formula base della preghiera cristiana? Così facendo, quanti l’hanno imparata da piccoli al catechismo o da adulti, al momento della conversione, e che non praticano ordinariamente, rimarranno fuori dal «nuovo corso»: in Italia si stima circa il 70 per cento. Si potrà ancora dire di non avere escluso nessuno e di essere stati «pastoralmente» accorti?
A suo giudizio qual è la traduzione più corretta del passo in questione?
Mons. Bux – Diversi esperti sono intervenuti, basta andare sul web, per spiegare l’interpretazione corretta del «non ci indurre in tentazione», in base ai testi originali aramaico, greco e latino. La più convincente sembra proprio quella tradizionale, perché san Girolamo ha intenso tradurre col verbo latino inducere (che significa introdurre, sinteticamente indurre) la possibilità che il Signore ci sottoponga alla temptatio, al test per provare se siamo fedeli, alla prova. È noto che la Sacra Scrittura, innumerevoli volte, spiega che Dio introduce o sottopone alla prova quelli che ama; come nel caso di Giona. Gesù del resto ha parlato del «segno di Giona», ossia la prova attraverso cui sarebbe passato egli stesso e quanti altri avessero voluto seguirlo: la passione e la morte, «primo tempo» del mistero pasquale. E il «secondo tempo», la risurrezione, dipende dal primo. Nel Getsemani Gesù ha chiesto al Padre di allontanare «il calice»: la terribile prova della Croce. Dunque, per verificare che siamo fedeli alla sua Alleanza, non si può chiedere a Dio di «non abbandonarci alla tentazione», ma di non introdurci nella prova e di liberarci dal maligno. La nuova traduzione appare invece in contrasto col comportamento del Signore, come ci è stato rivelato nell’Antico e specialmente nel Nuovo Testamento.
Secondo lei perché si è voluto cambiare?
Mons. Bux – Si deve tener presente che dalla pubblicazione della terza editio typica latina del Missale Romanum nel 2002 la Cei doveva dar seguito agli adattamenti in essa avvenuti. Tuttavia, non era certo tenuta a questi cambiamenti così importanti. Ma l’ideologia del cambiamento, non disgiunta dall’idea che il Messale non sia norma, ma canovaccio da interpretare e modificare (come sosteneva il liturgista trentino monsignor Rogger, cosa insegnata pure negli istituti liturgici) ha fatto il resto. In tal modo la regula fidei, che la Preghiera del Signore massimamente racchiude, finisce per piegarsi alla concezione buonista di Dio, diffusa oggi tra i cattolici. A suo tempo, i protestanti tedeschi non condivisero la proposta dei vescovi della Conferenza episcopale della Germania, di introdurre tale cambiamento, e questi non lo fecero. Gli ortodossi che sono in Italia, per esempio i romeni, hanno conservato «e non ci indurre in tentazione». La smania di cambiamento è espressione del «cambio di paradigma» o «rivoluzione culturale» che si vuole fare nella Chiesa odierna, come si deduce anche dall’ultima intervista del cardinale Bassetti. La Chiesa non è considerata come la Sposa di Cristo, da preservare e trasmettere alle nuove generazioni, ma come qualcosa da manipolare a nostro piacimento.
E ora che cosa succederà concretamente?
Mons. Bux – È tutto da vedere. Negli ultimi decenni postconciliari, come appena detto, fra i sacerdoti ha preso piede l’idea che i testi del Messale, e liturgici in genere, non siano normativi. Così si assiste a Messe nelle quali i canti del Gloria e del Sanctus modificano il testo per esigenze melodiche, invece di piegare la melodia alle esigenze del testo, come la grande musica sacra ha sempre fatto. Poi si è cercato di modificare, nella formula consacratoria, il «pro multis» in «per tutti». Il cambiamento della traduzione del Pater noster va incontro a quelli che si sono fatti un’idea per la quale il Dio rivelato da Gesù Cristo non è giudice e remuneratore delle opere buone e cattive compiute dall’uomo; ma certamente non è questa la concezione della Tradizione apostolica e patristica trasmessa dalla Chiesa cattolica, che dice: se da Dio abbiamo avuto il bene, dobbiamo accettare anche il male. Dunque, con questa traduzione, si approfondisce la divisione nella Chiesa.
Lei dirà la preghiera secondo la nuova formula o come in passato?
Mons. Bux – Un mantra spesso ripetuto è che bisogna tener conto delle esigenze pastorali. Ma un pastore vero dovrebbe domandarsi: è «pastorale» ignorare le perplessità e le critiche di tanti fedeli? Li bollerà sbrigativamente come tradizionalisti? Un pastore potrebbe ignorare pure una sola pecora del suo gregge? Il cardinale Bassetti ha detto tra l’altro che si può sempre continuare a recitare il Pater noster in latino. È noto del resto che il Messale tradotto in varie lingue, quindi anche quello italiano, riporta in sequenza al testo italiano del Pater noster quello latino. Dovrebbe essere così anche nel nuovo. Papa Paolo VI aveva auspicato che in tutti i Messali, nelle lingue correnti, fosse riportato a fronte il testo in latino, al fine di preservare il termine di paragone permanente fra la lingua della Chiesa e le lingue soggette a continua evoluzione.
Chi continuerà a dire «e non ci indurre in tentazione» sarà considerato fuori dalla comunione?
Mons. Bux – Tenendo conto dei tanti adattamenti oggi consentiti o apportati arbitrariamente, in particolar modo alle preghiere, oltre che ai riti, nessuno potrebbe considerare fuori dalla Chiesa chi continuerà a recitare il Pater noster nella versione in cui l’ha appreso da piccolo e che la Chiesa ha usato per secoli. Ciò che era sacro resta sacro, diceva Paolo VI, e non può essere all’improvviso proibito, ha aggiunto Benedetto XVI. Non ha forse ribadito più volte papa Francesco che bisogna costruire ponti e non muri? Porremo un altro impedimento all’unità dei cristiani, a cominciare in casa cattolica? D’altronde, per recitare la preghiera del Padre nostro con gli ortodossi, con la formula tradizionale che loro hanno conservato, almeno per motivi ecumenici, non dovremmo cambiarla.
A cura di Aldo Maria Valli